La testa della vipera/XVII
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XVII.
Emilio, quando Cesare si fu partito da lui, ordinò al servo di andare al villaggio a far allestire il carrozzino, perchè fra un’ora al più, egli sarebbe partito, poi, rimasto solo in casa, egli finì di preparare una sua valigetta, si pose in tasca tutti i denari e i valori, e visto che mancavano appena dieci minuti alle sei e mezza, prese sulla tavola del salotto la rivoltella che già aveva sceverata dalle altre, e si mosse per uscire. Ma sulla porta s’incontrò in una donna che entrava impetuosa. Era Matilde.
Svegliatasi poco dopo la partenza d’Alberto, la misera donna stette dapprima in un momento di fortunato oblìo di quanto era avvenuto; poi la mente ancora confusa travide la funesta verità, ma annebbiata ancora, ed essa si domandò se era un angoscioso sogno che avesse fatto, oppure una crudele realtà. Aimè! il dubbio non durò a lungo. Il sentimento della brutta realtà invase ad un tratto, quasi con violenza, l’animo della poveretta; essa sorse a sedere sul letto: gettandosi le mani alla fronte e chiamando con voce tremula per angoscia e paura: Alberto! Alberto! Nessuno rispose. Matilde volle scendere dal letto; ma si sentì così fiaccata, che si persuase non avrebbe potuto reggersi in piedi. Afferrò il cordone del campanello e suonò. Le altre mattine Lisa era sollecita ad accorrere, quel giorno nessuno venne. Matilde tornò a suonare parecchie volte con crescente forza finchè riuscì a scuotere la cuoca nella lontana cucina e la fece accorrere al letto della padrona.
Questa apprese così che la Lisa e Battista non si trovavano da nessuna parte, che all’alba era venuto il servo del signor Lograve con un biglietto pel signor Cesare e che poco dopo i cognati erano usciti insieme. Dov’erano andati? — Ah! la cuoca non lo sapeva, perchè dalla sua cucina non aveva potuto vedere da qual parte si fossero diretti. Matilde mandò un gemito. Era certo che la provocazione era venuta con quel biglietto di Emilio, e che il duello doveva aver luogo, forse succedeva in quel momento, forse già era avvenuto!
Questa idea, questa terribile paura le ridiede un poco di forza. Si buttò giù dal letto, si fece ajutare dalla cuoca a vestirsi, che da sola non avrebbe potuto. E intanto la sua testa faticosamente, penosamente lavorava.
Maledizione a quel sonno che l’aveva tenuta inerte, mentre avrebbe potuto agire. Agire? Ma come? Che cosa avrebbe essa potuto fare per impedire il passo fatto da Emilio? Le pareva che parlando con Alberto un’idea per ciò le si fosse affacciata: ora quest’idea di cui sentiva pure come una traccia nel cervello, si rifiutava di lasciarsi rievocare, appariva appena, vaga, inafferrabile e svaniva in un bujo che faceva smarrirsi quel povero spirito doloroso. Ma e ora che cosa era da farsi? forse si battevano... Dove?... Oh saperlo!... Bisognava scoprirlo, indovinarlo... Ella si sarebbe gettata là in mezzo a loro, avrebbe fatto riparo di sè al padre de’ suoi figli. No, non l’avrebbe lasciato ammazzare. Ma dove andare? e sola, svigorita come si sentiva? Se suo padre potesse ajutarla!... Ma sarebbe stato necessario apprendere tutta la brutta verità a quel povero vecchio malaticcio, che ne avrebbe chi sa quanto sofferto! Matilde ricordò a tal punto il soporifero dato al convalescente da Emilio, e sentì rimorso di non averci pensato prima. Si trascinò nella camera di suo padre. Questi svegliavasi appunto allora; disse aver dormito sodo, ma di un sonno pesante che parevagli averlo stancato più che sollevato, e che gli aveva lasciato il capo confuso, il cervello come vuoto, la bocca allappata, lo stomaco oppresso.
Matilde si convinse viepiù che da quel poveretto non poteva sperare ajuto nessuno, e che era obbligo di carità il tacergli affatto ogni cosa. Si tolse, con grande pena di lui, dal letto del padre e passò nella camera dei figli che dormivano ancora tutti tranquillamente: la loro vista le fece sentire più forte, più imminente la necessità in lei di agire. Per la finestra aperta vide nel salotto a pian terreno del palazzotto Emilio presso alla tavola su cui stavano parecchie rivoltelle. Ah, fortuna! Egli era ancora in casa; s’era ancora in tempo. Matilde si gettò sulle spalle il primo mantelletto che le capitò sotto mano, e corse al palazzotto.
— Tu qui, Matilde! esclamò Emilio, arretrandosi d’un passo per lo stupore.
