La metà del mondo vista da un'automobile/VII
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CAPITOLO VII.
NEL DESERTO DI GOBI
Il telegrafo nel deserto — Il «Contal» non arriva — Sopra un fondo di mare — Gli effetti del sole — Udde.
Al pozzo di Pong-Kiong eravamo aspettati. Il piccolo telegrafista cinese al quale è affidata quella stazione, ci è venuto incontro fuori del suo recinto, e ci ha ricevuti con grandi dimostrazioni di contentezza.
Deploro di non ricordare il nome di questo eroe, che vive nel deserto per permettere all’Occidente e all’Oriente di parlare fra loro. La più vicina città, Kalgan, è a quasi 300 chilometri. Urga è a 800 chilometri. Qualunque cosa accada a quell’uomo, egli non può fuggire. L’immensità dello spazio equivale ad una prigione. Per riunirsi all’umanità egli deve viaggiare otto giorni, da pozzo a pozzo. Nessuno può soccorrerlo. L’isolamento del carcerato in una cella di fortezza non è così assoluto e terribile: il carcerato sente vivere il mondo; gli arrivano echi ai quali associare i suoi pensieri. Quel che v’è di più spaventoso nel deserto è il silenzio.
È vero che il piccolo cinese di Pong-Kiong è confortato nella solitudine da due gioie: una bambina e un apparecchio telegrafico. Sono due affetti che riempiono la sua esistenza. La bambina è sua figlia e l’apparecchio è il suo amico. Per lunghe ore s’immerge nel tic-tac dei tasti e dei ricevitori, e ascolta in esso voci di mondi lontani: parla Pietroburgo, parla Londra, parla Tokio. Egli trasmette: passano notizie, comandi, misteriose comunicazioni diplomatiche, parole di passione. Quando la grandiosa conversazione dei continenti s’estingue, il telegrafista profitta della linea sgombra, e s’inizia allora una conversazione più modesta. Sono gli uffici del deserto che si salutano, che raccontano i piccoli incidenti della giornata, le loro noie, le loro speranze. Tali colloqui rappresentano il giornale quotidiano di quei solitari.
La stazione telegrafica di Pong-Kiong somiglia ad una casa di contadino cinese: tre edifici piccoli, bassi, fatti con fango battuto, illuminati all’interno da larghe griglie coperte di carta — le quali occupano tutta una parete — disposti sui tre lati d’un quadrato, circondati da un muro munito di un solo ingresso rivolto al sud, e sormontato da una corona d’isolatori telegrafici, curioso adornamento che fa pensare ad una lunga fila di denti bianchi sopra una mascella morta. Contro al muro, sul lato di tramontana, il vento ha accumulato la sabbia. Nelle giornate di vento la sabbia invade tutto, penetra per le imposte, entra in ogni camera, e il cielo s’offusca, l’aria s’intorbida, all’esterno non è possibile vedere nulla a due passi di distanza, i fili telegrafici sibilano ed urlano, l’oscurità è tale che bisogna accendere i lumi. L’ultima tormenta aveva imperversato quattro giorni prima del nostro arrivo.
Col telegrafista, tre uomini vivono in quel recinto: due cinesi e un mongolo, incaricati dei lavori sulla linea. Essi corrono a riallacciare i fili spezzati dalle bufere, a rialzare i pali abbattuti. Per il loro servizio hanno tre cammelli che pascolano nelle vicinanze. Le avevamo incontrate arrivando, quelle tre bestie; avevano allungato verso di noi il loro buffo e placido muso da animale antidiluviano, grinzoso e soddisfatto.
La migliore camera era preparata per noi. Sui kang, dei tappeti e dei cuscini rossi fiammanti, e sopra un tavolo (vista deliziosa) un superbo ananas di Singapore, tolto allora allora dalla sua scatola, profumato, fresco. Ci siamo gettati prima sull’ananas, poi sui tappeti. E disteso in quel triclinio riassunsi calligraficamente le impressioni della giornata sopra i moduli dell’amministrazione imperiale dei telegrafi.
Quando il nostro ospite entrò in possesso del mio dispaccio per trasmetterlo, mi assisi al suo fianco, avanti agli apparecchi. Egli era un po’ imbarazzato; consultò dei regolamenti cinesi, guardò delle tabelle, contò e ricontò le parole del telegramma, poi scrisse accuratamente in testa al modulo: N. 1.
Ettore al lavoro. — Travasando la benzina dai grandi serbatoi a quello del motore.
— È il primo telegramma della giornata? — gli chiesi.
— No, signore — mi rispose — è il primo dell’ufficio.
— Che intendete di dire?
— Dico che il vostro è il primo telegramma che parte dall’ufficio di Pong-Kiong.
— In quest’anno?
— No, signore; da quando l’ufficio esiste. Sono sei anni.
— In sei anni nemmeno un dispaccio?
