La metà del mondo vista da un'automobile/VIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | VII | IX | ► |
CAPITOLO VIII.
LA CITTÀ DEL DESERTO
La montagna lontana — Un panorama di devastazione — La città del deserto — Un’automobile misteriosa — Inseguendo le antilopi — Urga.
Udde era la nostra seconda base di rifornimento, e vi trovammo la benzina, l’olio, e il grasso, spediti da Pechino per carovana, tutto un amasso di pacchi e di bidoni che occupava un angolo del cortile. Un po’ di benzina s’era perduta per la strada attraverso le fessure dei bidoni avariati; con tutto ciò ne avemmo abbastanza da riempire i serbatoi della macchina, e ne lasciammo anche qualche recipiente pieno, pregando i telegrafisti di consegnarlo ai nostri colleghi nel caso che essi ne avessero avuto bisogno.
Poco prima dell’alba del 20 Giugno, un mongolo che veniva dal pozzo di Udde — lontano più di un li dalla stazione telegrafica — portò delle notizie. Al pozzo aveva trovato dei carovanieri, arrivati allora dal sud dopo una lunga marcia notturna; essi gli avevano riferito che i carri stranieri s’eran accampati alla sera precedente a 180 li da Udde (circa 104 chilometri). La distanza ci pareva esagerata; la carovana non poteva aver percorso nella notte più di 100 o 110 li, e le automobili dovevano trovarsi ad un sessanta chilometri da noi. Il Principe decise di aspettarle due giorni ad Urga, la capitale della Mongolia ove contavamo giungere l’indomani, come le avevamo aspettate a Kalgan.
Brillavano ancora delle stelle verso l’occidente quando partimmo per Tuerin — la prossima stazione telegrafica lontana più di 300 chilometri — dopo aver sorbito un buon thè bollente, e dopo di aver salutato e ringraziato i nostri telegrafisti.
La mattina era fredda, e ci eravamo imbacuccati nelle pellicce, appena sufficienti a proteggerci. Ma tre ore dopo già le avevamo Donne Mongole di Urga. abbandonate sulle spalliere dei sedili. E alle 9 cominciavamo di nuovo a soffrire le torture del caldo.
Avremmo giurato che il caldo aumentasse di giorno in giorno; ma in realtà lo sentivamo di più per la eccessiva sensibilità della nostra pelle malata. Inoltrandosi il giorno, nemmeno la ventilazione prodotta dalla velocità ci recava più sollievo. Provavamo a volte l’impressione di essere investiti da un rovente alitare di fornace, l’effetto di avvicinarci troppo a qualche incendio invisibile. La sete ci riprese, continua, torturante; l’estrema siccità dell’aria c’inaridiva la gola, e ci pareva di sentirci prosciugare tutti. L’incontro d’un pozzo era una festa.
Ricordo come una delle cose più deliziose l’atto di mettere le labbra sull’orlo d’un secchio colmo d’acqua fresca. Erano delle bevute a gran sorsi, lunghe, avide, con i piedi nel fango del pozzo, la faccia rovesciata, immersa quasi nell’acqua che colava fuori, che ci scorreva nel collo, che si riversava sui vestiti tanta era la nostra premura di bere presto, di bere tanto, di godere quella dolce frescura che entrava in noi a ondate.
Quando l’arsura ricominciava, subivamo talvolta l’ossessione di un desiderio irrealizzabile che non ci voleva abbandonare: assorbivamo con la fantasia delle bevande immaginarie. Ettore pensava per solito ad un gran bicchiere di birra gelata, torbida per la spuma ma che chiariva dal fondo a poco a poco, e che frizzava in gola, mentre l’esterna rugiada del bicchiere gocciolava fra le dita. Ogni tanto mi offriva il suo bicchiere di birra; ed io lo contraccambiavo generosamente con delle granite di caffè. Non so la ragione per cui la granita di caffè divenisse il mio preferito rinfresco spirituale nel deserto. Cosa strana: ci proponevamo seriamente di fare al ritorno delle vere indigestioni delle nostre bibite, di godercele in realtà, come se quella sete dovesse perseguitarci fino in casa nostra; e provavamo dei grandi rimpianti per tutte le birre e tutte le granite che avevamo sorbito in passato senza apprezzarne l’immenso valore, senza sentire la felicità che ne veniva.
Con Udde le roccie erano scomparse. Per lunghe ore il viaggio si svolse per una serie infinita di valli chiuse da basse collinette renose e rossastre. Sulle colline trovavamo qualche breve passaggio sassoso, qualche sabbione pesante che affaticava il motore, ma in generale il terreno non poteva essere più adatto all’automobilismo. La macchina era spesso lanciata alle velocità massime su pianure vergini; ci discostavamo da ogni traccia di sentiero, lasciavamo le orme dei cammelli, e stendevamo il segno delle nostre ruote sopra una terra che non fu mai calpestata.
Per la prima volta un’automobile correva con tutta la sua forza fuori delle tiranniche limitazioni della strada, padrona di volgere il suo impeto secondo il suo capriccio, come un cavallo libero. Noi godevamo per quelle lunghe corse veloci che ci aiutavano a fuggire. Sentivamo sempre più penetrante la sottile angoscia della solitudine e del silenzio. Su centinaia di chilometri eravamo i soli esseri viventi, e provavamo talvolta un vago, segreto, intimo ed inascoltato senso di orrore per quell’isolamento; era l’intuizione di una vasta ostilità intorno a noi, di una inimicizia feroce della terra stessa. Noi diamo sempre alla terra una grandiosa personalità, la chiamiamo spesso madre terra, la troviamo ora sorridente ed ora severa, le riconosciamo espressioni ed affetti; essa ha fisionomie che evocano sentimenti; vi è qualche cosa che somiglia ad un’anima, ad una grande anima, in lei; lo sentiamo istintivamente; quando siamo soli per una campagna, abbiamo la sensazione di gioie e di melanconie che vengono soltanto da ciò che vediamo, che sono l’emanazione imperscrutabile d’una vita misteriosa che ci circonda. Laggiù da questo mistero si sprigionava dell’avversione. Si direbbe che il deserto ami i suoi silenzi e li difenda. Esso è un immenso cimitero che non vuol essere profanato.
