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328 capitolo xiv.


— Ma chi ci assicura che è italiano?

— Io.

— Non basta.

La pazienza stava per isfuggirmi, ma riuscii a riacciuffarla, e osservai con calma:

— Fate leggere il dispaccio a chi può capirlo.

— Nessuno può capirlo qui.

— Insomma! — gridai — volete o no trasmetterlo?

— Lo trasmettiamo come dispaccio scritto in codice.

— E sia.

— Le parole che hanno più di dieci lettere sono tassate doppie.

— E sia.

— Favoriteci il cifrario e la traduzione in lingua russa. Così vuole la legge per i telegrammi cifrati e in codice.

Era troppo. Andai in cerca di aiuti, e trovai il signor Radionoff, il nostro buon compagno di viaggio, che partito con noi per accompagnarci fuori d’Irkutsk mostrava un’apparente intenzione di non abbandonarci più. Lo trascinai al telegrafo, lo infiammai della mia esasperazione, perorammo in due, ma inutilmente. Allora ebbi una buona idea; presi un modulo, lo riempii di una protesta indignata e la feci telegrafare d’urgenza al Direttore generale dei telegrafi della Siberia a Irkutsk. Un’ora dopo la lingua italiana era ufficialmente riconosciuta a Nischne-Udinsk. Ma rimpiangevo di cuore, come giornalista, quei piccoli cinesi isolati nei lontani uffici di fango del deserto di Gobi, quei bravi telegrafisti dal codino i quali dovevano mettere in testa al mio dispaccio il N. 1, e lo spedivano senza un errore e senza un ritardo attraverso a tutti i cavi dell’Oriente.

Alla sera tardi l’amico Radionoff prese la risoluzione di abbandonarci. Il vento e gli spruzzi di fango gli avevano procurato una improvvisa flussione d’occhi, la quale non gli permetteva più di apprezzare i piaceri d’un prolungato automobilismo. Ci accomiatammo con un certo rimpianto da questo ospite squisito. Voleva