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308 capitolo xiv.


mazione. E ci è avvenuto, a noi, con le nostre stature e le nostre fisionomie, d’esser presi per dei giapponesi da qualche mujik che ce lo diceva con la più grande sincerità.

Il freddo e la pioggia ci scacciarono dal ponte. Il capitano, un gigantesco russo delle provincie baltiche, c’invitò a prendere il thè nel salone. Eravamo i soli passeggeri a bordo. La traversata non durò che due ore. Alle cinque ci trovavamo, sulla riva sinistra dell’Angara, ormeggiati ad un’altra gettata, vicino ad un’altra stazione ferroviaria: eravamo a Baikal. La strada per Irkutsk è alla destra del fiume; si passa da una riva all’altra su delle grandi barche da carico rimorchiate da vaporini. La nostra automobile, scesa dal ferry-boat, attraversò con le sue forze i binari della stazione, passò fra depositi di carbone e di legname, e andò a fermarsi, con abile manovra, a bordo d’una chiatta in partenza, mentre l’inseguiva una folla curiosa di soldati, di facchini, di mujik, di straccioni.

V’erano dei strani tipi fra quella gente, che non si poteva indovinare cosa fossero: degli accattoni con visi da gentiluomini. Uno di questi ci dava cortesemente indicazioni sulla strada:

— Fino a Krasnojarsk, discreta; in qualche punto eccellente, come da qui a Nischne-Udinsk. Vicino a Tomsk, cattiva. Più in là buona. Da Omsk agli Urali, quasi tutta steppa buonissima....

— Come fate a conoscerla così bene? — gli domandammo.

— Lo conosco passo a passo, io, il “Moskowsky Trakt„! — esclamò ridendo. — Passo a passo. L’ho percorso tutto a piedi!

La folla rise rumorosamente. Qualche voce affermò:

— Anche io!

— Per venir qui? — chiedemmo.

— Eh, si.... Ne avrei fatto volentieri a meno!

Le risa si rinnovarono.

— Qual’è il vostro mestiere?

— Il mio mestiere? Adesso? Quel che càpita. Il facchino, il tagliaboschi, il manovale ferroviario.... si mangia.