La metà del mondo vista da un'automobile/III
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CAPITOLO III.
VERSO LA GRANDE MURAGLIA
Un ordine della polizia era bastato a sospendere l’imponente e multiforme traffico di Pechino su tutto il nostro percorso — sopra quasi otto chilometri di strade. Le rudi carrette a due ruote, che sono le vetture pubbliche della città, aspettavano in disparte, ammassate ai crocicchi ed agli sbocchi delle grandi vie laterali. La folla, disciplinata e ubbidiente, si teneva in rango, vicino alle basse e interminabili file di edifizi e di baracche che fiancheggiano le maggiori arterie pechinesi, addossata alle nere taverne fumose che alitano sui passanti un caldo odore di cucina all’aglio, schierata sulle soglie delle botteghe dalle facciate di legno scolpito, colorato, dorato, facciate che sporgono sulla via insegne originali, draghi, frangie di seta rossa, tabelle laccate piene di caratteri d’oro, tutta quella caratteristica confusione di colori e di forme che orna i negozi cinesi come per una festa quotidiana, e che si muove, oscilla, vibra, e pare si agiti al rumore.
Era per le vie la solita popolazione dei mercati, trasandata e pittoresca, quella di tutti i giorni, e non già una folla adunatasi apposta per vederci. Lo spettacolo d’una corsa d’automobili lasciava i buoni pechinesi assolutamente indifferenti. Eravamo guardati senza curiosità e senza ostilità. Molti ci degnavano appena d’un’occhiata. Pareva che non avessero visto altro in vita loro. Ne eravamo quasi umiliati. Ci aspettavamo di scorgere nella gente i segni della più intensa meraviglia, e invece non scorgevamo che quelli d’una sublime noncuranza. I miracoli della nostra civiltà non hanno neppure l’onore di sollevare l’attenzione d’un ragazzo cinese. Non c’è più nulla di europeo che possa sorprendere un figlio del cielo. È ammesso laggiù che noi possediamo virtù magiche, proprietà misteriose per le quali animiamo organismi di acciaio capaci di ogni lavoro; la cosa è naturale e non v’è più da stupirsene.
Vi sono due categorie di persone al mondo che niente meraviglia: il grande scienziato, che conosce tutto, e il grande ignorante, per il quale tutto è un mistero. L’ignorante assoluto ha l’abitudine all’inesplicabile; ogni cosa sorpassa il limite delle sue nozioni; e niente lo sorprende poichè tutto dovrebbe sorprenderlo. Il cinese è così. Egli ha la tranquilla filosofia dell’inconsapevole, possiede la serena pace dell’ignaro, ed ha trovato in ciò il vero segreto della felicità.
Siamo passati velocemente al nord del recinto imperiale, per un dedalo di viuzze. Delle guardie cinesi, dalla casacca piena di iscrizioni bianche, e il cappello di paglia elegantemente posato sul codino raccolto a chignon, ci mostravano la buona via con la punta del loro lungo bastone. Da sopra il muro giallo della città imperiale ci apparvero un istante, lontano, le graziose pagode della Mei-shan, la “Montagna di Carbone„, montagna eretta dal capriccio d’un imperatore nel suo giardino a dominare l’intera città. Ed eccoci poco dopo sotto alle imponenti muraglie esterne, fra i bastioni della Dosh-man, giganteschi e severi, sormontati da uno di quegli alti castelli che difendono le porte di Pechino. Questa costruzione, un po’ fortezza e un po’ tempio, apre verso la campagna la triplice fila delle sue cannoniere a sportelli che la fanno somigliare al fianco d’un’antica fregata. Sotta la porta dobbiamo rallentare per l’acciottolato irregolare, rovinato dagli anni, solcato profondamente dalle ruote dei carri, un acciottolato che ricorda quello di Pompei. Tumultua intorno a noi la vita dei sobborghi, miserabile, gaia, spensierata.
Comincia la strada campestre, fra orti rigogliosi dai quali sporgono gli alberi quasi per offrire ai passanti ombra e frutta. Le automobili che ci precedono, una De Dion-Bouton e la Spyker, si sono fermate. Ci fermiamo anche noi. Il Principe Borghese è invitato a proseguire per il primo. Attraversando un piccolo antico ponte cinese alle falde della Lian-ya-miao.
L’Itala si rimette in moto, e presto Pechino sparisce ai nostri sguardi dietro alle irregolarità del terreno e al folto degli alberi.
Allora soltanto ci viene in mente di guardare l’orologio. Siamo partiti in ritardo: sono le 9.25.
