La metà del mondo vista da un'automobile/IV
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CAPITOLO IV.
SULLE MONTAGNE
Vista da lontano, la Grande Muraglia, fusa e confusa alle montagne come una prodigiosa sagomatura delle loro stesse vette e dei loro fianchi, non dà l’impressione d’un’opera umana: è troppo vasta — e quel che se ne vede non è di essa la millesima parte. Si direbbe piuttosto una fantastica bizzarria della terra emersa per il lavoro d’immense e ignote forze naturali: il prodotto d’un cataclisma creatore.
A mano a mano che ci avvicinavamo, la Grande Muraglia spariva celandosi dietro ad un tumulto di vette; e non siamo ritornati a rivederla che alle ultime svolte del sentiero, quando stavamo per varcare le porte massiccie, doppie, difese da bastioni ancora validi. La strada verso la sommità non è più che un solco nella viva roccia, e sempre più ripida, difficile. Camminavamo da otto ore sotto la pioggia ininterrotta; procedevamo lentamente, con fatica, costretti a fermarci ogni istante a rimuovere delle pietre, a preparare dei passaggi alle ruote, a difendere il volano minacciato dalle punte sporgenti del suolo. Tutto intorno una selvaggia e tetra sterilità.
Costeggiavamo un burrone profondo; da esso, con gioia, vedemmo ad un certo punto due fili telegrafici, tesi sui loro isolatori, venir su, traversare il sentiero, e scavalcare la Muraglia. Ci parvero due amici; sarebbero stati essi a portare alle nostre genti notizie di noi. Povera vecchia Muraglia, occupazione e preoccupazione di dinastie e di milioni di uomini, non è soltanto il cannone che la rende inutile oggi: basta un filo. I popoli più lontani comunicano tranquillamente fra di loro al di sopra delle sue spalle.
Essa è meno grandiosa da vicino. Somiglia alla difesa di una città, e per chi ricorda le mura di Pechino perde ancora della sua imponenza. Ma quando, attraversate le porte, discendendo l’altro versante in direzione del villaggio di Cha-tau-chung, ci siamo voltati indietro, abbiamo mandato un’esclamazione di meraviglia. Scoprivamo la linea bianca della Muraglia a perdita d’occhio: essa saliva, scendeva, seguiva a zig-zag i capricci della terra, serpeggiava, s’inabissava in valloni, risorgeva d’un balzo, si mostrava ora di profilo ed ora di fronte, allineava le sue torri in cento modi, a tratti spiegava le sue merlature, le lasciava vedere nettamente per raccoglierle subito dopo in uno scorcio repentino, aveva l’aria d’indugiarsi e di fuggire, e così fino ai due limiti dell’orizzonte, fino alle montagne più remote dove essa non era più che un filo impercettibile. E così ancora al di là; e così per ottocento chilometri, tutto in giro alla provincia del Chi-li: frontiera portentosa. E questa è soltanto “la piccola Gran Muraglia„. Vi è poi l’altra, la grande, la Wan-li-chang-cheng, la “Muraglia dalle diecimila li„, che avremmo incontrato al nord di Kalgan, che corre per duemila e quattrocento chilometri lungo i confini della vera Cina. Ma le Muraglie non sono due sole; passato Cha-tau-chung, in una piccola pianura, vedevamo altre torri, altri bastioni, come ne avevamo visti già nella valle di Xan-kow. Il popolo cinese ha passato più di mille anni della sua esistenza ad ammassare dei muri contro l’occidente. Non ha smesso che tre secoli fa, quando s’è trovato il proprio trono occupato L’Itala, scortata dai marinai italiani, sotto le mura di Cha-tau-chung. precisamente da quei tartari che voleva tenere lontani a furia di mattoni e di calce.