— Nemmeno uno.
— E allora perchè vi è un ufficio? — domandai dopo un silenzio riempito di stupore.
— Perchè le distanze sono troppo grandi, e occorrono delle stazioni intermedie.
La conversazione fu interrotta dall’apparecchio: Kalgan chiamato rispondeva. Il mio dispaccio cominciò a partire.
Kalgan lo riceveva per passarlo a Pechino, Pechino lo avrebbe trasmesso a Shang-hai, Shang-hai a Hong-Kong, Hong-Kong a Singapore, Singapore ad Aden, Aden a Malta, Malta a Gibilterra, Gibilterra a Londra.
Avrebbe impiegato da otto a dieci ore per giungere a destinazione. Ma il tempo di Pong-Kiong è di otto ore in anticipo su quello dell’Europa centrale, e il telegramma sarebbe effettivamente arrivato soltanto due ore dopo della partenza. Erano le 4.15; fra le sei e le sette della sera il mio resoconto sarebbe stato nelle redazioni del Daily Telegraph e del Corriere della Sera. E al mattino dopo, i lettori inglesi ed italiani avrebbero conosciuto quel che alla vigilia era avvenuto a delle automobili nei deserti della Mongolia. Vi è qualche cosa di talmente grande nella vittoria umana sul tempo e sullo spazio, ottenuta con dei fili e delle scintille, che in certi momenti la stessa anima d’un giornalista, la più abituata ai prodigi della rapidità, è invasa da un senso di meraviglia e di orgoglio.
Verso le sei arrivarono le altre vetture. Le vedemmo venire da lontano, quando non erano che delle cose minuscole sulla sconfinata eguaglianza della terra, così lontane che sembravano immobili come navi all’orizzonte. La Spyker entrò per la prima nel recinto, dove Ettore stava mettendo in ordine la nostra automobile e dove io mi ostinavo a ridurre alla cottura un pezzo di pecora più dura d’una pneumatica. Du Taillis saltò giù dal suo sedile sollevando un sacco grigio, e gridando:
— Di chi è questa roba?
Era il bagaglio di Borghese. Aver ritrovato, dopo Pong-Kiong, anche la valigia, era il colmo della buona fortuna. E c’è della gente che si sperde nei deserti!
— È molto tempo che l’avete raccolta? — ho domandato.
— Eh, si. Parecchie ore fa. Eravamo ancora nella regione delle erbe.
— Era rimasta sulla strada?
— Mai più! Dei mongoli, mentre passavamo, hanno fatto dei gran segnali. Ci siamo fermati. Ed allora essi ci hanno consegnato quel bagaglio facendoci comprendere che doveva essere stato perduto da voi....
— Dei mongoli? Dei barbari onesti? Dei miserabili selvaggi che si permettono il lusso di restituire quel che trovano?
— E senza domandare la mancia.
— Ma dove sono andati a finire, amico mio, i briganti delle praterie, quelli che avevano il preciso dovere di assalirci....
— In Europa, probabilmente.
— È il fallimento delle avventure di viaggio! Valeva la pena di venire in questo remoto deserto per vederci offrire del latte e restituire delle valigie?
— Oui, c’est triste!
Aspettammo inutilmente l’arrivo del triciclo. I nostri compagni espressero la ferma opinione che Pons fosse tornato indietro. In questo senso telegrafai immediatamente. Non nutrivamo sulla sorte di Pons e del suo compagno alcuna inquietudine. Erano ancora in regioni abitate, ed avrebbero trovato facilmente ospitalità ed aiuti.
Dopo varie ore, il pezzo di pecora si mostrò altrettanto ribelle alla masticazione quanto s’era mostrato ribelle alla cottura. Il telegrafista, che ce lo aveva fornito, ne era desolato. Noi lo consolammo facendogli vedere come l’europeo che ha fame non indietreggi neppure avanti ad un piatto di pergamene. E dopo questo ci sdraiammo sui kang.
Nella notte la luce livida della luna invase la camera, e ne fui destato. Mi sollevai sul gomito. Fu allora che conobbi per la prima volta che cosa sia il silenzio assoluto. Quel che noi chiamiamo silenzio, non è che l’assenza di certi suoni e di certe voci, non è che il tacere dei rumori umani: ma ascoltandolo, se siamo nella campagna udiamo fremere gli alberi, sospirare le messi, mormorare dell’acqua, stridere i grilli, ululare qualche cane lontano, e se siamo al mare udiamo l’urto dell’onda quieta sulla sponda, simile ad un batter lieve di mani, o il frangersi dei cavalloni sugli scogli. Ma là non udivo nulla; niente vibrava, niente viveva. Ebbi l’impressione di non so quale vuoto favoloso, di un vuoto extraterrestre, ebbi il senso angoscioso d’una sospensione sugli abissi dello spazio; l’incubo d’un isolamento infinito.