Il sentiero serpeggiava verso il nord, sabbioso, irregolare, traversato di quando in quando da ruscelli, a volte ampio come il letto d’un fiume, a volte invaso dal verde dei campi, nascosto da folti boschetti, i cui alberi annosi proteggevano tombe e iscrizioni sacre incise su grandi lapidi dritte fra l’erba alta. Non andavamo velocemente. L’automobile sobbalzava, oscillava, doveva scendere, salire, camminare inclinata, a seconda delle lievi asperità e delle ondulazioni del terreno; solcava la sabbia con molleggiamenti felini. ”Mi piacciono — esclamava Don Livio — questi moti da belva!„. Ma la belva, a tratti, pareva volesse scuoterci di dosso, e dovevamo abbrancarci con tutte le forze. Vedevamo fra i nostri piedi girare turbinosamente l’asse del cardano non nascosto da nulla; ci trovavamo a contatto diretto con la macchina; e sotto a noi fuggiva la strada confusamente, simile ad uno scorrere vertiginoso di nastri. Il volano, con quel suo girare così rapido che produce un suono musicale, rasando il suolo ne soffiava via la polvere che saliva a nembi fra gli assi, fra le trasmissioni, e c’investiva dal basso, ci avvolgeva. Non si poteva correre molto, e il motore si riscaldava. L’automobile è come quei cavalli vigorosi e vivaci che trattenuti dal morso sudano, sbuffano, soffrono, e che lasciati galoppare sembra si riposino. Anche le resistenze della sabbia affaticavano il motore. Simile ad un alito, sfuggiva il vapore soffiando dalla chiusura del radiatore. Dovevamo fermarci a immettervi acqua fresca. Ne domandavamo ai contadini, ed essi l’attingevano per noi ai pozzi numerosi, vicino alle loro casupole di fango — a quelle abitazioni povere della campagna cinese che si rannicchiano all’ombra di grandi alberi come in cerca di pace, e che, circondate dal lavoro e dalla prosperità dei campi, hanno una così invidiabile aria di soddisfazione e di riposo. Con i secchi portati a bilancia sulle spalle, i contadini arrivavano, senza fare più attenzione all’automobile che se si fosse trattato d’un mulo.
Attraversavamo villaggi, sporchi e rumorosi, brulicanti di gente seminuda: il costume estivo del cinese povero consiste spesso unicamente in un paio di brache e in un ventaglio. Domandavamo passando il nome del paese, per essere sicuri di non battere falsa strada:
— Questo è Örr-li-tien?
La gente s’inchinava in segno d’assenso, ed approvava con ingenua contentezza la perspicacia delle nostre parole battendo il ventaglio chiuso sul palmo della mano. Più oltre chiedevamo:
— Quanto è lontano Tsing-ho-pu?
Questa non è una domanda che in Cina possa avere una risposta unica.
— Cinque li! — ci gridava un vecchio mostrandoci le cinque dita della mano aperta.
Ma un suo vicino, con la stessa mimica, levava tre dita sole. E un altro esclamava convinto:
— Otto li! — Tre, cinque, o otto? — domandavamo con una certa impazienza fermando l’automobile.
I nostri informatori arretravano d’un passo per misura di prudenza, e con un sorriso cerimonioso ci auguravano un felice viaggio.
Al fiume Tsing-ho, ci troviamo di fronte alla prima difficoltà. L’antico ponte che lo attraversa è quasi inaccessibile all’automobile. Cerchiamo un guado, percorriamo la riva per tutti i versi sperando di trovarvi i segni d’un passaggio frequentato. Niente, non v’è che una strada: quella del ponte.
È un ponte monumentale, uno di quelli che la tradizione europea attribuisce all’opera di Marco Polo; ma che forse non risale che ai Ming; un magnifico lavoro d’arte, tutto di marmo. I parapetti scolpiti, d’una eleganza che ha dell’europeo e che potrebbe giustificare la tradizione, uniscono graziosamente le due rive, formano un arco di ricchezza singolare, una superba cèntina bianca, una traccia di fasto, isolata nella primitiva rozzezza d’un paese che ha dimenticato la sua antica passione del bello e del grande. Enormi tavole di marmo formano la pavimentazione del ponte; ma il traffico le ha logorate e spezzate, il tempo le ha sconnesse. Sembra quasi che un lento moto della terra abbia nei secoli sconvolto quelle lastre tentando di sollevarle come dei coperchi di tomba. Il ponte si direbbe non sia stato più toccato da mani di artefice da quando Pechino si chiamava Khan-baligh, “Città del Khan„, e Marco Polo la chiamava Cambaluc. Con quanto amore per la storia e per l’arte avremmo ammirato la reliquia di Cambaluc, se non avessimo dovuto farvi passar sopra un’automobile da 40 HP. e di 1200 Kg!
Perchè poi, le rampe di accesso al ponte sono scomparse, portate via dalle piene, corrose dalle pioggie, divorate boccone a boccone dal passaggio di milioni d’uomini, di quel torrente di umanità che per seicento anni è scorso su quei marmi. Ed ora si arriva al ponte per sentieri scoscesi in cima ai quali delle pietre cadenti formano alti gradini. Forse tutto il livello della campagna circostante si è abbassato per le alluvioni, e il ponte è rimasto sospeso ad indicare l’altezza alla quale si levava la terra cinese quando reggeva le glorie di Kublai Khan.
Dovevamo mandare in cerca dei nostri coolies? far trascinare da loro con le corde la nostra macchina sulle pietre sepolcrali del vecchio ponte? Il Principe non vuole arrendersi così presto all’ostacolo, gira, guarda, studia, trova i punti sui quali è possibile far passare le ruote. I famosi parafanghi sono smontati e disposti sui gradini per far da rotaie. Ettore, attento agli ordini, prende il volante, fa arretrare la macchina di cinquanta metri, e aspetta. Comincia a piovere, e le pietre bagnate rilucono.
— Via! — comanda Borghese, e indica: — Qui con la ruota destra, attento!