Avremmo desiderato almeno di vedere un albero. Un albero qualche volta è un compagno, un amico gigantesco che offre ospitalità e riposo all’ombra delle sue braccia aperte. Ma da Kalgan non vedevamo più alberi. Veramente, il giorno prima, non lontano da Udde, credemmo di averli trovati: sul bordo d’un torrentello disseccato e sassoso scorgemmo sette alberi in fila. Sette miracoli. Li avvicinammo, e ci accorgemmo che erano arbusti più bassi di noi, simili alla tamerigia; la nudità del suolo ci aveva ingannati sulle loro proporzioni. Tuttavia li guardammo come una grande rarità, compiacendoci della loro esistenza e della loro forma.
Saranno state le dieci quando sono ricomparse delle praterie.
L’erba ha cominciato timidamente ad inverdire il fondo delle vallette, poi s’è distesa sulle colline, s’è fatta più unita e più folta. Nel verde un cinguettìo d’uccelli, dapprima incerto, raro, lontano, poi più alto, continuo e giocondo. Erano migliaia di allodole di deserto, di strane pernici dal petto bianco, di aironi dal ciuffo. Intorno all’automobile si sollevavano a nuvoli di questi lieti abitatori dell’aria; ne eravamo in certi momenti circondati. L’acqua doveva esser vicina; infatti passammo poco dopo intorno a piccoli stagni melmosi, coperti di canniccio giallo, e le cui rive erano gremite di uccelli acquatici, di fenicotteri bianchi, immobili sulle Il governatore cinese della Mongolia in automobile. — La partenza. lunghe zampe scarlatte, di anitre dalla testa nera, di oche. Qualche antilope, di tanto in tanto, sorpresa dal nostro arrivo sollevava il muso sottile dall’erba, e balzava via come saetta.
La velocità dell’automobile ci procurava cambiamenti di paesaggio che le carovane ignorano. Da un’ora all’altra noi eravamo passati dalle sabbie ai prati; il passo pigro del cammello ci avrebbe impiegato un giorno, cioè un tempo sufficiente per non accorgersene.
Traversammo di volata una pianura eguale e perfetta: fu una corsa ininterrotta di sessanta chilometri, che speravamo non dovesse finire che alla nuova tappa. Ma finì la corsa, finì la pianura, finirono i prati, tacque il canto delle allodole, e c’inoltrammo cautamente in una regione sassosa, triste, nuda, abbandonata. Eravamo di nuovo riafferrati dal deserto. Ci fermammo ad un pozzo, in mezzo all’accampamento d’una carovana cinese. I carovanieri usciti dalle loro tende azzurre, seminudi, si avvicinarono.
— Quanto è lontano Tuerin? — chiedemmo.
Indicarono il nord con un gesto espressivo che voleva dire: Molto, molto lontano!
— Quanti li?
Non lo sapevano. Uno di loro disse:
— Due giorni.
Un altro ci parlò lungamente di Tuerin, d’una montagna, ci indicò un punto ove la strada saliva un piccolo valico; e riuscimmo a comprendere che Tuerin doveva trovarsi ai piedi d’una montagna, e che la montagna poteva scorgersi da quel punto della strada.
Non ci eravamo ingannati. Infatti, spinta la macchina sull’altura, vedemmo all’orizzonte il profilo d’una enorme roccia, una Gibilterra del deserto. Doveva essere lontana non meno di settanta chilometri, e la potevamo scorgere soltanto in virtù dell’estrema trasparenza dell’atmosfera. Era pallida, azzurra, e, come avviene in mare quando si avvista una terra, la perdevamo, ci svaniva a momenti sotto lo sguardo, il suo contorno scompariva, e la visione si dissolveva nella luminosa serenità. Dovevamo allora pazientemente ripercorrere con l’occhio la linea dell’orizzonte per ritrovarvi l’apparizione tremula e lieve.
La strada scendeva, e la montagna di Tuerin tramontò come un astro. Incominciò un’altra serie senza fine di valli e di alture, riarse e sterili. Ad ogni collinetta ci aspettavamo di rivedere la Gibilterra più vicina. Ma non vedemmo più nulla. Passavano le ore e parevano eterne. Ci sentivamo stanchi, affranti, quasi che la nostra forza entrasse per qualche cosa nel poderoso lavoro del motore. In verità, lo spingevamo talmente col desiderio assiduo, lo accompagnavamo così intensamente con la volontà, che ne provavamo un vero spossamento fisico. La strada non era sempre facile, e noi seguivamo ogni moto della macchina con una vigilanza che tendeva tutti i nostri nervi.
La gran roccia non ricompariva. Ci ripetevamo sempre con rinnovata fiducia. “Da lassù la vedremo, fra pochi minuti„. Niente. Ogni disillusione pareva ci ricacciasse indietro centinaia di chilometri. Dopo quattro ore finimmo col non credere più.
— Era un effetto dei pali telegrafici, quella montagna! — esclamavo, e mostravo le forme strane e nebulose che lo scorcio della lunga linea di pali metteva sull’orizzonte.