Quando riappoggiai il capo sui cuscino udii il rumore di un passo regolare, rapido, forte, metallico.
Mi sollevai di scatto ascoltando. Il rumore era cessato improvvisamente.
— Bah — esclamai fra me — è un effetto della pecora. Quel piatto era indigesto.
Tornai a sdraiarmi. E il passo riprese a farsi sentire nettamente nel grave silenzio pauroso. Completamente desto per l’attenzione non potei trattenermi dal sorridere scoprendo senza fatica il colpevole di quel rumore. Per svegliarmi presto avevo messo l’orologio sotto il cuscino.
Il sorgere del sole, al mattino del 19 Giugno, ci trovò già in cammino. Sorpassammo la Spyker partita poco prima, e filammo verso il nord. Il nuovo appuntamento era per la sera ad Udde, la prossima stazione telegrafica, vicina d’un altro pozzo, a circa 250 chilometri da Pong-Kiong (secondo i nostri calcoli).
L’aria era fresca, e i primi raggi del sole sembravano senza calore. Radevano la terra, e l’automobile proiettava un’ombra lunghissima e stravagante che oscillava sui ciuffi d’erba e tremolava sulle sabbie, passando velocemente come l’ombra di un grande uccello al volo.
La strada era buona, ed il motore, spinto in certi momenti alla quarta velocità, spandeva nella calma della pianura il suo palpito precipitoso. A pochi chilometri da Pong-Kiong, tornammo a trovare del verde. Rientravamo in una regione di prati, distesi mollemente su lievi ondulazioni.
— Cos’è che fugge? Là, là! — gridò ad un tratto Ettore, indicando con la mano tesa alla nostra destra.
Era un’antilope. Lontana un centinaio di metri, si metteva in salvo allungando quel rapido ed elegante trotto caratteristico delle antilopi, più veloce d’ogni galoppo.
— Inseguiamo? — esclamai.
Nel deserto. — L’alt ad un pozzo.
L’idea di cacciare l’antilope con un’automobile spinta a novanta chilometri all’ora ci parve estremamente seducente, ma il Principe osservò che una caccia può condurre lontano, ed avevamo molta strada da fare. V’era un argomento anche più forte in favore della libertà d’ogni selvaggina, ed era che non possedevamo neppure un fucile.
Un momento dopo, arrivavamo vicino a tutto un piccolo branco di gazzelle, dalle groppe grigie e le zampe bianche, snelle come puledri, graziose nelle movenze. Fuggirono atterrite, una dietro l’altra; si fermarono lontano e volsero il collo flessuoso per guardare quel nuovo essere che irrompeva nella pace dei loro pascoli. L’osservazione non parve le rassicurasse molto, poichè subito si rimisero a fuggire in fila e scomparvero.
Molto raramente incontravamo degli uomini.
Cinque o sei mongoli a cavallo tentarono d’inseguirci: erano a mezzo chilometro sul nostro fianco e galopparono a lungo gesticolando.
Improvvisamente sulla prateria deserta vedemmo biancheggiare qualche cosa che ci parve un palazzo. Un palazzo con altre costruzioni intorno, piccole e bianche. Ci dirigemmo verso quella strana colonia di edifici. Quando fummo vicini si presentò a noi una visione di tempi remoti.
Chi non conosce, per le sapienti ricostruzioni degli archeologi, gli stili delle artiche civiltà asiatiche? Pensando all’aspetto che dovevano presentare Babilonia o Ninive, chi non s’è raffigurato degli edifici quadri e massicci, dalle pareti leggermente inclinate come tronchi di piramidi — che danno l’illusione di scorci maestosi — dalle finestre e le porte più larghe alla base come le porte e le finestre dei mausolei, terminati a terrazza, semplici e grandiosi come tombe?
Alcune rovine dell’antico Egitto offrono l’esempio di quella linea piramidale che dà alle mura una stabilità millenaria ed una illusione d’ingigantimento che produce un meraviglioso effetto di prospettiva, come se il decrescere delle larghezze in alto fosse dovuto ad elevazioni prodigiose. Quando la fotografia ci ha rivelato Lhasa abbiamo ritrovato quella sagoma, e siamo rimasti sorpresi dalla straordinaria severità biblica della città interdetta che ci mostrava ancora vive forme architettoniche di civiltà lontane, forme che non le erano giunte dall’India con la religione, nè dalla Cina con la sovranità politica, ma che dovevano esserle state trasmesse dall’Occidente asiatico in un passato vecchio di venti o trenta secoli. La reclusione, l’immobilità, la quiete ed il Buddhismo, che hanno fatto del Tibet un santuario, hanno mantenuto la tradizione se non il senso d’un’arte.
