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322 capitolo xiv.


labbra, vigilavano intorno. Quando passammo vicino, gli uomini grigi sospesero il lavoro, e si sollevarono tutti per guardarci, silenziosamente; poi salutarono togliendosi il berretto. Avevano la testa rasata a metà, come una parrucca da clown, orrenda e grottesca. Provammo un senso di gelo nell’anima come ad una rivelazione triste, e mormorammo:

— I forzati!

Essi ci guardavano sempre. Eravamo lontani e ci guardavano ancora. Ci sentivamo inseguiti dalla loro attenzione fervida e silenziosa. Nelle loro immaginazioni noi rappresentavamo la fuga. Ricordavamo le terribili pagine di Dostoïewsky sulla “Casa dei morti„. Chi sa quale grande avvenimento rappresentava il nostro passaggio nella vita atrocemente eguale di quell’armento d’uomini cancellati dalla società, e che si chiamano con dei numeri.

Arrivammo alle sette della sera a Zima, con un tempo piovoso. Avevamo percorso 225 chilometri. Nel buffet della vicina stazione ferroviaria riuscimmo ad ottenere un borsh condito con panna acida e delle cotolette che dichiarammo insuperabili. Trovammo il nostro deposito di benzina e d’olio nella casa d’un mercante ebreo — agente della ditta Nobel — presso il quale passammo la notte.

Zima in russo significa inverno. Per conto nostro trovammo il nome deplorevolmente bene appropriato. A Zima il freddo era quasi insopportabile, e ci dicevamo scherzando:

— Verrà il mese di luglio!

Il curioso è che il mercante nostro ospite ci assicurava che fino a due giorni prima aveva fatto un caldo soffocante. Pareva proprio che il freddo volesse accompagnarci apposta attraverso la Siberia, per fare gli onori di casa.


Alle quattro del mattino eravamo già in marcia. Naturalmente il cielo era coperto, l’aria umida e gelida. Le pellicce non bastavano a ripararci, e ad esse avevamo aggiunto cappotti e impermeabili; eravamo gonfi come eschimesi. Da qualche giorno si ve-