— Se fosse stata una montagna non sarebbe sparita! — osservava Ettore giudiziosamente.
— Eppure non poteva essere che una montagna — concludeva Borghese che io trattavo fra me di ostinato.
Ci persuademmo d’essere ancora molto lontani dalla mèta, e cademmo in una melanconica rassegnazione.
Quel giorno era toccato a me il posto nel montatoio. Quell’angolo offriva delle emozioni nuove e non sempre piacevoli. Costringeva a stare contorti, seduti di fianco, con i piedi a sinistra, sul predellino, fuori dell’automobile, e con la testa voltata a destra; una posizione da najade in una fontana, alquanto incomoda per un lungo viaggio. La faccia all’altezza del cofano del motore riceveva tutte le calde emanazioni della macchina. A questo si aggiungeva una certa instabilità d’equilibrio nelle voltate e durante i forti sobbalzi dell’automobile, e bisognava attaccarsi a qualche sporgenza per non lasciarsi prendere all’imprevista dagli effetti dalla forza centrifuga. Tutto ciò è insignificante in una passeggiata, e forse anche divertente. È grave in un tragitto di molte ore, quando la stanchezza e la noia appesantiscono a poco a poco i muscoli e il cervello, quando l’immobilità forzata, il silenzio, la monotonia della strada, il caldo, la lunga veglia, finiscono col produrre un rilasciamento di ogni facoltà, un intorpidimento che non è sonno ma una dimenticanza di se stessi, dei luoghi, del momento, un abbandono e un’incoscienza inelluttabili. Si piomba in un delirio quieto e inerte. L’occhio si fissa senza comprendere. Ogni cosa perde il suo significato e il suo valore. Ricordo d’aver guardato per un tempo indeterminabile il turbinare d’una ruota, la cui larga pneumatica mi pareva una cateratta grigia precipitosa, eguale, eterna, che esercitava su me l’attrazione d’un vortice. E la terra ai miei piedi scorreva come quei fiumi strani e paurosi che attraversano i nostri sogni nella febbre. Ad un certo punto tutto mi apparve velato, confuso, fuggente. Una cosa sola comprendevo: che ero in pericolo di cadere. V’era una piccola parte di me che vigilava; nella coscienza offuscata vegliava l’istinto come una sentinella, e mi gridava l’allarmi. Ma non potevo ascoltarlo. Sentivo che cadevo, e mi lasciavo andare, mi rassegnavo dolcemente.... Più d’una volta una mano mi ha afferrato con energia alla spalla, e ho udito la voce di Borghese gridarmi:
— Stia attento! Mi pareva che cadesse!
Ed io, pronto, con la vergogna di chi è sorpreso ubbriaco:
— No no, non c’è pericolo.
La montagna riapparve improvvisamente. Era ad una quindicina di chilometri da noi. Pareva composta da un blocco gigantesco di pietra dalle pareti a picco, dritto sopra una collina formata forse dai detriti dello scoglio. Evidentemente la gran serie di piani e di alture che avevamo allora attraversato formava nell’insieme una vasta avvallatura, un’immensa cavità, un gobi, e questo ci aveva impedito di rivedere la montagna di Tuerin dopo la sua prima apparizione lontana. A mano a mano che si avvicinava essa diveniva più strana.
Non era un solo blocco di pietra; era un gruppo di scogliere, un ammasso di roccie, una colonia di rupi, qualche cosa come un immenso obo eretto dal fervore religioso d’un popolo di titani. Tre quarti d’ora dopo c’internavamo fra macigni e massi in una regione fantastica.
Salivamo le balze della collina intravvista, dominata dai profili bizzarri e paurosi delle roccie. Avevamo l’impressione d’essere in mezzo ad una immane rovina, di trovarci per luoghi sui quali fosse crollato un mondo. Quelle enormi pietre stravaganti parevano cadute dall’alto, rovesciate, urtate, frantumate dal furore d’un cataclisma immenso. Alla desolazione qui si aggiungeva la devastazione. Il deserto non dormiva più sulla quieta distesa dei piani; il deserto qui si ergeva impetuoso, assumeva forme violente; pareva prepararsi non più a respingere, ma a schiacciare.
La macchina saliva affannosamente lungo la strada carovaniera Il governatore cinese della Mongolia in automobile. - Il ritorno. ed il suo strepito era rimandato dagli echi. Cercavamo con lo sguardo fra le roccie la stazione telegrafica; senza accorgercene avevamo perduto la nostra guida, i fili, e ci trovavamo come abbandonati in quelle sinistre solitudini. Non riuscivamo a trovare il nostro sospirato rifugio.
Da un cespuglio uscì fuori una volpe, che invece di fuggire spaventata ci seguì per lungo tratto, docilmente, come un cane, allungando verso di noi il muso aguzzo e striato, e trascinando la superba coda fioccosa. Poi scomparve. Giungemmo alla sommità dell’altura, a ponente. Le roccie da quel lato tondeggiavano ed avevano un aspetto bizzarro di groppe d’animali giganteschi. Digradavano verso la pianura.
Ad un tratto, su quel prodigioso gregge di macigni vedemmo luccicare al sole quattro globi d’oro.
Erano eguali, tutti alla stessa altezza, disposti simmetricamente. Li guardavamo con una curiosità intensa e muta. Si libravano sopra l’agitazione rocciosa che scendeva alla sinistra della strada, avanti a noi alcune centinaia di metri. Continuando il cammino, lentamente i nostri occhi scoprivano fra i massi un largo spazio, e la nostra curiosità si mutava in meraviglia, e la meraviglia in stupore, a mano a mano che le confuse immagini che vedevamo in quel vasto rifugio pieno di sole prendevano consistenza di realtà. Dopo qualche minuto fermavamo l’automobile per guardare avidamente l’incredibile spettacolo d’una città, d’una città dall’aspetto singolare, una città favolosa.