Noi ci trovavamo avanti ad edifici di quello stile. Ma erano ben lontani, certo, dal possedere l’imponenza dell’Acropoli di Lhasa. Il deserto non offre materiali da costruzione, e chi sa da dove avevano portato in quel luogo le pietre a dorso di cammello. Era la forma e non la grandezza che dava loro una severità imponente. E forse anche era soltanto il significato che a quella forma annettevamo noi, erano le analogie che essa ci suggeriva, le evocazioni della nostra mente.
Il principale edificio era un tempio Lamista, tutto bianco di calce, ornato alla sommità da un fascione rosso a fregi di terracotta, d’una grazia semplice e di sapore greco. Un fregio simile contornava la porta e le finestre trapezoidali, protette ognuna da un piccolo tetto. Lunghi tubi di bronzo sporgevano in alto per far scolare le pioggie dalla terrazza, sollevati come dei remi al bordo d’una galea. Le costruzioni intorno, molto più piccole, somigliavano al tempio; supponemmo fossero le abitazioni dei monaci. Lasciata l’automobile ci aggirammo a piedi per quei luoghi sacri. Non v’era nessuno. Sembravano abbandonati. Non udivamo una voce, non un rumore.
Stavamo per ritornare “a bordo„, quando da una porticina venne fuori un vecchio, a piccoli passi. Ci vide, e si fermò. Era alto, vestito di un costume bizzarro che gli lasciava le braccia nude, magro, con un volto rugoso da vecchia. Lo avvicinammo, lo riverimmo, lo fotografammo, gli parlammo, ed egli non si mosse e non rispose. Non mostrava nè stupore, nè paura. Pareva soltanto assorto in una meditazione profonda sul mistero del nostro essere e della nostra presenza in quei luoghi. Ci guardava senza poter comprendere. Nei suoi occhi v’era lo sforzo della concentrazione. Sarebbe stato impossibile indovinare la sua età; sembrava forte e sembrava decrepito; sul suo viso s’affossavano i solchi d’una vecchiaia incalcolabile.
Rimontati in macchina ci volgemmo correndo, e lo vedemmo ancora lì, immobile, che ci guardava sempre, quel vecchio solo che non riusciva a capire.
La strada scendeva sensibilmente. Verso le otto arrivammo sull’orlo d’un ciglione. I prati erano di nuovo scomparsi. Ritornava l’erba grassa, grigia e rada, timidamente raccolta in larghe macchie che lasciavano fra loro vaste zone sterili e nude. Ci trovavamo sulla soglia del vero deserto.
Gobi in mongolo significa cavità. Il deserto è una immensa depressione nel centro della Mongolia; è la cavità, il gobi, che conteneva un mare. Noi ci trovammo sulla riva di quel mare scomparso. Era una vera riva, ripida, un gradino brusco creato dall’urto delle onde. Stavamo per entrare in una pianura più bassa: nel fondo dell’antico mare. Quella spiaggia aveva le sue insenature, i suoi capi, le sue penisolette. Avanti a noi il piano sterile si stendeva all’infinito ondulando, e pareva risollevarsi all’orizzonte per quella illusione ottica che fa sembrare l’orizzonte marino sempre più alto della riva.
Una discesa ripida, lunga venti o trenta metri, ci varò sulle sabbie dure e piane che avevano conosciuto le tempeste. E incominciammo una corsa fantastica attraverso il più strano e il più desolato paesaggio; una corsa che era un attacco ed una fuga insieme.
A mano a mano che c’inoltravamo la terra diveniva più nuda, squallida, triste. Ora piana ed eguale, ora accidentata, agitata da bruschi sollevamenti; ora formata da sabbie cristalline che scintillavano al sole, ed ora il suolo non era che un fondo schistoso d’un colore di fango compresso. Nessuna forma di vita, fatta eccezione per certe lucertole piccole e corte, di un colore così eguale a quello della terra da renderle invisibili appena si fermavano. Si sarebbero prese per dei minuscoli frantumi del suolo improvvisamente animatisi per fuggire qua e là lontano dalle ruote dell’automobile.
Le ore passavano in una monotonia mortale. Il calore, coll’avanzare del giorno, diveniva ardente. L’aria era immobile, e aspiravamo con voluttà il soffio refrigerante che la velocità ci spingeva sul volto. Passavamo dal fresco del mattino ad una temperatura tropicale, senza transazioni. Constatammo un fenomeno curioso; mentre il sole scottava, l’ombra era ancora fredda. Provavamo l’impressione di chi si scalda d’inverno avanti alla fiamma di un camino, e si sente bruciare verso la fiamma e intirizzire verso l’ombra. Il cielo era d’una limpidezza inesorabile. Così limpido che c’ingannavamo sulle distanze; vedevamo tutto ravvicinato a noi. L’orizzonte ci appariva sempre a qualche chilometro, e Villaggio di yurte mongole presso Urga. correvamo delle ore prima di raggiungere certe scabrosità viste nettamente a grandi distanze sull’orlo estremo delle collinette.