L’Itala si slancia, sale faticosamente la ripida salita, imbocca i parafanghi con le ruote anteriori. Ma la pioggia ha reso le tavole e le pietre scivolose; l’automobile scarta; i pesanti parafanghi premuti dai pneumatici sono proiettati via con violenza: subiscono il noto fenomeno del nòcciolo di ciliegia lanciato con la pressione delle dita. E la macchina ricade immobile. Bisogna tentare di nuovo. L’Itala retrocede. Noi ci affrettiamo a rimettere a posto le tavole, ma Ettore esclama:
— Proviamo senza passerella!
E prende la rincorsa. Sale di balzo fino alle pietre. Dopo un istante d’esitazione le ruote anteriori sono montate sul piano del ponte. Ma l’automobile s’è fermata; le ruote posteriori girano folli contro gl’informi gradini senza riuscire a salirli. Turbinano con velocità spaventosa limando la pietra con i chiodi dei copertoni, facendone sprizzare fughe di scintille. Ettore accelera a intermittenza il motore, che ha ruggiti affannosi e con ansimo impetuoso vomita nubi di gas, dense, bianche, acri. C’immergiamo in quel gas per spingere la macchina con tutte le forze; il soffio rovente dello scappamento ci alita sulle gambe. Non riusciamo, e ci tiriamo in disparte scoraggiati.
L'automobile, che certamente ha un suo amor proprio, voleva trionfare da sola. Ad un tratto le ruote cominciano a mordere, si fermano qualche istante quasi concentrando il loro sforzo, e lentamente salgono, salgono. Superano il primo gradino, il più alto, poi gli altri. La macchina finalmente ascende fra le tavole di marmo, e qui si ferma e si riposa alcuni minuti. Poi intraprende, a passo di formica, il grande viaggio fra tutte quelle lapidi sconnesse, sostando di quando in quando per studiare dei passaggi lunghi un palmo, cercando il modo di non avere mai più di una ruota affondata nei solchi, afferrata dalle commessure. L’automobile oscilla goffamente, lentamente, va giù, va su, qualche volta retrocede di un passo per mutar direzione, ha tutta l’aria d’una enorme testuggine, con la larga corazza che quasi tocca il suolo e le quattro zampe discoste, forti e caute.
La discesa all’altro sbocco è facile, ma piena d’interesse. È la prima volta che vedo un’automobile impegnata in un simile lavoro. Il poderoso apparecchio ideato per le corse folli a velocità inaudite, discende delle scale con la timida attenzione di un bambino. Il mostro adopera tutta la sua forza a trattenersi. Pare che veda il pericolo, che calcoli le altezze; avanza le sue ruote con precauzioni infinite, la posa dolcemente sui gradini inferiori, senza un urto, senza uno sbalzo; e discende da colosso intelligente che sa mettere il potere al servizio della prudenza. Impiega dei minuti a percorrere un metro, finchè non scorge avanti a sè la via libera. Allora, d’un colpo, come in un trasporto di gioia, si lascia andare velocemente; e pare quasi non voglia fermarsi più, mentre noi gli corriamo dietro gridandogli: Basta! Alt! Ehi, alt.
Riprendemmo la corsa per il sentiero campestre, sotto una pioggia sottile e assidua che cominciava a fabbricarci del fango, a crearci delle pozze e dei modesti pantani. Attraversavamo ponticelli rustici, simili a quelli che i ricchi cinesi amano mettere per bellezza nei loro giardini, correvamo lungo viottoli incastrati fra alti bordi erbosi coronati di salici, i cui rami penduli gocciolavano sulle nostre teste; la varietà del paesaggio ci annunziava l’avvicinarsi delle colline, In un albergo cinese. — Il pozzo. la fine della grande pianura pechinese, di quel mare verde sul quale i ciuffi d’alberi celanti i villaggi sembrano isole. Nella bruma scorgevamo già qualche pallida altura sormontata dal caratteristico profilo d’una pagoda.
Improvvisamente vedemmo biancheggiare avanti a noi la balaustrata di marmo d’un altro ponte antico, più grande del primo, gettato sullo Shi-keao-ho. Scendemmo di macchina esprimendo qualche vago rancore contro la magnificenza di Cambaluc. E ricominciò la manovra dell’assalto al ponte e della sua conquista. Fortunatamente l’automobile s’era formata una certa pratica in fatto di ruderi, e in venti minuti potè compiere la sua passeggiata archeologica fino alla riva sinistra del fiume.
Qui ci vedemmo circondare da una folla di cinesi, coperti da strani berretti, che ci salutava amichevolmente. Domandammo dell’acqua fresca, e l’acqua arrivò, in secchi, in pentole, in cuccume. Un bel vecchio dalla fisionomia tartara si fece largo, e ci invitò a prendere il thè nella sua casa. Si mostrò afflitto pel nostro rifiuto. Ci confidò d’essere nostro amico. Tutta quella gente In vicinanza di Ki-mi-ni. — Costeggiando l’Hun. era nostra amica. Come mai? Avemmo la spiegazione di questa simpatia quando ci mostrarono fra gli alberi, con una certa fierezza, la loro moschea. Erano cinesi maomettani. Il vecchio era il loro capo e il loro sacerdote. I cinesi maomettani si sentono, per la loro religione, più vicini a noi che ai loro connazionali. Sanno che la base della nostra fede è il Vecchio Testamento, ed essi credono al Vecchio Testamento, arrivato loro per la via del Turkestan, un po’ trasformato strada facendo, un po’ cinesizzato all’arrivo, ma intatto nella sostanza.
