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326 capitolo xiv.


eguali — da venti a venti verste — e dànno l’idea di grandi corpi di guardia disposti sul Moskowsky Trakt. Prima di essere villaggi sono stati infatti delle tappe.

Fino a pochi anni fa, fino a che la ferrovia non ha attraversato la Siberia, essi segnavano le giornate di marcia dei convogli d’esiliati e di deportati, che ora il treno trasporta in vagoni carcerari dai finestrini ferriati. E ad una estremità d’ogni villaggio v’è ancora la stazione di tappa degli espatriati. È un grande edificio di legno, basso, quadrato, dalle finestre inaccessibili munite di solide inferriate, adiacente ad una corte chiusa da un recinto: nel recinto pochi edifici comuni, una scuderia forse, un ufficio, un dormitorio per i soldati; intorno delle garitte per le sentinelle. Ma ora le porte sono barrate con tavole; nessuno può varcarle, tutto decade, i tetti si sfondano, le garitte pencolano, le pareti si piegano infradiciando. Questi edifici vuoti e sfasciati fanno un effetto lugubre, come case hantées. Sembrano non soltanto abbandonati, ma fuggiti. Non è possibile guardarli con indifferenza. Sono sorti per albergare il dolore, e si pensa se di tutte le sofferenze e le angoscie che per tanti anni sono passate fra quelle pareti non sia rimasto niente, se quel senso di tristezza e di ripugnanza che si prova passandovi vicino non venga da qualche cosa di vivo e di accorato che è nell’aria, da una misteriosa emanazione di pianto, da un’eco indefinibile di voci disperate che le cose ripetono e l’anima sente.

Ogni villaggio, avendo un fiumicello, ci offriva un ponte da passare, e naturalmente un ponte di legno. Dopo la nostra caduta, avevamo per i ponti in genere una diffidenza rispettosa. Cercavamo di passarli alla maggiore velocità possibile, non tanto per il timore di vederceli crollare, quanto per evitare lo scricchiolìo delle tavole. Ci era rimasta una invincibile antipatia per il rumore del legno che si rompe; era un senso tutto fisico, un vivido richiamo alla memoria istintiva. Lo scricchiolare di un pezzo di legno sotto alle ruote aveva la potenza d’un segnale d’allarme; il pensiero poteva essere altrove, e continuare anche ad essere