Questa terribile trasparenza era dovuta all’assoluta mancanza di vapore acqueo. La siccità dell’aria ci procurava delle sofferenze che aumentavano da minuto a minuto. La nostra pelle era inaridita, come per una febbre, e ci mancava così la difesa d’una traspirazione che assorbisse calore evaporando. Perciò sentivamo sul viso e sulle mani bruciare il sole in modo tanto aspro, da darci l’impressione d’essere sotto il foco d’una lente smisurata. Il giorno prima, in verità, avevamo fatto la stessa osservazione, e fu anzi sulla strada di Pong-Kiong che ci si presentò l’idea della lente come la più appropriata delle similitudini; ma non pensavamo allora che nel deserto vero la lente dovesse crescere di tanti gradi. Comprendevamo bene perchè le carovane non camminassero durante il giorno. Ma noi non potevamo e non volevamo fermarci. Ogni nostro sollievo era nella velocità.
Non trovammo che un pozzo. Verso le dieci scendemmo un altro gradino, un’altra riva che probabilmente rappresentava una tappa del mare nella sua lunga ritirata, durata forse miriadi di secoli, verso l’annientamento. Il suolo era biancastro di salsedine. In certi punti mi ricordava i dintorni del Lago Asfaldite nelle vicinanze di Gerico, ma senza le verdure del Giordano. Correvamo sopra una terra estinta. Una terra che visse troppo presto. Chi sa, forse avevamo intorno a noi la precisa visione del mondo futuro, del nostro mondo fra milioni d’anni, disseccato, morto, disteso sotto un’inalterabile serenità che gli darà un aspetto lunare nelle lontananze infinite del firmamento.
La parte più truce del deserto è lunga appena sessanta chilometri. Le carovane cercano di attraversarla in una sola marcia. Riempiono d’acqua otri e barili agli ultimi pozzi, e partono alla luce delle stelle. La loro strada è segnata dal biancheggiare degli ossami. Ossa di cammello, di mulo, di bue, di cavallo, sono disseminate un po’ su tutta la via carovaniera, ma nel deserto è quasi continua questa traccia di massacro. Spesso la tormenta vi sorprende i convogli, li isola nell’opacità della sabbia sollevata a turbini, li costringe a fermarsi, e allora ammazza. Tutte le bestie vecchie, o stanche, o spedate, è lì che cadono. Quella è la regione delle agonie.
Vi è diffuso un inesprimibile senso di morte; viene non si sa da che, dal lugubre aspetto del paesaggio forse, dalla stranezza opprimente dei suoi profili nudi, dall’infinita eguaglianza di colore, o meglio ancora dal grave silenzio angoscioso; emana da tutto, e dà l’idea d’un pericolo ignoto e imminente, d’una continua minaccia, di un’insidia, di un agguato inimmaginabile al quale ci si prepara rassegnati. Non si ha che un pensiero, un desiderio anzi, informe, vago, inascoltato, ma tenace: quello di fuggire, di non calpestare più quel cadavere di mondo, d’esserne liberati. Si guarda all’orizzonte come ad un luogo di salvezza e di riposo; si aspetta ogni piccolo valico con una speranza imprecisa; al di là d’ogni altura ci s’immagina di trovare qualche cosa d’inatteso e di buono. Ma passano valichi, passano alture, l’orizzonte che ci fronteggia diventa l’orizzonte che si lascia alle spalle; la desolazione pare senza fine. Il pensiero si fa inerte, l’anima annega in una tristezza invincibile. La partenza dall’ultima tappa si perde nelle brume del passato; la mente un po’ stordita si offusca; tutto sembra immensamente lontano, nebuloso. Lontana la partenza e lontano l’arrivo. Si sa questo solo: che si dovrà pure arrivare e che si arriverà. E tale idea conferisce quella gran forza che si chiama: Pazienza.
Pazienza, e avanti! Tutte le resistenze dello spirito e del corpo sono disciplinate al servizio della pazienza. Avevamo finito col tacere, quasi per non dissipare niente delle nostre energie. E poi, una parola è un pensiero, e in certi momenti un pensiero costa troppa fatica. Verso le dieci ci trovavamo nel centro della zona peggiore del Gobi. Le due tappe estreme delle carovane sono segnate da un’enorme quantità di obo. L’obo è l’altare del mongolo nomade; è forse il primo altare che l’umanità abbia eretto. Consiste in un cumulo di sassi.
Prima di attraversare il deserto, per implorare la protezione del cielo, e dopo attraversato il deserto, per ringraziare gli dei della salvezza concessa, il pio carovaniere prende una pietra, la depone sull’obo, si genuflette e prega. Fin dal nostro primo ingresso nella Mongolia, quando eravamo ancora in vista della Grande Muraglia, abbiamo trovato degli obo sulla vetta delle colline. Ma non somigliavano a quelli del deserto. Forse erano abbandonati, abbattuti dai venti, ridotti a dei monticoli informi. Gli obo che incontravamo ai limiti della regione più desolata avevano spesso una terribile apparenza umana.