Rivolgemmo al venerando sacerdote qualche saluto in arabo — la sua lingua sacra — ed aggrappati alla macchina fuggimmo rapidamente, lasciando lui e la sua gente immobile a guardarci sparire estatici come avanti a qualche apparizione biblica.
Non passò molto tempo che all’orizzonte vedemmo le strane vette dei monti di Kalgan, lontani, incerti, sbiaditi. Intorno a noi delle colline nude si sollevavano, ci stringevano. Alla nostra destra si apriva quel superbo anfiteatro di monti, regolare e solenne, nel quale dormono gli imperatori dei Ming. Non v’è al mondo un più grandioso cimitero di sovrani. Non sono i templi, gli archi, i giganteschi simulacri che lo rendono imponente: è il luogo. È la valle, sterile e chiusa, che assume tutta l’indicibile maestà di una tomba. Una tomba di semidei, che ha per recinto un cerchio di montagne. Qualche volontà sovrumana pare che le abbia disposte così, per adunare dell’ombra e del silenzio sopra al gran sonno sacro ed eterno di una dinastia.
Ci accorgevamo di trovarci in vicinanza di luoghi venerati; come nei dintorni d’un tempio, spesseggiavano le pietre commemorative, coperte di antichi caratteri, erette sul dorso di enormi tartarughe o di draghi di marmo, o sopra basi a fiore di loto come il piedestallo di Buddha. La strada si faceva sempre più difficile, sassosa, d’un aspetto già quasi montano, quando incontrammo i nostri coolies. Avevano invaso un piccolo villaggio, e, vedendoci, si precipitarono in disordine sul sentiero.
Li comandava un vecchio capo che, quale insegna del suo grado, portava uno stendardo bianco con sopra scritto: “Ascoltate la voce paterna„, per significare forse che gli era dovuta obbedienza. Al fine poi di rinforzare la voce paterna, il vecchio s’era munito di un fischietto di metallo, legato al collo da uno spago. Gridammo a questa gente di proseguire la strada, e li lasciammo indietro. Volevamo adoperare il motore fin dove era possibile.
Distinguevamo or bene la gola di Nan-kow, angusta come una fenditura, fra due montagne scoscese, rocciose, sulle cui vette irregolari si ergevano torri di antiche fortezze. Altre montagne snodavano intorno la linea capricciosa dei loro dorsi; e nel pallore malinconico del giorno piovoso, il panorama aveva un non so che di truce. Sotto al sole sarebbe sembrato soltanto selvaggio. I fianchi delle alture apparivano inaccessibili. Scendevano ripidi quali bastioni. Parevano pronti a respingere.
Nan-kow significa “Bocca del Sud„.
Vi sono dei paesaggi che si direbbero creati per la lotta degli uomini; territori di guerra, luoghi ove la natura aiuta l’offesa e la difesa, tetre regioni sconvolte dalle quali emana un senso di ostilità, che hanno valichi da sorpresa e passi da imboscata. Nankow ha questo aspetto feroce. I tempi delle invasioni sono lontani, i fortilizi sulle vette rovinano pietra a pietra, e intorno vive il popolo più pacifico del mondo, e pure quella cupa vallata evoca da sola, per le sue forme, un pensiero di assalti e di carneficine quasi che le montagne che la chiudono non fossero che muraglie immani d’una titanica fortezza.
A sei chilometri dal paese, che sta all’imboccatura della valle, abbiamo dovuto fermarci. Da quel punto la strada e il letto del torrente che scende dalla gola di Nan-kow, non sono che una cosa sola. Ciottoli, sabbia, macigni, pozze d’acqua. Abbiamo aspettato i nostri uomini. Sono arrivati correndo, felici d’impossessarsi del chi-cho. Forse temevano che sfuggisse portandosi via le loro speranze di guadagno. Sono arrivati come un’orda di predoni, urlando. Quale strana accozzaglia di costumi e di acconciature! Sacchi di grossa lana a forma di ponchos (che sono gl’impermeabili del carovaniere cinese), camiciole azzurre, bianche, grigie, egualmente lacere, cenci messi a turbante, cappelli di paglia a paralume, stracci d’ogni forma e d’ogni genere, indumenti che dovevano aver servito a generazioni; un insieme da Corte dei Miracoli. V’erano dei vecchi, dei giovani, dei ragazzi; dei cinesi e dei tartari; tipi di mendicanti e tipi di mandarini, un miscuglio di miserie vecchie e di miserie recenti; schiera di bisognosi di ogni ceto arrolati chi sa come, cercati in fondo in fondo all’enorme formicolamento umano di Pechino, venuti a trascinare un’automobile per guadagnarsi in quattro giorni di che vivere un mese, sereni, lieti, ciarlieri, soddisfatti.