Matilde non rispose; entrò, prese a un braccio Emilio e con forza superiore alla sua solita, che la disperazione dava alle sue membra un poco prima sfinite, lo trasse nel salotto, dove stette innanzi a lui, ansimante, premendosi colla mano il cuore che le batteva da rompersi.
— Che cosa vuoi? le chiese ruvidamente Emilio, che sentiva ancora al cospetto di lei la vergogna dei trattamenti subiti dal marito di essa.
— Tu vai ad assassinare Alberto, diss’ella con voce soffocata.
Un infernale sogghigno di trionfo si disegnò sulle labbra di Emilio.
— Vado a vendicarmi!
Il petto oppresso da una inesprimibile angoscia, la gola serrata da non poter parlare, Matilde strinse forte il braccio di lui, e, scuotendo il capo, fiammeggiando dagli occhî, non potè pronunziare che un monosillabo:
— No! no!
Emilio liberò violentemente il suo braccio.
— Ah no? proruppe coll’impeto de’ suoi pessimi istinti, della sua furente passione, del suo malvagio talento. Ah no?... E chi me lo impedirà?... Tu forse?... Puoi tutto su di me, fuor che questo: tu la cagione dei miei più forti dolori, della infelicità della mia vita... Ti ricordi quando sono venuto a pregarti, a metterti ai piedi l’anima mia, e tu mi hai crudelmente con tanto disprezzo respinto?... Tu potevi far di me non solo un uomo felice, ma buono, migliore di tanti a cui il difetto di malvagità non è che un difetto di passione e d’intelligenza; hai voluto invece rendermi disgraziato, invidioso, odiatore di tutto e di tutti... e della vita, e fin di me stesso... Pensa qual odio si è accumulato in me contro chi si godeva quel bene ch’io non potei conseguire! Te lo dissi allora: guai se ad alcuno dài quell’amore che a me neghi così oltraggiosamente: tu mi rispondesti che non mi temevi, che l’uomo da te amato bene avrebbe saputo difendersi dall’odio mio... Ebbene, vediamolo!... Si difenda! Vita contro vita; egli, sorretto dal tuo amore, io dal mio odio; a lui, se vincitore, in premio il tuo amplesso; a me le tue lagrime.
Mentre egli parlava, in Matilde s’era venuta un poco quietando l’agitazione del sangue e dell’animo; essa potè a sua volta trovar le parole, e cominciò a dire con voce debole, ma vibrante di profonda emozione:
— Se il tuo odio volesse appagarsi solamente delle mie lagrime e del sangue dell’uomo che tu odii, il che vuol dire anche del mio, perchè a quell’uomo io non sopravviverei...
Emilio fece un atto fra d’ira, di minaccia e di crudeltà.
— No, non gli sopravviverei, ripetè essa con più forza. Se tu ti soddisfacessi della morte di lui, e mia, sarebbe un’opera iniqua, scellerata, ma che si può comprendere. Il tuo odio invece vuole colpire, più ancora di quelli che odii, degli innocenti che nulla ti hanno fatto, e tale che anzi può vantare titoli alla tua riconoscenza...
— Chi? domandò aspramente Emilio.
— Chi?... E i miei figli?... E mio padre?
— I tuoi figli?... Sono sangue suo; li odio al pari di lui.
— E mio padre?... Egli ti fu amorevole padrino, ti difese nell’infanzia...
Emilio la interruppe.
— Ha fatto troppo poco, perchè io ora sacrifichi per lui quell’unica cosa che mi rimane cara al mondo, la mia vendetta, perchè io vada a farmi uccidere...
— Uccidere?... Ah no!
— E che cos’altro sei tu venuta a domandarmi, se non questo? Che io vada ad espormi alle palle di colui senza cercare da parte mia d’offenderlo; in breve, che mi lasci ammazzare come un stupido... chè non sarei altro.
— Ti domando invece di non andarci, disse in fretta Matilde.
— Come? interrogò Emilio, quasi non avesse capito.
— Sì, rispose ella, ti domando di non andare a questo orribile duello.
— Ma sei matta!... Mi domandi ancora peggio di quel che credevo... Che tu, sapendomi sicuro del mio colpo, fossi venuta a pregarmi di restituirtelo azzoppato, ma vivo, colui, è una temerità a cui non posso far buon viso, ma che posso tollerare: ma venirmi a dire che, per salvare lui, io mi macchii d’una viltà...
— Nessuno ti potrebbe accusare.
— E io?... E lui?... Oh donne, donne, che credete tutto il mondo debba cedere ai vostri desiderî!... Ma tu hai dunque obliato quanto è successo, quanto hai visto tu stessa cogli occhî tuoi?... Io sono stato assalito brutalmente, con prepotenza percosso nel modo più oltraggioso, tanto che nessuno, fosse pure un santo, lo potrebbe perdonare; ne richiedo, com’è mio diritto, la riparazione, e quando questa mi si dovrebbe dare, io mancherei, fuggirei?... Oh per Dio!... tu hai l’audacia di domandarmi addirittura l’impossibile.