Eretti anch’essi sulle piccole alture, erano formati da una sapiente sovrapposizione di sassi, culminata da un teschio di bue o di cavallo. Sembravano veramente innalzati alla morte. Da lontano, più di una volta, quelle costruzioni che si profilavano sul cielo terso ci parvero degli uomini, e nel teschio bianco credevamo di vedere le loro facce. Ve n’erano tante che formavano una folla. La presenza di una moltitudine, non importa di quale gente composta, era per noi una ragione di contento. Era un’interruzione della sconfinata solitudine. Nel deserto tutti gli uomini diventano cari, forse non tanto per un senso d’affratellamento umano, o per un desiderio di unione contro il pericolo, quanto per lo spettacolo confortante della vita. E guardavamo tutti quegli uomini dritti, scrutandoli; poi ci stupivamo della loro immobilità; pensavamo che forse ci avevano visti ed erano fermi per la meraviglia. Improvvisamente la solitudine si rifaceva intorno a noi, e più dolorosa, quando vedevamo quella folla divenire di pietra, e i volti trasformarsi in teschi, come per un lugubre incantesimo.
Alla base d’ogni obo erano delle striscie di carta con sopra scritte preghiere in carattere tibetano, o delle banderuole scolorite dal tempo, recanti anch’esse traccie di scritture sacre. Il mongolo nutre una superstizione piena di poesia: crede che il vento, agitando quella carta e quelle bandiere, ne faccia uscir fuori la prece scritta e la rechi a Buddha; passando lì sopra l’aria s’imbeverebbe di preghiere come s’imbeve di profumi passando sui fiori ed agitandoli. Il significato dell’incenso nelle nostre cerimonie religiose non ha qualche analogia? Noi dovevamo agli obo un beneficio: la loro presenza significava la liberazione della strada da tutti i sassi. E chi sa che l’origine della singolare usanza religiosa non debba proprio ricercarsi nella necessità di migliorare i passaggi sassosi, e che l’atto di togliere una pietra dalla via non sia divenuto un rito in mezzo ad un popolo che ad ogni atto ed ogni fatto attribuisce un senso mistico.
Dovemmo accorgerci che il radiatore, questo polmone dell’automobile, non respirava bene. Per il gran calore, la corrente d’aria prodotta dalla velocità non riusciva più a rinfrescare l’acqua che circola intorno ai cilindri, e l’acqua s’evaporava con un soffio violento e continuo dalla chiusura del radiatore. Da lungo tempo (ci pareva almeno lungo tempo) cercavamo dei pozzi per rinnovare l’acqua nel motore. Non volevamo adoperare quella del nostro serbatoio, se non costretti da un’estrema necessità. Il serbatoio conteneva appena una cinquantina di litri, ed era prudente serbarli; Fra yurte mongole presso Urga. una rottura della macchina poteva farci naufragare, e quella provvista sarebbe stata la nostra salvezza.
— Un pozzo! — esclamava di tanto in tanto qualcuno di noi fissando l’orizzonte — Laggiù, un pozzo, vedo dell’umidità, la terra ha una macchia scura!
— Si, si — rispondevano gli altri.
Le illusioni sono comunicative.
La macchia scura non esisteva, od era un’ombra. Fummo costretti a ricorrere all’acqua del carico, e ci fermammo per travasarla. La terra pareva bruciare sotto i nostri piedi; da essa salivano un’afa greve ed un riverbero accecante. Eravamo tormentati da una sete quasi insopportabile. Quando vedemmo l’acqua limpida zampillare al sole dal serbatoio, non potemmo resistere, e ne sorsammo avidamente, con gli occhi socchiusi per goderla meglio, la bocca suggellata al sifone — lo stesso sifone che serviva a travasare la benzina. L’acqua era calda e puzzava di benzina e di vernice; ci sarebbe sembrata nauseante in qualunque altro momento. Tutto è relativo a questo mondo. Il Principe fu il più sobrio; bagnò appena le labbra, e ci esortò a non consumare quel prezioso deposito. La corsa monotona seguitò.
A mezzogiorno cominciammo a rivedere un po’ d’erba in fondo a certe avvallature dove era evidentemente rimasta qualche umidità. Poco dopo fummo sorpresi dal volo di alcuni uccelli bianchi, e non tardammo a scorgere un piccolo stagno in una larga cavità del suolo. Sulla riva passeggiavano solennemente dei trampolieri. Ci fermammo a prendere dell’acqua, che Ettore andò a raccogliere con la pentola. L’acqua era assolutamente imbevibile, fetida, giallastra, leggermente salata; l’adoperammo per il motore, che non ha palato. Ma quell’acqua significava con la sua presenza che eravamo già fuori dal sinistro regno della siccità assoluta. Infatti non tardammo, dopo alcune decine di chilometri, a ritrovare dei pozzi, circondati dagli accampamenti delle carovane.
