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la città del deserto 163


c’inaridiva la gola, e ci pareva di sentirci prosciugare tutti. L’incontro d’un pozzo era una festa.

Ricordo come una delle cose più deliziose l’atto di mettere le labbra sull’orlo d’un secchio colmo d’acqua fresca. Erano delle bevute a gran sorsi, lunghe, avide, con i piedi nel fango del pozzo, la faccia rovesciata, immersa quasi nell’acqua che colava fuori, che ci scorreva nel collo, che si riversava sui vestiti tanta era la nostra premura di bere presto, di bere tanto, di godere quella dolce frescura che entrava in noi a ondate.

Quando l’arsura ricominciava, subivamo talvolta l’ossessione di un desiderio irrealizzabile che non ci voleva abbandonare: assorbivamo con la fantasia delle bevande immaginarie. Ettore pensava per solito ad un gran bicchiere di birra gelata, torbida per la spuma ma che chiariva dal fondo a poco a poco, e che frizzava in gola, mentre l’esterna rugiada del bicchiere gocciolava fra le dita. Ogni tanto mi offriva il suo bicchiere di birra; ed io lo contraccambiavo generosamente con delle granite di caffè. Non so la ragione per cui la granita di caffè divenisse il mio preferito rinfresco spirituale nel deserto. Cosa strana: ci proponevamo seriamente di fare al ritorno delle vere indigestioni delle nostre bibite, di godercele in realtà, come se quella sete dovesse perseguitarci fino in casa nostra; e provavamo dei grandi rimpianti per tutte le birre e tutte le granite che avevamo sorbito in passato senza apprezzarne l’immenso valore, senza sentire la felicità che ne veniva.

Con Udde le roccie erano scomparse. Per lunghe ore il viaggio si svolse per una serie infinita di valli chiuse da basse collinette renose e rossastre. Sulle colline trovavamo qualche breve passaggio sassoso, qualche sabbione pesante che affaticava il motore, ma in generale il terreno non poteva essere più adatto all’automobilismo. La macchina era spesso lanciata alle velocità massime su pianure vergini; ci discostavamo da ogni traccia di sentiero, lasciavamo le orme dei cammelli, e stendevamo il segno delle nostre ruote sopra una terra che non fu mai calpestata.