La dominavamo dall’alto. Le roccie la cingevano tutto intorno e le facevano da mura. I globi d’oro culminavano quattro templi grandiosi che si allineavano al sud. Quegli edifici sacri non avevano nulla di comune con il tempio da noi visto presso a Pong-Kiong, il tempio del vecchio sacerdote immobile. Essi erano eretti su grandi piattaforme di legno, come le costruzioni buddhiste del Giappone; sembravano tutti di legno, scolpito, colorato, dorato; avevano i tetti sollevati agli angoli come i tetti cinesi, ma senza finire in quella linea caratteristica che dà l’idea del dorso d’una tenda e che forse nella tenda ha la sua origine; i loro tetti terminavano invece a pinnacolo. Sull’estrema punta, una palla d’oro. Erano eguali l’uno all’altro quegli edifici, ed erano isolati. La loro grandiosità veniva da quell’isolamento. Intorno non una pianta, non un segno di verde, ma sabbia e qualche scoglio. La città stava un po’ discosta, lasciava con reverenza uno spazio fra lei ed i suoi templi.
Non si può immaginare una città più strana. Era formata da una quantità di piccole case bianche, dai tetti quadrati e regolari, fatte di calce e di legno, schierate sul bordo di strade dritte e larghe. La città e gli edifici sacri parevano nuovi, e abbandonati. Le strade erano deserte. Nella gran luce che le invadeva non scorgevamo una figura umana. Quel paese, comparso improvvisamente avanti a noi come per incantesimo, sembrava disabitato. O meglio, disabitato dagli uomini, perchè di tanto in tanto distinguevamo dei cani che attraversavano le vie, che trotterellavano lungo le case, e si sdraiavano a branchi sulle striscie d’ombra. La città era silenziosa come il deserto che la circondava.
Chi poteva vivere in quei luoghi? Dei religiosi, certamente. Immaginammo subito di trovarci di fronte ad un selvaggio nido della fede Lamista. Lasciammo l’automobile e ci avvicinammo alla Lamaseria arrampicandoci sulle spalle d’un enorme macigno. Soltanto gente che fa della preghiera e della meditazione lo scopo della vita, poteva conservare tanta immobilità e tanto silenzio. Da qualunque centro di popolazione, ad ogni momento, sale una voce acuta, prepotente e lieta: quella dell’infanzia. Bastava la sua assenza a dirci che laggiù non v’erano che dei monaci. Non scendemmo fra le casette per timore di risvegliare qualche pericoloso fanatismo. E poi avevamo troppa premura di raggiungere il nostro luogo di riposo. Ritornammo a bordo, e continuammo le ricerche. La città misteriosa scomparve.
Vedemmo un pastore che sorvegliava un piccolo gregge brucante all’ombra dei massi, ma era troppo lontano per parlargli. Cominciammo a discendere il versante nord della montagna. La stazione telegrafica non ci appariva ancora. Tornammo indietro e decidemmo d’interrogare i Lama del santuario.
Giunti di nuovo vicino alla città, ci dirigemmo a piedi verso l’abitato. Qualcuno ci aveva visti. Degli uomini sbucarono fuori dalle strade, e seguiti dai cani, salivano verso di noi. Avanti a tutti era un vecchio. Il Principe si rivolse a lui con un gesto di saluto. Il vecchio arretrò e fuggì. Il saluto fu ripetuto ad un giovane, che fortunatamente lo accolse a piè fermo con un coraggio degno della circostanza.
Come domandare ad un Lama mongolo la strada per raggiungere una stazione telegrafica? Dispensate tutte le parole cinesi che potevano servire allo scopo, ripetuti tutti i gesti che al nostro giudizio indicavano fili, pali, casetta, telegrafare (a questo punto della mimica facevamo con la voce il rumore del tasto in modo che ci pareva perfetto: tic — tic, tic, tic — tic, tic) ottenemmo questo solo resultato pratico: di far ridere l’intera Lamaseria di Tuerin. Era qualche cosa. Le diffidenze si dissipavano, il buon umore vinceva le riluttanze, i monaci si affollavano fiduciosi intorno a noi, divenivano nostri buoni amici. Ma non trovavamo la strada.
Borghese ebbe allora un’idea felice: prese il taccuino, vi disegnò delle aste che potevano raffigurare le antenne telegrafiche, le munì d’isolatori, vi tese dei fili. I Lama seguivano con intenso interesse il suo lavoro, si pigiavano, allungavano il collo sulle sue spalle. Erano uomini di tutte le età, dal capo e il volto rasi, vestiti di tonache e di manti gialli o rossi. Molti portavano il manto avvolto alla vita e gettato sulla spalla sinistra come una toga, e con un lembo si coprivano il capo. Tonache, manti, e uomini, erano egualmente sudici: l’acqua è rara nel deserto. Chi sa quale avvenimento strepitoso rappresentava il nostro arrivo per quegli eremiti, isolatisi dal mondo per studiare e meditare i testi sacri del Buddhismo. I mongoli portano i loro libri divini, venuti dal lontano Tibet, nei luoghi più desolati; li celano come si cela un tesoro. Pare a loro che la dolce dottrina di Buddha non possa essere pienamente compresa che nella solitudine e nel silenzio.