Vicino ad uno di quei pozzi non v’erano che due cinesi addormentati. Forse due disgraziati che rimpatriavano a piedi a piccole tappe. Non possedevano nemmeno una tenda per difendersi dal sole. Avevano per unico bagaglio pochi stracci ed un sacco. Seminudi, sdraiati sulla sabbia che pareva incandescente, il capo scoperto, dormivano. Vicino a loro fumavano i resti d’un fuoco, e sul fuoco vaporava la theiera, immancabile nel bagaglio del più povero cinese come il samovar lo è in quello del più povero dei russi. Non comprendevamo come degli uomini potessero resistere all’atroce supplizio di quel calore. Udendo del rumore essi si destarono, si sollevarono a guardarci un poco con gli occhi assonnati, poi tornarono a sdraiarsi. Dovevano essere affranti e stupiditi. Che cosa era il nostro viaggio paragonato al loro? Ricordammo quel pellegrino incontrato dal Principe presso Nan-kow, quell’uomo che avrebbe attraversato il deserto baciando la terra ogni tre passi, e pensammo che i due cinesi incontrandolo avrebbero forse avuto di lui quella pietà che noi provavamo per loro....
L’acqua dei pozzi era limpida e gelida. Dopo esserci dissetati ne empivamo il secchio, ed ogni tanto, durante la corsa, ce ne passavamo dei bicchieri colmi. Fra gli effetti del calore ne constatavamo uno almeno utile: il poco consumo di benzina. Nella miscela esplosiva, che scoppiando per l’accensione della scintilla elettrica produce la forza motrice, entrava in minima parte il vapore di benzina. Ce ne accorgevamo dal funzionamento della valvola che automaticamente immette aria nella miscela; essa aveva bisogno d’essere allentata completamente, ed era evidente che l’aria entrava nel carburatore in proporzione straordinaria. Borghese osservava che andavamo più ad aria che ad essenza.
Col progredire del giorno il calore aumentava. Il sole, sorto alla nostra destra, dopo averci girato alle spalle, cominciò a sferzarci dalla sinistra. Alla partenza da Pechino io avevo disprezzato l’elmo di sughero del quale il Principe ed Ettore s’erano forniti, e sfidavo gli ardori del Gobi con la modesta protezione d’un cappello di Panama, la cui falda si sollevava tutta sulla mia fronte per effetto della velocità scoprendomi completamente il viso. In poche ore il sole ci trasformò in maschere grottesche, ed io, ahimè, fui la più grottesca. I volti ci divennero d’un rosso vivo gonfiandosi, e doloravano; non potevamo sopportarvi nemmeno il leggero contatto del fazzoletto. L’acqua fresca, che nei giorni precedenti ci procurava delle abluzioni deliziose, produceva un bruciore sgradevole. Qua e là, su delle macchie più scure, la pelle si sollevava. Avevamo l’impressione di subire un lento processo di cottura. Gli occhi arrossati bruciavano, e le labbra erano enfiate, inaridite, screpolate. Ettore specialmente soffriva nella bocca che gli sanguinava agli angoli. E soffriva orribilmente nelle mani, già rovinate dal rude lavoro, sulle quali il sole apriva solchi vivi; e le dita gonfie ne tremavano di dolore. Non si potrà mai apprezzare abbastanza la somma enorme di abnegazione, d’amor proprio, d’energia che Ettore dimostrava dimenticando ogni dolore al momento del bisogno, costringendo le sue mani piagate alle più dure fatiche che gli facevano lasciare alle volte traccie di sangue sugli attrezzi e sui pezzi della macchina. Quando aveva scrupolosamente finito il lavoro, si guardava le ferite, e mormorava con quel suo sorriso da grande ragazzo:
— Ho paura che non andiamo avanti!
Se avessimo avuto ancora sulle nostre teste la superba protezione del baldacchino, avremmo potuto riderci del sole. Ci consolavamo dicendo: Finirà anche questo!
Inseguivamo l’infinita linea dei pali telegrafici in una specie di sogno. Quella linea aveva le sue seduzioni. In tanta monotonia, essa assumeva varietà di aspetti alle quali c’interessavamo. Ora correva dritta, simile ad una fantastica striscia sottile e nera tracciata da un orizzonte all’altro; ora mostrava la schiera delle antenne volgere regolarmente come soldati in una manovra. L’idea dei soldati ci veniva specialmente quando vedevamo i pali assalire in rango il declivio delle alture. Sui valichi quell’insieme di lineette serrate l’una all’altra formava spesso sorprendenti sagome nebulose, ora simili ad una cuspide gotica, ora ad una montagna dirupata, immensamente lontana. Osservavamo tutte queste cose con un’attenzione infantile. Avevamo pensieri d’una puerilità stravagante. Mi sorprendevo talvolta a contare i pali, meccanicamente, cominciando da uno qualunque, per finire col perdere il conto. Quel che v’è di opprimente in un viaggio di quel genere, per chi non guida, è l’inazione. Si osserva dapprima, si medita, poi si fantastica, ed alla fine il pensiero stanco discende nel vaneggiamento; nessuna visione più lo risveglia, e si rimane così in uno stato di tacita e quieta insensatezza. La mente si addorme e si empie della dolce demenza del sonno.