Il vecchio capo agitava la bandiera e soffiava nel fischietto a gote gonfie. Il fischio significava: Pronti! Ettore legò solidamente le corde grosse alla parte anteriore del telaio, a quei due bracci che sporgono in ogni automobile per imperniare le molle, e un minuto dopo due lunghe file di uomini curvi, attaccati alle funi, tiravano a lenti passi la greve macchina, che altri uomini spingevano. Pioveva sempre. A momenti l’automobile, avanti ai grossi ciottoli, si fermava di colpo; s’impuntava come una bestia Fra le roccie della Lian-ya-miao. — I nostri coolies al lavoro restia. Allora i coolies, bruscamente trattenuti un istante con un piede in aria, riprendevano lo sforzo, cantando per essere più uniti. Cominciava il vecchio, con una voce da bonzo orante, a modulare una cantilena, e tutti gli altri, al ritornello, urlavano in coro: Laè, laè-la! — “Avanti, avanti!„ — e tiravano. Il capo nel suo canto improvvisava; diceva quel che gli passava per la mente: è il tono e l’aria che contano, non le parole. Gli uscivano dalla bocca cose buffe che mettevano gli uomini in allegria, e nel laè, laè-la si sentiva fremere a volte lo strano accoppiamento della fatica e della letizia.
Quando la vettura aveva superato un piccolo ostacolo, per l’impulso ricevuto prendeva delle sùbite rincorse; aveva l’aria di ribellarsi, di voler inseguire tutta quella strana gente; le corde si allentavano, ed i cinesi, contenti, sgambettavano, saltavano, vociando e ridendo; si divertivano come ad un giuoco; percorrevano così, tumultuosamente, un po’ di strada, finchè non si ritrovavano afferrati alle funi nuovamente tese ed immobili. Quel gruppo di uomini ci interessava. Essi non erano dei facchini: erano soltanto dei poveri; non rappresentavano una classe: rappresentavano il popolo. Era il grande popolo cinese, con le sue miserie e le sue virtù, che vedevamo al lavoro. Il bisogno, la spensieratezza, l’indifferenza, la semplicità, la pazienza, l’attività, tutte le qualità e tutti i difetti d’una razza, celati sotto un’apparenza sordida e sinistra, erano attaccati alla nostra macchina. Il vecchio precedeva solennemente la carovana col suo stendardo.
I monti dirupati di Nan-kow ci sovrastavano all’entrata della gola. Il villaggio è addossato alla Nan-shan, la “Montagna del Sud„, che scende a strapiombo sulle case, e, vista dal basso, pare si chini a guardare chi passa nella valle. Fin sulla vetta si arrampicano muraglioni merlati, antiche difese che derivano dalla Grande Muraglia, rimaste quasi intatte perchè quasi inaccessibili all’uomo. La loro distruzione è affidata unicamente al tempo, e il tempo è infinitamente più benigno dell’uomo verso le grandi opere. Il villaggio di Nan-kow si presenta come un ammucchiamento di sassi. Le case, basse e rozze, sono fatte di ciottoli, e lungo le loro fronti corrono alti marciapiedi composti di macigni; il mezzo della via è lasciato per le inondazioni. Un muro da vecchio fortilizio chiude l’abitato. Entriamo, per la sua porta bassa, profonda, buia, nell’unica via del paese. Ha cessato di piovere, e per qualche minuto il sole si affaccia fra le nubi a far sprizzare bagliori dalle pietre bagnate. La gente si fa sugli usci e guarda.
Sembra gente di altra razza. Sono i montanari della Cina, grandi e forti. La loro fisionomia ha la fiera impronta della stirpe tartara. Questa piccola popolazione isolata fra inospitali scogliere, fa pensare ad una guarnigione messa in altri tempi a guardia del passo e dimenticata. E forse veramente discende dalle soldatesche tartare stabilite lì dopo la conquista mancese, soldatesche le quali, col trascorrere del tempo, avranno abbandonato e perdute le armi inutili senza abbandonare il loro posto, inconsciamente fedeli ad una consegna secolare.
La prima giornata di marcia è finita. Sono le due e tre quarti quando entriamo nel piccolo albergo cinese che Pietro, il Ma-fu, ha scelto per nostra residenza. Abbiamo percorso soltanto sessanta chilometri. I nostri marinai ci sono intorno festanti; ci annunziano che i bagagli sono giunti sani e salvi, che un buon fuoco per asciugarci è acceso nella miglior camera, che dei polli stanno cuocendosi: tutte notizie confortanti. L’Itala trova posto fra i carri, i muli, i cavalli e i carovanieri che ingombrano la prima corte e vi creano la caratteristica, sbalorditiva confusione d’ogni albergo cinese.
Ci rechiamo più volte nel pomeriggio fuori del paese, sulla strada percorsa, sperando d’incontrare le altre automobili: saliamo sulle mura merlate dalle quali lo sguardo si spinge lontano nella pianura, ma fin dove arriviamo a vedere, la solitudine è assoluta. Alle quattro osserviamo un gruppo di gente che sale al villaggio; viene dalla stazione ferroviaria di Nan-kow, lontana due chilometri; trascina qualche cosa. Trascina il triciclo Contal. Pons e il suo meccanico, affannati, sudanti, lavorano anch’essi al trasporto della macchina. Sul volto di Pons vedo una preoccupazione dolorosa. Appena fuori della porta di Pechino egli ha dovuto rinunziare a proseguire la via. Il triciclo che può essere eccellente sulle buone strade, è inutile sulle cattive. Esso ha due ruote direttrici e una motrice; sulle prime grava il peso del veicolo; vi è dunque una enorme resistenza ed un piccolo appoggio per l’impulso; basta una qualche difficoltà del terreno perchè la ruota motrice giri a vuoto strisciando sul suolo. Pons è stato costretto a tornare indietro e caricare la sua macchina sul treno, deciso a raggiungere ad ogni costo la Mongolia dove spera di trovare un terreno favorevole.