Dopo aver disegnato i fili, il Principe intraprese la raffigurazione della stazione telegrafica nella quale i fili si precipitavano, e poi battendovi sopra il dito fece comprendere che quella era l’oggetto delle nostre domande, lo scopo supremo di quel lungo lavoro. I Lama afterrarono il senso del geroglifico. Ed eccoli gesticolanti e vocianti mettersi in marcia per indicarci il cammino. Giunti sulla strada rimasero sorpresi per la presenza dell’automobile. La circondarono osservandola con diffidenza. Una quantità di cani aveva seguito i monaci e si aggirava per tutto, passabilmente indiscreta. Ettore credette giunto il momento di rimettere in moto la macchina, e diede due vigorosi giri alla manovella. Il motore entrò in funzione strepitosamante, ruggendo. Lama e cani fuggirono a precipizio verso la città sacra....
Per fortuna avevamo compreso che la strada del telegrafo si inoltrava all’est per stretti passaggi serpeggianti fra le roccie. Non so come l’automobile riuscì ad arrampicarsi su certe ripide salite fin sopra un’alta spalla della collina, ad attraversare una specie Dopo un affondamento nei terreni paludosi in vicinanza di Urga. di corridoio fra dei macigni, a scendere dall’altra parte. Il fatto è che arrivammo in un prato dov’era già scesa l’ombra, e in mezzo al prato trovammo la terza stazione telegrafica della Mongolia, piccola come le sue consorelle, come loro costruita col fango, e pure così seducente alla nostra immaginazione.
— Sapete? — ci disse il telegrafista cinese con grande premura — È passata un’altra automobile. Andava ad Urga.
— Possibile!
— Si. E non si è fermata. Correva veloce come il vento.
— Diamine!
— L’ho vista benissimo, veniva dalla direzione d’Udde.
— Ma quando?
— Alcune ore fa.
Chi poteva averci sorpassato? Non ce n’eravamo accorti. Forse mentre cercavamo la strada... Oppure una delle De Dion-Bouton aveva viaggiato durante tutta la notte e ci precedeva....
— Siete proprio sicuro? — Abbiamo chiesto — Era un’automobile?
— Sicurissimo. Veniva da Udde, andava ad Urga, e l’ho subito telegrafato.
— Era come la nostra?
— Molto più piccola, oh, molto!
— Vorreste domandare ad Udde notizie di tutte le automobili?
— Subito.
E il servizievole cinese si mise all’apparecchio. Dopo un istante si sollevò esclamando gravemente:
— Udde pranza. Domanda cinque minuti di tempo per finire di mangiare.
Quando Udde ebbe pranzato trasmise le informazioni richieste, che il telegrafista ci traduceva a mano a mano, leggendole sul nastro di carta:
— L’Itala ha lasciato Udde stamani alle quattro...
— Benissimo. Poi?
— “ ...la Spyker si è fermata ieri a 100 li al nord di Pong-Kiong per mancanza di benzina che le fu spedita con un cammello.... Le De Dion-Bouton sono giunte insieme ad Udde oggi all’una del pomeriggio.... sono ripartite alle due.... „
— Non v’è altro?
— “.... il triciclo Contal non è stato finora segnalato nè a Pong-Kiong nè a Kalgan.... il Tu Tung di Kalgan ha spedito soldati di cavalleria alla sua ricerca„. È finito.
Era evidente che la Spyker si trovava almeno a quattrocento chilometri da noi, e le De Dion-Bouton a duecentocinquanta. Il mistero di quell’automobile passata alcune ore prima senza fermarsi era spiegato. Come non averlo capito subito?
— Ma eravamo noi! — abbiamo detto al cinese stupito — Eravamo noi a passare laggiù. Non ci siamo fermati perchè non abbiamo visto l’ufficio telegrafico, che siamo andati a cercare poi su tutti versanti della collina, meno che su quello buono.
— L’automobile che è passata mi pareva più piccola! — osservò dubitoso.
— Effetto della distanza.
— È vero! La distanza impiccolisce ogni cosa.
Emessa questa profonda verità il telegrafista si mostrò pienamente convinto.
Facendo il conto della strada percorsa, trovammo che quel giorno avevamo superato il primo migliaio di chilometri da Pechino. Per festeggiare l’avvenimento ci decretammo l’offerta d’un sontuoso banchetto. Un Lama pastore capitato in quei paraggi ci vendè un agnello che gli pagammo con ritagli di argento (poichè nessuna moneta coniata ha corso fra i mongoli), debitamente pesati in una bilancetta apposita della quale ci eravamo forniti a Kalgan. E l’agnello, affidato alle sapienti cure del telegrafista, ci ricomparve qualche ora dopo trasformato in un gigantesco piatto di lesso fumante, che ci sembrò la più prelibata vivanda del mondo.
Avanti al cumulo delle ossa accendemmo poi le sigarette, e, alla luce d’una candela infilata nel collo d’una bottiglia, ci trattenemmo lungamente a parlare della vicina città del deserto, il cui recinto non fu mai varcato da piede femminile, del nostro viaggio, della prossima tappa. Avevamo completamente dimenticato la stanchezza, la sete, tutte le sofferenze della lunga giornata, dodici interminabili ore trascorse sotto al sole cocente in una continua accasciarne fatica di nervi, fra mille dubbi e mille ansie.
Come sembravano piccole e disprezzabili le difficoltà passate! Il futuro incalza talmente, che non perdiamo il tempo a guardarci indietro. Questa tendenza a dimenticare il male è la più grande fortuna dell’uomo. Ogni mattina ci sentivamo alla partenza forti e pronti, perchè avevamo perduto il ricordo esatto della vigilia. Una nebbia benefica si stende sulle sofferenze trascorse. E partendo immaginavamo sempre ogni difficoltà finita. Oblìo e speranza erano le nostre forze.
La nostra corsa somigliava molto alla vita.