— Emilio! Emilio! esclamò Matilde stringendo le mani quasi in atto di preghiera, e mettendo nella sua voce una intonazione più calda. Nessuno, ti ripeto, potrebbe accusarti... Io ti difenderei... Ogni anima bennata... che dico?... Tutti, tutti riconoscerebbero in questo un atto di generosità, un atto di cui la tua anima deve pure essere capace... Pensa che avresti una riconoscenza eterna in me, ne’ miei figli, che ti benediranno e pregheranno per te tutta la vita... Oh, ci deve pur essere nel tuo cuore una fibra che si commova al pensiero di essere benedetto come il salvatore d’una famiglia!... Pensa al tempo in cui ti sarà sopraggiunta la vecchiaja, in cui s’accosterà il giorno della morte. Non sai tu che il pensiero del male che avrai commesso ti affannerà le ultime tue ore? che vedrai i fantasmi delle tue vittime apparirti ad imprecare e maledire? Invece il ricordo della generosa azione ch’io ti domando, ti sarà di conforto e di speranza!...
Parve a questo punto a Matilde di vedere dileguato dal volto del cugino quel sogghigno scettico e ironico con cui egli aveva ascoltato fin allora le parole di lei e un’ombra di commozione manifestarglisi negli sguardi. Era invece che la emozione della giovane donna dava alla bellezza di lei nuove attrattive, nuovo splendore, e, a dispetto di tutto, ridestavasi in lui la fiamma della concupiscenza.
Essa, illusa, gli si fece più presso, gli prese le mani; pensando ai figli, la madre superò ogni ripugnanza, ogni rancore, ogni disprezzo per quell’uomo, e con voce piena di supplicazione, quasi d’affetto, continuò:
— O Emilio!... Per tutto quello che c’è di più sacro sulla terra, per l’anima tua, se tu possa esser lieto e felice, non rigettare una povera madre che t’implora... Io sono stata sdegnosa e superba teco... Vuoi che mi umilii a te dinanzi? Eccomi a’ tuoi piedi! Abbi pietà di me, abbi pietà di mio padre, abbi pietà de’ figli miei!
E si gettò ginocchioni, tenendolo sempre per le mani, sollevando verso di lui quel suo bel viso acceso di commozione, di desiderio, di speranza, que’ suoi occhî splendidi, pieni di tanta luce, di tanto amore. Era, in quell’atto, così potentemente bella, che tutto il fuoco della passione in Emilio divampò, divenne irresistibile. Egli si chinò verso di lei, gli occhî fiammeggianti di libidine, le labbra tumide e frementi; l’afferrò alla vita per sollevarla a sè, e balbettò con voce rotta dalla intensità della passione:
— Ebbene, sì... se vuoi!... Egli mi aspetti là... invano... e tu compensami col tuo amplesso.
Per Matilde fu come se vedesse a un tratto drizzarlesi innanzi il capo d’una vipera. Balzò in piedi, si sciolse bruscamente dalle braccia di lui, e respingendolo da sè con tutta la sua forza, esclamò:
— Miserabile!... miserabile!... Mi fai ribrezzo ed orrore!...
Successe un momento di silenzio. Emilio si morse le labbra fino al sangue; poi parlò con una forzata calma, forse più iniqua della collera.
— Sta bene!... Tu hai detta l’ultima parola del nostro colloquio... Non puoi più aggiunger nulla, nè io voglio più ascoltar nulla.
E siccome ella trovavasi innanzi alla porta, egli fece un cenno imperioso perchè si levasse di lì.
— È tardi... ho già troppo indugiato... Sgombrami il passo.
Essa invece, risoluta, fiera, si portò all’uscio e disse, con tono di violenza:
— No, no, non uscirai di qui... No, no, non ti lascierò ammazzare il mio Alberto.
— Lasciami andare! gridò egli coi denti stretti e il furore dell’anima negli occhî.
— No!
Emilio afferrò la donna per un braccio, con tutta la sua forza la trasse via dall’uscio e per una spinta brutale la mandò barcollante nell’interno della stanza, poi s’affrettò ad aprire l’uscio.
Matilde sarebbe caduta in terra se non avesse incontrato la tavola, a cui si sostenne; la sua destra si posò sopra una delle rivoltelle che là si trovavano; le sue dita, quasi involontariamente, ii serrarono intorno al calcio dell’arma.
— Fermati! ella gridò ad Emilio, fermati, in nome di Dio!