Poco dopo il tramonto Nan-kow dormiva già. Sdraiato sul kang, avvolto in una coperta da marinaio, nella notte insonne io continuavo col pensiero il grande viaggio; mandavo avanti la fantasia in esplorazione. Rumoreggiava lontano il torrente, il cui corso avremmo dovuto risalire fra i dirupi. Sul tardi la sua voce è stata coperta dallo scrosciare della pioggia che ricominciava a cadere violenta.
E delle grosse goccie, spinte dal vento, venivano a battere sulla carta delle imposte con un tamburellamento di dita.
Pioveva ancora quando Pietro è passato a destarci, munito di un lanternino di carta; pioveva all’alba; pioveva quando ci siamo decisi a partire, dopo un’inutile attesa del bel tempo. I coolies erano pronti fin dalle tre del mattino. Alle 7.25 lasciavamo Nankow. La Principessa era rimasta all’albergo per ritornare a Pechino in ferrovia. Don Livio ci accompagnava fino alla Gran Muraglia.
All’automobile era attaccata l’orda cinese, e con essa tre bestie volonterose. L’agenzia dei trasporti pechinese aveva promesso di fornire quattro muli, ma a Nan-kow ci aveva fatto trovare un mulo solo, fiancheggiato da un vecchio cavallo e da un piccolo asino bianco. Un rappresentante dell’agenzia, alle rimostranze del Principe, aveva assicurato solennemente, chiamando gli dei a testimoni, che le tre bestie sarebbero state capaci di trascinare da sole il chi-cho in capo al mondo; e noi, che volevamo lo trascinassero soltanto fino a Kalgan, ci contentammo.
Al momento della partenza i buoni abitanti di Nan-kow hanno voluto salutarci, dando fuoco ad alcuni petardi. Così vuole l’uso; il cinese solennizza le feste con dei rumorosi fuochi d’artificio; e quando vuol rendere omaggio a qualcuno, dispone fuori dell’uscio un paio di mortaretti, e al momento opportuno pum! pa! È il colmo della deferenza.
Pochi minuti dopo il paese spariva ad uno svolto della valle. Il sentiero comincia subito a salire, e prende l’aspetto d’una cordonata, con dei gradini bassi e larghi ognuno dei quali
costringeva i coolies ad una ripresa del laè, laè-la, e procurava alle bestie un minaccioso scocchio di frusta. Il vecchio dallo stendardo era naturalmente all’avanguardia. I marinai fiancheggiavano l’automobile, dando di tanto in tanto un buon colpo di spalla alle ruote come si fosse trattato d’un cannone da portarsi in posizione sulla cima d’una montagna. Ettore, solo sulla macchina, immerso fra le pieghe d’un incommensurabile costume da pioggia che lo faceva sembrare un pescatore bretone, teneva il volante con l’attenzione Manovra per deviare una ruota interiore incastratasi in un solco profondo.
Un cooly la spinge col piede mentre il Principe Borghese dirige agli sforzi d’una cordata. d’un timoniere alla ruota, e comandava le sue schiere a colpi di tromba. Un colpo: avanti! due colpi: Alt!, ma le schiere avevano spesso bisogno di segnali duplicati, e da allora la tromba dell’Itala cominciò per la fatica ad ammalarsi di una raucedine che doveva renderla muta. Pietro chiudeva la marcia, a cavallo, il capo coperto da un enorme cappello di paglia il quale, per un ingegnoso adattamento di nastri, aveva preso la forma civettuola di un cappello da signora, stile direttorio. Il degno Ma-fu portava quella cuffia elegante con molta dignità. Conveniamone, mai un
corteggio più singolare è sfilato per i passi della Grande Muraglia. Quando avrò aggiunto che Don Livio, Don Scipione ed io ci riposavamo di tanto in tanto dell’ascesa cavalcando due minuscoli somarelli, così bassi che i nostri piedi strisciavano in terra, così corti che i nostri impermeabili li nascondevano con una grandiosità da toga, avrò aggiunto un particolare della massima importanza per l’esattezza storica.
Il paesaggio variava ad ogni momento. In alto era uno sdoppiarsi di vette scoscese, sterili, sempre più strane. Nubi basse e scure le rasentavano, e la bruma pallida le faceva sembrare più lontane e più grandi; accresceva la loro sinistra imponenza. In basso il torrente ora calmo come un ruscello, mansueto, serpeggiante a fianco del sentiero fra cespugli verdi e gruppi di salici, ora violento, vorticoso, sprofondato in strette gole sulle quali ci affacciavamo cautamente dall’orlo della strada. Linee di antiche fortificazioni scendono ogni tanto dalle creste dei monti fino in fondo alla valle, risalgono, spariscono lontano verso altre vette. Sono mura merlate che proteggevano sentieri di ronda, difese secondarie a tergo della Grande Muraglia, sbarramenti giganteschi. Fra due di questi immensi schermi, un grande villaggio: Ku-yung-kuan.