Tuerin è al limite del deserto. Al sud di Tuerin lo squallore della sterilità, al nord la verde magnificenza della prateria. Quell’alta roccia pare messa là per un segnale, come un faro, ad indicare agli uomini in viaggio il confine fra la terra morta e la terra viva, per dire agli uni: Preparatevi! — per significare agli altri: Coraggio!
Il tragitto fra Tuerin ed Urga ci è sembrato incantevole forse perchè venivamo dal Gobi. Trovavamo tutto delizioso: il verde, la strada, il cielo. Poiché anche il cielo era cambiato: aveva delle nubi e noi ammiravamo pure le nubi, specialmente quando si compiacevano di far scorrere le loro grandi ombre fugaci su noi come delle immense e lievi carezze. Andavamo a cinquanta chilometri all’ora, talvolta a sessanta. Il terreno era leggermente ondulato, e ci lasciavamo scivolare nelle molli discese con tutto l’impeto della velocità e del peso. Eravamo lieti, parlavamo, trovavamo mille cose da dire, richiamavamo la nostra attenzione su tutto quello che vedevamo, pensavamo ad alta voce.
Ettore ci domandava a che ora saremmo arrivati a Kalgan — già, perchè Ettore, per un suo amore della semplicità, aveva soppresso mentalmente i nomi dei paesi attraversati e da attraversarsi, lasciandone vivere soltanto un paio per comodità di linguaggio; e quel paio applicava a tutte le località, indifferentemente. Era una specie di gergo; Kalgan voleva dire: “quella città che... „. Ettore aveva una memoria ribelle alla geografia; i nomi vi passavano sopra senza fermarsi, come degli uccelli al volo; ed ecco perchè quando egli riusciva a impossessarsene di uno, non lo lasciava più, e lo faceva servire per tutti gli altri scappati via. La sua bonaria indifferenza verso l’itinerario aveva degli aspetti invidiabili; e sorridevamo dei suoi errori geografici, non per gli errori, ma per una certa freschezza d’ingenuità che li accompagnava, per la rivelazione d’una semplicità originale; sentivamo, vicino a lui, quel piacere buono che dà sempre il contatto d’un’anima nuova, l’anima d’un grande fanciullo intelligente. Nei piani paludosi fra Urga e Kiakhta. — Manovra per risollevare l’Itala affondata. Per Ettore la questione del viaggio consisteva tutta in due chiare verità: prima verità — che bisognava correre per due o tre mesi, tutti i giorni o quasi, dalla mattina alla sera; seconda verità — che per arrivare, l’automobile doveva esser ben diretta, vigilata, ascoltata, controllata, esaminata, curata, pulita, oliata, ingrassata, continuamente, senza mai stancarsi, consacrandole tutta l’attenzione, l’esperienza, l’intelligenza e l’energia. E questo era affar suo. Alla sera, arrivando alle tappe, egli non mangiava e non dormiva finché non aveva finito di mettere in ordine la macchina; e passava lunghe ore sdraiato in posizioni assurde sotto al ventre caldo dell’automobile stillante olio cotto; alle volte si alzava dal giaciglio in ore impossibili, preso da un dubbio, e allora nella notte lo sentivamo svitare dei dadi, smontare dei pezzi per osservare gli organismi più delicati, rimettere ogni cosa al posto. All’alba era sempre inappuntabilmente pronto per andare a... Kalgan.
Quella mattina ritrovavamo le grandi mandrie di cavalli, che ripetevano le loro superbe manovre intorno a noi. Incontravamo dei mandriani; vedevamo delle yurte; cani da pastore, neri e pelosi, c’inseguivano; greggi di pecore si dissetavano ai pozzi; delle carovane viaggiavano in pieno giorno. Rientravamo nella vita. Tutto ci rallegrava. Quando non parlavamo, cantavamo. Il Principe, guidando, fischiettava la sua aria favorita, la Petite Tonkinoise, alla quale io univo un sapiente accompagnamento.
Qualche gruppo di antilopi brucava lontano, e sorpreso dall’automobile prendeva la fuga attraversando la strada avanti a noi. Non avevamo ancora osservato questo curioso modo di fuggire, particolare alle antilopi, che spesso conduceva le povere bestie atterrite, sopraffatte dalla nostra velocità, a poche decine di metri da noi. I cacciatori conoscono bene tale strana tattica, e non galoppano mai direttamente verso la selvaggina, la cui corsa è più veloce di quella del cavallo mongolo, ma deviano, quasi per lasciarla da una parte, sapendo che l’antilope si precipiterà a tagliare la loro via passando a tiro del fucile. È la primitiva astuzia contro l’inseguimento quella d’incrociare ad angolo retto avanti al nemico, supponendo che il suo impeto stesso lo conduca così fuori di direzione, e lo obblighi a perdere tempo per girarsi e ricominciare.
Ad un tratto scorsi nella prateria, a qualche chilometro da noi, sulla sinistra, una lunghissima striscia rossastra che si muoveva velocemente. Si spostava verso destra, tutta tremula, velata da una leggiera polvere.
— Guardate! Guardate! — gridai indicandola.
Al primo momento non comprendemmo di che si trattasse.
— Corre come un treno!
— Sono animali.
— Sono antilopi!
— Si, si. Si vedono bene adesso.
— Eccone una sola, avanti alle altre.
— Guardate le gambe, che brulichio!
— Uno spettacolo meraviglioso.
— Superbo.
— Quante saranno?
— Chi sa? mezzo migliaio forse.
— Una popolazione di antilopi.
Eravamo giunti a cinquecento metri da loro. Distinguevamo perfettamente l’enorme mandria, compatta nella fuga. Stava per raggiungere la strada ed attraversarla, secondo la tattica consueta.