— Una yurta! — esclamò il Principe.
Erano le due del pomeriggio. Quelle parole ci scossero, come se avessero annunziato un prodigio.
— Dov’è, dov’è?
— Laggiù, a sinistra, sotto a quelle roccìe.
— Ritorna il mondo!
— Saranno nomadi in viaggio. Non vi sono pascoli. Chi può vivere qui?
Avanti la Banca Russo-Cinese a Urga. — Il primo tarantar.
Guardammo lungamente la yurta fuori della quale era legato un cavallo. Poco dopo scorgemmo un cammello carico, condotto da un mongolo che si era fermato a farci dei grandi gesti. Lo aspettammo, e il mongolo accorse inchinandosi, estrasse dalla sua casacca un grosso involto di pezza e cominciò lentamente a disfarlo. Dentro al primo involto ve n’era un altro, dentro al secondo un terzo.... Finalmente dall’ultimo involucro uscì fuori un telegramma che l’uomo presentò cerimoniosamente.
Il telegramma era diretto a Du Taillis, e lo restituimmo indicando al carovaniere di continuare il cammino verso il sud. Egli rifece accuratamente il suo pacco, ottimo espediente per non perdere una carta preziosa ma che non sarebbe consigliabile agli uomini d’affari. Ci accorgemmo che il cammello era carico di due bidoni di benzina. Allora comprendemmo: la Spyker, probabilmente a corto di combustibile, aveva telegrafato da Pong-Kiong ad Udde per farsi spedire due bidoni del deposito, ed i bidoni erano in viaggio. A Pong-Kiong avevamo ceduto alcuni litri della nostra benzina, e credo che le De Dion-Bouton avessero fatto altrettanto.
Alle quattro ci trovavamo in una regione frastagliata da roccie basse, erette qua e là sulla pianura come scogli sul mare. Alla vigilia non riuscivamo a vedere la stazione di Pong-Kiong che credevamo perduta, ora invece vedevamo un Udde in ogni roccia lontana. Rimanevamo ingannati ad ogni passo. Per non perdere di vista i fili del telegrafo cercavamo di seguirli ovunque, sul dorso di colline, fra sassi e macigni; l’avanzata si faceva faticosa. Verso le cinque ci si presentò un’altura formata da un ammasso di roccie tondeggianti. Ai suoi piedi, confusa con le pietre, una casetta cinese: Udde. Pochi minuti dopo entravamo in quel luogo di delizie, in tutto simile a quello che avevamo lasciato al mattino.
Fummo ricevuti non da uno, ma da due impiegati telegrafici. Arrivavamo in un momento di trasloco; il vecchio telegrafista di Udde stava per lasciare il suo posto e si preparava a diciassette giorni di viaggio in carovana per raggiungere Kalgan. Intanto iniziava ai doveri dell’ufficio il nuovo collega giunto qualche giorno prima.
Quell’uomo che lasciava il deserto era felice. La contentezza lo rendeva espansivo. Ci seguiva per tutto, sorridendo. Volgendoci eravamo sicuri di vedere quel cinese piccolo e magro, munito d’una gran coda e d’un gran paio d’occhiali a stanghetta, pronto a confidarci la pienezza della sua gioia. Mentre scrivevo il mio resoconto telegrafico, mi parlava:
— Vado a Shang-hai.
— Ah.
— Sì, perchè io sono di Shang-hai. E sono vedovo — (sorriso cerimonioso) — e sono cristiano.
— Mi rallegro.
— Mio padre vuole che io mi ammogli di nuovo. Così, appena arrivo a Shang-hai mi sposo — (risata).
— E siete innamorato?
— Io, no. Non conosco la mia fidanzata. L’ha scelta mio padre.
— E se non vi piacesse?
Egli mi ha guardato sorpreso, ed ha sorriso con condiscendenza dicendomi ancora:
— L’ha scelta mio padre! È il nostro uso. Parto dopodomani. Eh! Eh!
Quella sera abbiamo aspettato inutilmente l’arrivo delle altre automobili.
Divorammo in silenzio un po’ di riso e dell’eterno corned-beef, e ci sdraiammo in terra avvolti nelle nostre pellicce. Da due giorni ci dimenticavamo di far colazione. La sete aveva ucciso la fame.