Egli si volse a lei col suo maledetto ghigno, e le rispose ferocemente:
— No... e puoi contare che il tuo Alberto è morto.
Fece per partire. Matilde sollevò la rivoltella che aveva istintivamente impugnata. Che cosa successe in lei, quale coscienza ella avesse degli atti suoi, in quel momento, non seppe pure spiegar mai a sè stessa; sparò...
Emilio, che già aveva un piede al di là della soglia, gettò un gran grido; si volse ratto.
— Mirato giusto, per Dio! esclamò, e agitate le braccia, cadde lungo e disteso sul pavimento.
Madide rimase un momento immobile, sbalordita, coll’arma in mano; poi, capito quel che era successo, mandò una esclamazione d’orrore, gettò via l’arma e s’accostò al caduto.
— Emilio! Emilio!
Egli giaceva supino, e nelle pupille che vagavano incerte, veniva spegnendosi la vita.
— Sei ferito?... Cos’hai?... ella domandò, chinandosi su di lui.
Egli non diè segno d’aver inteso; le sue pupille s’offuscavano sempre più. Siccome in lui non appariva nessuna traccia di ferita, Matilde, benchè col cuore serrato dallo sgomento, non poteva persuadersi che sì funeste conseguenze avesse quel suo atto quasi inconscio; ma ad un tratto vide di sotto il capo del caduto spuntare e scorrere un rivolino rosso che si venne allargando e fece in breve sullo spazzo una pozza di sangue.
La palla aveva colpito Emilio dietro l’orecchio destro: la mano inesperta di quella donna disperata aveva realmente schiacciata la testa della vipera.
La vista di quel rivolo di sangue empì d’orrore e di spavento Matilde; essa mandò un grido, scavalcò il corpo del caduto, e, mezzo pazza, un tumulto nella testa, lo spasimo nel cuore, la soffocazione alla gola, corse e venne a cadere svenuta alla porta della villetta dove Cesare la raccolse.
⁂
Il servo di Emilio, tornato a casa dopo averne eseguiti gli ordini, trovò il padrone steso per terra e che pareva morto.
Gridò all’accorr’uomo, ma nessuno venne ad ajutarlo, onde egli, trascinato, come potè, il giacente fino al sofà del salotto medesimo, non sapendo che fare, corse nel villaggio a cercarvi il medico, senza pensare altrimenti a soccorrere il ferito, ch’egli ritenne d’altronde per bello e spacciato.
Spirato non era: una fiammella di vita guizzava ancora in quell’organismo, un barlume d’intelligenza rimaneva in quel cervello. Emilio non poteva parlare, nè far cenni, nè dar segno nessuno, ma viveva e sentiva di vivere, sentiva sè e il mondo intorno a sè: ma una voce piccola, piccola, intima, intima, gli diceva piano piano in fondo all’anima che quella era l’agonìa e che egli stava per morire.
Morire? Chi era che gli aveva richiamato poc’anzi quella brutta idea?... Ah! era Matilde: ecco che gli pareva d’udire ancora la voce di lei ripetergli: «Non sai che il pensiero del male che avrai commesso ti affannerà le ultime tue ore? che vedrai i fantasmi delle tue vittime apparirti ad imprecare e maledire?» Delle vittime egli ne aveva fatte parecchie: gli uccisi in duello.
....Sì, ecco che venivano e lo guardavano con isdegno, sanguinosi il petto o la fronte; e muovevano le labbra. Egli non udiva quello che dicevano, ma erano certo parole di maledizione quelle che uscivano senza alito di vita. Ma di sue vittime ce n’erano pur altre, più lontane nel tempo, ma più vicine a lui nella vita. Chi? chi? chi? Sapeva che dovevano comparire e ne aveva paura, e non poteva dire chi fossero. Comparve una donnaccia vecchia, volgare, col faccione adiposo, rosso cupo per la congestione sanguigna, furibondi gli occhî stravolti, che con voce senza suono, ma ch’egli intese perfettamente, gli disse: «Assassino! Assassino!» E dietro lei un altro fantasma ancora più pauroso; un vecchio burbero, arcigno, colla collera e la minaccia negli occhî: suo padre, ch’egli avrebbe potuto salvare dall’apoplessia, e non volle, e che ora sapeva tutto, e gli diceva con quella voce di spettro: «Parricida!»
Emilio fece un moto, come per fuggire: ricadde: mandò un gemito.
Quando il medico venne condotto dal domestico, disse:
— Non c’è più nulla da fare, il signor Lograve è morto.
Fu letta la dichiarazione scritta da Emilio: si credette ad un suicidio, e non s’inquietò nessuno.
Matilde, guarita da una breve malattia, fu condotta in altro paese col babbo e i figli dal marito; e a quella villetta i Nori non vennero a scampagnare mai più.
FINE.