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166 capitolo viii.


dovesse finire che alla nuova tappa. Ma finì la corsa, finì la pianura, finirono i prati, tacque il canto delle allodole, e c’inoltrammo cautamente in una regione sassosa, triste, nuda, abbandonata. Eravamo di nuovo riafferrati dal deserto. Ci fermammo ad un pozzo, in mezzo all’accampamento d’una carovana cinese. I carovanieri usciti dalle loro tende azzurre, seminudi, si avvicinarono.

— Quanto è lontano Tuerin? — chiedemmo.

Indicarono il nord con un gesto espressivo che voleva dire: Molto, molto lontano!

— Quanti li?

Non lo sapevano. Uno di loro disse:

— Due giorni.

Un altro ci parlò lungamente di Tuerin, d’una montagna, ci indicò un punto ove la strada saliva un piccolo valico; e riuscimmo a comprendere che Tuerin doveva trovarsi ai piedi d’una montagna, e che la montagna poteva scorgersi da quel punto della strada.

Non ci eravamo ingannati. Infatti, spinta la macchina sull’altura, vedemmo all’orizzonte il profilo d’una enorme roccia, una Gibilterra del deserto. Doveva essere lontana non meno di settanta chilometri, e la potevamo scorgere soltanto in virtù dell’estrema trasparenza dell’atmosfera. Era pallida, azzurra, e, come avviene in mare quando si avvista una terra, la perdevamo, ci svaniva a momenti sotto lo sguardo, il suo contorno scompariva, e la visione si dissolveva nella luminosa serenità. Dovevamo allora pazientemente ripercorrere con l’occhio la linea dell’orizzonte per ritrovarvi l’apparizione tremula e lieve.

La strada scendeva, e la montagna di Tuerin tramontò come un astro. Incominciò un’altra serie senza fine di valli e di alture, riarse e sterili. Ad ogni collinetta ci aspettavamo di rivedere la Gibilterra più vicina. Ma non vedemmo più nulla. Passavano le ore e parevano eterne. Ci sentivamo stanchi, affranti, quasi che la nostra forza entrasse per qualche cosa nel poderoso lavoro del motore. In verità, lo spingevamo talmente col desiderio assiduo,