Alla nostra anima moderna la Grande Muraglia appare come uno stupefacente monumento della paura cinese, immenso ed illogico, magnifico e ridicolo: lo straniero l’ammira e la deride. Ma non ricordiamo che i Romani difendevano anche essi le frontiere della Britannia con un’altra doppia Grande Muraglia, per proteggere quella terra imperiale dagl’indomiti Caledoni. Vi sono state epoche nelle quali le condizioni della vita dovevano far considerare logica, naturale, necessaria, la presenza di muri maestri fra regione e regione, fra razza e razza, fra civiltà e barbarie, come oggi troviamo logico e necessario lo sterminato lavoro (che forse un giorno sembrerà più grandioso, più buffo, e più cinese della Grande Muraglia) di svolgere sulla terra centinaia di migliaia di chilometri d’acciaio in verghe, di abbattere le foreste del mondo per sostenerlo, di scavare le montagne per farcelo passare attraverso....
Non siamo entrati nel villaggio di Cha-tau-chung, cinto da un quadrato di forti mura turrite agli angoli. Tutti i villaggi e le città cinesi sono rinserrati in un quadrato perfetto il quale mantiene forse la forma d’un primo campo trincerato. Siamo passati intorno al paese, per una strada in parte allagata, ma certamente migliore della via che attraversa l’abitato, ed abbiamo preso alloggio, fuori della porta nord, in un piccolo albergo cinese, miserabile stazione di carovane. Avevamo percorso dal mattino venticinque chilometri.
Nella corte sordida, circondata da edifici cadenti, abbiamo voluto subito provare il motore. Temevamo che gli urti, le scosse e gli sbalzi subiti nell’ascensione avessero potuto danneggiare la macchina. Ma la macchina s’è messa in moto tranquillamente, e si sono messi in moto anche i curiosi che s’erano adunati, e che hanno preso la fuga. Poco dopo sono venuti tre soldati cinesi, mandati dal mandarino del paese non si sa bene se a sorvegliare i cinesi, od a sorvegliar noi. Potevamo prenderli per una guardia d’onore o di disonore, a scelta.
Don Livio ci ha lasciati appena giunti per ritornare a Xankow in tempo a prendere il treno della sera. Ci siamo salutati con effusione, e lo abbiamo seguito con i nostri gridi di addio finchè è scomparso fra le mura del villaggio.
Il vento umido entrava per le laceratine della carta delle imposte ed invadeva le nostre umili camerette. — “Pietro, del fuoco! Pietro, del thè bollente! Pietro, qualche cosa da mangiare!„ Ed ecco Pietro, premuroso e sorridente andare e venire, accorrere col bragiere, con la theiera, con delle uova, rispondendo alle interrogazioni in un italiano tutto suo. Pietro è un servo prezioso: figlio d’un vecchio ma-fu della Legazione, discendente da una dinastia di ma-fu che regna sulle scuderie dei ministri d’Italia, egli è innalzato spesso all’onore d’incarichi per i quali si richieda intelligenza e fedeltà. Così ci accompagnava a Kalgan quale maggiordomo e interprete: una specie di aiutante di campo.
— Pietro — gli ha chiesto Borghese — tu sei cristiano?
— No, buddista io!
— Allora, perchè ti chiami Pietro?
— Non chiamale Pietlo io! Chiamale Wu-tin — ha risposto mangiando l’r come ogni buon cinese.
— Ma se ti chiamo Pietro tu rispondi.
— Sì, tutti chiamale Pietlo me, io lispondele.
Un ultimo ordine: “Pietro, domani a mattina svegliaci alle tre; e che i coolies sieno pronti a quell’ora!„ — E avvoltolati nelle coperte, abbondantemente cosparse di polvere insetticida, abbiamo invocato il sonno. Attraverso la fragile parete, udivamo nella stanza vicina i marinai parlare dei loro paesi e di navigazioni lontane.
Alle quattro e mezza del 12 Giugno lasciavamo Cha-tau-chung, con un tempo nuvolo e freddo che prolungava la notte e ci faceva rabbrividire negli impermeabili ancora bagnati.
I marinai dovevano tornare indietro; avevano l’ordine di lasciarci al secondo giorno di marcia se la loro presenza non si fosse resa necessaria. Ci accompagnarono per alcune centinaia di metri, fino ai piedi di un antico torrione, e ci salutarono. In quel momento la pianura di Cha-tau-chung echeggiò di evviva. Per lungo tempo poi scorgemmo le bianche uniformi marinaresche nella mezza oscurità del crepuscolo, e udimmo rinnovarsi degli evviva, sempre più lontani e deboli, finchè uomini e voci si persero nella distanza.