Ne abbiamo passate le mura alte e nere, e ci siamo trovati di fronte ad un meraviglioso arco di marmo, delicatamente scolpito a fregi e a figure, un arco che da lungi si direbbe latino, giganteggiante sulle misere abitazioni del villaggio, ultimo resto di chi sa quali grandezze, e quali ricchezze. Ku-yung-kuan era una sede di comando nei tempi d’oro dell’Impero, e allora i mandarini militari, come i consoli di Roma, uccidevano i loro ozi circondandosi di magnificenze.
Mentre riprendevamo l’ascensione siamo stati raggiunti e sorpassati da una sedia a portatori sulle spalle di un frettoloso gruppo di uomini. Nella sedia, con l’ombrello aperto, era un europeo che gli abitanti riverivano con deferenza. Passandoci vicino egli ci ha salutati in inglese. Abbiamo sùbito saputo che si tratta di un uomo celebre nella regione; tutti lo conoscono e lo rispettano. Lo chiamano il “Vecchio Signore che fora la montagna„. Pietro, che se ne è informato, ci ha spiegato la cosa. Già saprete che i mercanti cinesi si sono accorti che la ferrovia, se può dar noia agli spiriti degli antenati, è tuttavia un eccellente affare; persuasi di questa verità, molti mercanti e banchieri cinesi di Pechino hanno pensato di costruire una ferrovia assai necessaria al commercio, e senza lasciarvi intervenire in alcun modo lo straniero: capitali cinesi, lavoro cinese, direzione cinese. E così si è formata la Compagnia cinese della ferrovia Pechino-Kalgan, che ha già attivato il servizio fino a Nan-kow. Anche gl’ingegneri, naturalmente, erano figli del cielo, laureati in America. Tutto è andato bene finchè i lavori si sono svolti nella pianura; ma arrivati alle montagne gl’ingegneri figli del cielo si sono trovati in seri imbarazzi. I tunnels crollavano; dopo ogni crollo erano riscavati con tutte le regole, e tornavano a crollare; la costanza degli eccellenti cinesi lottava inutilmente contro l’ostinazione delle loro montagne. Non mancava chi riconosceva in ciò tutti i segni d’una protesta del Drago, il cui immenso corpo forse era ferito dalla perforazione: la prova si rivelava dal fatto che la montagna schiacciava degli uomini. Era evidente la vendetta. Ma il Drago oggi perde credito fuori delle sfere ufficiali. I mercanti pensarono che forse le diavolerie d’un ingegnere dell’Occidente avrebbero potuto venire a capo della testardaggine dei monti di Nan-kow; erano i tempi nei quali anche in Cina giungeva notizia del Sempione. Così la Compagnia si rassegnò alla profanazione, e chiese alla Pechino-Hankow un buon ingegnere in prestito grazioso, affidandogli la direzione dei lavori. In conseguenza, fra le gole della Gran Muraglia fece la sua apparizione il “Vecchio Signore che fora la montagna„ sulla sua sedia gestatoria.
La salita era faticosa, e concedevamo spesso un meritato riposo agli uomini; essi, al segnale di sciogliere le righe, abbandonavano le corde e si sparpagliavano allegramente intorno, per ricomparire all’improvviso al primo fischio del vecchio. L’asino, il mulo e il cavallo, insieme e in perfetto accordo, andavano a brucare l’erba trascinandosi appresso le lunghe tirelle imbrattate di fango. E l’automobile rimaneva sola sul sentiero, puntellata con sassi sotto le ruote, tutta bagnata, melanconica, umiliata, con la bandiera affloscita. I marinai erano felici, com’è sempre felice un marinaio che fa una scampagnata, anche se piove.
Erano cinque uomini scelti per la forza e per l’abilità. Cinque atleti sapienti. Uno era meccanico e fotografo; aiutava Ettore Ascendendo la Lian-ya-miao. — Come ci appariva il fiume Hun. durante la marcia a sorvegliare i passi della macchina, e alle soste ci compariva davanti armato d’un cavalletto, d’un panno nero e di una enorme macchina fotografica, tirati fuori chi sa da dove; e da quel momento eravamo sotto la vigilanza del suo obbiettivo che ci seguiva severamente come un occhio ciclopico. Un altro era infermiere e cuoco, prezioso ai malati e più prezioso ai sani, sempre disposto a fasciarci scientificamente una scorticatura ed a presentarci una frittata fumante, scientificamente dosata. Un terzo era elettricista. Un altro carpentiere. L’ultimo parlava cinese, con una corretta pronunzia siciliana, era stato a Kalgan con la colonna internazionale che vi arrivò nel 1900, e conosceva la strada come un pilota. Tutti possedevano l’invidiabile virtù del buon umore; ogni cosa pareva creata apposta per renderli felici. La pioggia insistente, che penetrandoci persino sotto l’impermeabile portava in noi come una gelida infiltrazione di tristezza, la pioggia stessa li rallegrava. Nell’acqua trovavano il loro elemento favorito. Con le uniformi di tela zuppe e incollate alle spalle, sgambettando nelle pozze, essi burlavano la tempesta. Cari compagni, e fiera scorta a quella nostra piccola bandiera; pronti a ridere, e pronti, all’occasione a battersi.