— Arriviamole! — esclamai.
Il Principe abbassò la leva del motore alla quarta velocità e spinse tutto l’acceleratore. L’automobile rombò più forte e più alto, ebbe un balzo, e volò sulla sabbietta dura del sentiero. In pochi secondi ci accorgemmo che la mandria non avrebbe più avuto il tempo di sfilare tutta avanti a noi, e ne provammo una crudele soddisfazione.
— Che velocità avremo? — chiesi.
— Da novanta a cento — rispose Ettore.
Sentivamo sulle nostre faccie soffiare un vento d’uragano. Mi venne l’idea di prendere la Mauser per abbattere qualcuno degli animali e portarlo trionfalmente ad Urga legato sul bagaglio, ma non potei tradurre la mia idea in atto. La mandria era raggiunta. Con una rapidità sorprendente le antilopi avevano cambiato direzione e fuggivano ai nostri fianchi divise in due gruppi. Per qualche momento ci trovammo in mezzo allo strano gregge, fra la polvere sollevata dallo scalpitare minuto delle zampe sottili, nervose e veloci. Di tanto in tanto qualcuna delle timide bestie, folli di spavento, cadeva, rotolava, era calpestata o saltata dalle altre, si risollevava in un baleno e si rimetteva a fuggire. Gridavamo, nell’eccitazione della caccia; gridavamo perchè si diventa feroci in certi momenti che risvegliano tutto ciò che abbiamo di selvaggio ed ardente, e non possedevamo altra arma che la voce. Non potendo uccidere ci divertivamo ad atterrire, e i nostri gridi portavano al parossismo lo spavento delle vittime. Presto quella confusione tumultuosa di groppe da cerbiatto, fulve e snelle, si allontanò lateralmente con una brusca evoluzione, e si disperse lontano nella prateria.
Alle dieci del mattino entravamo in una regione montuosa ma facile. Lasciavamo per sempre le pianure mongole. I monti della Siberia Orientale e della Transbaikalia stendevano fino a noi i loro estremi contrafforti, le loro ultime balze. C’internammo presto in una vallata che nascose definitivamente a noi la sconfinata vastità dei piani, dalla quale uscivamo un po’ storditi e abbacinati come chi approda dopo una lunga navigazione.
Le yurte e i greggi si facevano più frequenti. Incontrammo un mongolo sontuosamente vestito di seta rossa, accompagnato da un altro abbastanza stracciato da poter essere ritenuto suo servo. I due si riposavano seduti sull’erba, tenendo le briglie dei cavalli infilate al braccio. Vedendoci arrivare si rizzarono precipitosamente impauriti e fecero per fuggire, ma era troppo tardi, e un momento dopo passavamo velocemente vicino a loro. Accortisi che non era in noi alcuna ostile intenzione, osarono guardarci, e scoppiarono in una risata irresistibile. Quel carro che correva solo doveva far loro l’effetto d’uno scherzo, d’una cosa estremamente buffa, d’un controsenso ameno, quasi che noi ci fossimo dimenticati d’attaccare i cavalli, e il carro, più distratto di noi, non se ne fosse accorto e corresse egualmente. Ridevano, ridevano, curvi, con le mani appoggiate alle ginocchia....
Una enorme quantità di grosse marmotte saltellava sull’erba; ve n’erano a migliaia, di quella razza che gl’inglesi chiamano prairie-dogs, “cani della prateria„. Correvano verso le tane, scavate nella terra, e prima di nascondersi non mancavano mai
di guardarci curiosamente, sollevate sulle zampe posteriori, con una attitudine che era comica perchè aveva dell’umano. Quando la tana stava troppo lontana per essere raggiunta, l’intelligente animaletto s’abbandonava improvvisamente a terra come fulminato e si fingeva morto, per risuscitare in fretta appena eravamo passati. Salutammo con soddisfazione la presenza delle marmotte, perchè sapevamo che esse abitano in grande quantità la regione intorno ad Urga. Ci segnalavano la vicinanza della capitale Nei piani paludosi della Mongolia settentrionale fra Urga e Kiakhta.
Manovra per risollevare l’automobile affondata nel fango. mongola. Erano le undici quando ci trovammo ai piedi della sacra montagna di Bogda-ola, parola che significa appunto “Montagna santa„. Dall’altra parte avremmo trovato il fiume Tola, e sulle sue rive la città.
Le vette della Bogda-ola erano coperte da una folta foresta di piccoli pini, scura, che scendeva nei valloni a lunghe striature. Erano i primi alberi che vedevamo dopo circa mille e duecento chilometri di viaggio, e li guardavamo con una profonda compiacenza. Avevamo lasciato dei salici, dei pioppi, degli ontani, laggiù sul bordo della vecchia Cina, e trovavamo dei pini; dalla variata flora dei paesi temperati, passavamo a quella delle regioni del freddo. L’aspetto del paesaggio ci diceva la distanza percorsa. Ci sentivamo già in mezzo ad una non so quale nordica severità. Sentivamo che la Siberia era vicina.
Sboccammo nell’ampia valle del Tola, e verso ponente scorgemmo Urga, incerta come in un miraggio, punteggiata da edifici bianchi che dovevano essere santuari. Fu un lungo cammino per raggiungerla. Il Tola, ed una rete dei suoi confluenti, tagliano più volte la strada. Si traversano dei ponti di costruzione russa; ma i mongoli preferiscono guadare e noi finimmo con l’imitarli, ed entravamo risolutamente nel fiume, di corsa per non affondare, seguendo le traccie di ruote e di zoccoli. Era un singolare spettacolo questo passaggio della grossa macchina grigia circondata da alti ventagli di acqua come una torpediniera.
Non v’è una sola Urga ad Urga: ve ne sono tre. Vi è quella cinese, quella mongola e quella russa. L’una è lontana dall’altra alcuni chilometri. Tre grandi razze, la slava, la mongola e la cinese, s’incontrano qui senza mescolarsi. Vi è fra loro un resto di secolare ostilità. Le tre città sembrano nemiche. Hanno l’aria dei campi trincerati. Sono cinte da palizzate altissime, come s’usavano nell’antica guerra per rompere l’impeto della cavalleria assalitrice. E palizzate altissime circondano le abitazioni e i templi. Nulla si vede all’esterno della vita intima degli abitanti; le strade non sono che monotoni corridoi fra mura di legno tristi ed eguali.
Qualche pericolo deve esistere anche oggi; queste difese non debbono avere soltanto un valore di tradizione. Infatti, il Consolato russo — una villetta di stile siberiano isolata fra la città cinese e quella mongola — ha degli spalti tutto intorno, ha delle trincee, è circondato da fossi, da reticolati di fil di ferro, da bocche da lupo, da tutte le più moderne ed efficaci difese ausiliarie, ha dei cannoni, ha una guarnigione di cosacchi transbaikaliani. E più oltre, ad occidente, presso la città mongola, il generale tartaro, il Tu Tung di Urga, comandante la guarnigione cinese, si è chiuso in una fortezza quadrata, difesa da parapetti di terra rafforzati con travi, coronati da merli e tagliati da feritoie, con posti di vedetta agli angoli. Cinesi e Russi si sono insediati come in paese di conquista. Chi è il vero padrone?
Non certo quel divinizzato sovrano del popolo mongolo che è il gran Lama, il Buddha vivente, semi-recluso in una Lamaseria poco discosta — alla quale appartengono i bianchi edifizi che si vedono da lontano arrivando. Buddha si compiace di vivere di vita umana entrando nel corpo di tre uomini — tre soli al mondo. Uno di essi è il Dalai Lama del Tibet; il secondo quello di Urga; il terzo è a Pechino, capo di 1200 Lama del gran tempio di Yung-ho-kung. Benché tutti e tre posseggano l’anima di Buddha, esiste fra loro una graduazione sensibile di valore. Quello del Tibet è più stimato, e quello di Pechino lo è il meno. La differenza consiste in una maggiore o minore potenza di benedizione, che somiglia molto alla baraka degli arabi; sono venerati non a seconda di quel che valgono ma di quel che giovano. Quando due anni or sono il Dalai Lama del Tibet fuggì da Lhasa, minacciata dalla marcia inglese, e si rifugiò ad Urga, i buoni mongoli piantarono il loro dio per quello tibetano, molto più efficace. E si vide allora il raro spettacolo d’una ostilità feroce tra un Buddha e l’altro.
Intorno a quella disgraziata divinità di Urga s’annodano i fili dell’intreccio politico. Un uomo intelligente, energico ed ambizioso, alla testa del popolo mongolo potrebbe rendersi pericoloso alla sovranità cinese, e forse perciò avviene questo fatto curioso: che il dio vivente non è mai un uomo: è un fanciullo. Lasciarsi adorare è un compito facile che anche un bambino può disimpegnare. Quell’adolescente non arriva alla maturità. Quando sta per divenire un uomo, muore. Muore improvvisamente, misteriosamente. Ma egli ha già nominato il suo successore, ed un altro fanciullo monta sul tragico altare. È uno dei più costanti miracoli della divinità quella morte repentina; l’anima del dio non può albergare che nell’infanzia. Si vocifera però che il fanciullo sacro muoia strangolato.
L’ultimo Gran Lama ha tuttavia superato felicemente l’età critica, e il miracolo consueto subisce un ritardo che alcuni vogliono spiegare con una certa vigilante protezione esercitata dal Console russo — un abile diplomatico di razza buriata, molto affine alla mongola. Il Console è amico intimo del Buddha vivente, ed ha il passo libero nei sacri recinti. Il Governatore cinese è ben lontano Nei piani paludosi della Mongolia settentrionale.
L’Itala affondata, alleggerita della carrozzeria, è attaccata a dei buoi per essere trainata a ritroso. dal possedere sul Gran Lama l’antico potere e l’antica autorità. Si dice anzi che sia cordialmente detestato. Ma se la divinità vivente è ancora.... vivente, appare completamente ridotta in uno stato che rasenta l’idiotismo dai vizi precoci e dall’abuso dei liquori. Si direbbe che abbiano voluto strangolare almeno la sua intelligenza.
Certo è che fra quei campi trincerati, le fortificazioni, gl’intrighi, le truci storie d’uccisioni, la visione di cavalieri stranamente vestiti che passano al galoppo per le strade lungo le alte difese di travi, si ha l’impressione di vivere laggiù in un torvo medioevo asiatico; e la comparsa improvvisa d’un’automobile là in mezzo formava un contrasto che aveva qualche cosa di assurdo.
È vero però che il Gran Lama possiede un’automobile, una piccola vettura, regalatagli dal governo russo per compensarlo forse della rivalità del Buddha tibetano. La vetturetta non ha mai fatto un passo da sola. Appena arrivò ad Urga, il Buddha redivivo la fece girare in un cortile, spinta da due uomini, sperando che prendesse la corsa e continuasse da sola i suoi giri. Poi si decise a farvi attaccare un bue, e la mandò così nella sua residenza estiva, dove si arrugginisce nell’attesa che qualche altra potenza europea mandi in regalo uno chauffeur.