Un rauco suono di tromba, un fischio, un accorrere di uomini, un canto di moltitudine, uno schioccare di frusta, e la marcia continuava. Su, su, per la valle che sembrava senza fine, la valle di Ku-yu-kvan, sempre più aspra.
Improvvisamente la valle si restringe. Pare che si chiuda. Si ha l’impressione che non esista un’uscita, che le montagne si siano avanzate a barrare il passo. Non si scorge al primo momento un’angusta gola che s’apre alla destra, una specie di fenditura fra scogli a picco, larga una quarantina di metri, un vero corridoio fra pareti di roccia. Avevamo percorso un paese tetro; in quel punto entravamo nell’orrido.
Da epoche immemorabili gli uomini debbono aver avuto paura di quel paesaggio, poichè lo hanno considerato sacro. È sacro, forse perchè la gente passò sempre di lì con la preghiera sul labbro: quel luogo invita alle invocazioni. La montagna è già per se stessa un mistero alle menti semplici, è uno slanciarsi della terra verso il cielo; le grandi vette sono in contatto con la divinità. In quel punto, in mezzo ai monti, si apre una porta. Tutte le stirpi che l’hanno varcata vi debbono aver riconosciuto il segno di una volontà suprema, un’opera divina creata per ragioni imperscrutabili, e perciò terribili. Quegl’immani stipiti di basalto dovevano significare alle fantasie l’imposizione di un limite. Al di là v’era qualche cosa alla quale bisognava prostrarsi. V’era dell’ombra infatti. Le genti l’attraversarono con raccoglimento, come in un tempio. E la valletta divenne un tempio circondato dalla desolata maestà della solitudine.
Fu ed è rifugio di eremiti. Ogni cavità della roccia è un santuario, e vi si vedono scolpite massime sacre in antichi caratteri cinesi, ed altre, più antiche ancora, in tibetano, in mongolo, in mancese. Traccie della devozione di folle lontane. In alto, sopra una delle pareti di roccia, è sospesa una costruzione strana, un piccolo tempio pensile, il sacrario di una divinità allocato in un nido d’aquila; vi si sale per lunghe serie di gradini scavati nello scoglio, nascosti qua e là dai cespugli. Più addentro nella gola, un altro tempio sospeso, un altro rifugio della fede, vecchio di secoli, cadente. Sulla montagna, in punti inaccessibili, rimangono segni di simili costruzioni scomparse, crollate sotto i colpi delle bufere che, scendendo dal nord, s’ingolfano nella valle e v’infuriano cercando una fuga. Sopra dei macigni, franati giù dalle vette, il pio scalpello dei rozzi artisti primitivi ha impresso l’effige del Buddha, ha ricercato nei contorni del sasso i contorni della statua, ha dato alle pietre la fisionomia austera e serena della dolce divinità. Qualche enorme immagine di Buddha è scolpita sulla montagna stessa, prodigiosamente. Si vedono alcuni resti di templi che non esistono più, qualche troncone di colonna, e di pilastro. Non v’è una sola traccia del lavoro umano che non sia un’affermazione di fede. Passando di là ogni anima ha detto: Credo.
Quella via ha un’importanza religiosa: per essa è disceso il Lamismo. Dal cuore dell’Asia, sorgente di religioni, delle onde di devozione sono colate per quelle valli a trascinare anime cinesi a nuovi culti. Non è raro incontrarvi strani pellegrinaggi. Quando il Principe Borghese esplorava il cammino di Kalgan, s’era imbattuto alcuni giorni prima, per quei luoghi, in un penitente dalla testa rasa, dalla lunga tonaca grigia, il quale percorreva la via orando e genuflettendosi a baciare la terra ogni tre passi, regolarmente. S’informò di lui. Il pellegrino era diretto a Urga, alla Città Santa; avrebbe in quel modo attraversato la Mongolia e il deserto di Gobi. Avrebbe percorso mille e trecento chilometri baciando il suolo ogni tre passi. Le popolazioni sono ospitali e pietose verso questi stravaganti pellegrini, i quali alla sera interrompono il loro lavoro, depongono una grossa pietra sul punto al quale sono arrivati, per ritrovarlo al mattino, e se ne vanno al più vicino villaggio a riposarsi della santità.
Ci venne fatto di pensare che anche noi, dopo tutto, stavamo compiendo uno strano pellegrinaggio. Anche noi avevamo Fra scogli e pantani sulle rive dell'Hun-ho fatto un voto singolare, e lo adempivamo con fede. Se l’uomo dai tre passi, alla sua volta, avesse fatto chiedere al Principe Borghese la ragione del suo viaggio, udendola si sarebbe certo meravigliato profondamente, nella sua saggezza.
Passato un villaggio, Pa-ta-ling, abbiamo visto un profilo dentato bordare come una linea tremula alcune creste lontane, avanti a noi; a coronare altri monti sui nostri fianchi; e apparire, e sparire, mostrando poco a poco forme di torri innumerevoli disposte in catena come schiere di giganti in vedetta.
Era la Grande Muraglia.