I coolies avevano fatto provvista di allegria nel sonno; per Fra le roccie della Lian-ya-miao in riva all'Hun-ho. la strada, qua e là pantanosa, essi correvano, diguazzavano, ridendo e cantando. Trascinare un’automobile li divertiva. Povertà felice!
Col sorgere del giorno il cielo mostrava degli squarci di azzurro. Un vento di tramontana sgominava le nubi, le ricacciava verso il mare con un disordine di sconfitta, ed un raggio di sole accese ad un tratto delle alte montagne avanti a noi. Pochi minuti ancora e tutta la catena del Yean Jan, che dovevamo superare, si rivelò in un trionfale sfolgorìo di luce, solcata da burroni e da crepacci, coronata da vette aguzze; ci parve che in un minuto si fosse avanzata incontro a noi, barriera smisurata ed imponente. Dietro ad essa altre cime, altre montagne più alte digradanti lontano fino a confondersi con la serenità del cielo: le Wu-tsi-hai, contrafforti di quel grande sistema alpino che è il Khinghan.
Il cielo si schiariva tutto; volgendoci vedevamo l’ombra delle ultime nuvolaglie abbandonare ad una ad una le alture della Grande Muraglia; e in ampio semicerchio si schierarono alle nostre spalle i monti che avevamo passato il giorno prima, seghettati e nudi, percorsi dall’infaticabile serpente di muro, così meraviglioso che non ci saziavamo ancora di riguardarlo. Fin sulle remote montagne dello Shan-si, al sud, velate, appena visibili, noi scorgevamo la cèntina regolare delle torri, e ce l’indicavamo con uno stupore sempre rinnovato, come per una cosa incredibile.
Il terreno saliva leggermente. La campagna era deserta. Dopo ore di solitudine sorpassavamo qualche carovana di cammelli, condotta da mongoli vestiti di pellicce di capra dal lungo pelo e sormontati da cappelli ottagonali a tetto di pagoda, carovane che compivano l’ultimo viaggio dell’annata. I cammelli mongoli non lavorano in estate; essi godono i benefici delle vacanze e della villeggiatura; nei mesi caldi sono condotti ai pascoli nelle native praterie, dove si riposano e mangiano per tutti gli altri mesi dell’anno nei quali lavorano e digiunano. Il riposo è loro necessario anche per farsi ricrescere le unghie, che sulle montagne si logorano talvolta sino alla carne, e le povere bestie ne moiono. Non si può impunemente trasformare l’animale del deserto in un alpinista.
Qualche volta invece eravamo noi vergognosamente sorpassati da palanchini a mulo, rapidi convogli viaggiatori. Erano palanchini che portavano mercanti a Kalgan o funzionari imperiali a delle lontane sedi, fra un’avanguardia di domestici o di soldati a cavallo e una retroguardia di mulattieri conducenti gli animali di ricambio. I funzionari avevano attaccato fuori del palanchino, come segno della loro qualità, l’astuccio rosso contenente il conico cappello ufficiale. Passando, la tendina del singolare veicolo si spostava, ed una dignitosa testa di cinese si sporgeva, ciondolando per il moto delle mule, e ci guardava con aria interrogativa.
Siamo entrati in una regione di sabbie. Incontravamo miserabili villaggi cinti da grandi baluardi cadenti, villaggi che furono ricche cittadine: Pao-shan, un gruppo di capanne di fango intorno ad un minuscolo tempio che noi potevamo vedere per le ampie breccie aperte dal tempo nel quadrato delle mura troppo vasto, e poi Shi-yu-lè all’ombra di salici, Hu-li-pa circondato da bastioni di fango, Sha-Chao che ricorda i villaggi della Manciuria, Pienkia-pu che non ricorda niente. Il sole alto scottava le nostre schiene e intorbidava le nostre idee. Le ore passavano in una monotonia profonda, eguali, accascianti. Nella fatica meccanica del passo (gli asinelli erano tornati a Nan-kow) pensavamo con oscuri desideri all’avvicinarsi d’un luogo abitato, riponevamo una non so quale fiducia nel villaggio che doveva venire, lo cercavamo con lo sguardo, ci affrettavamo a raggiungerlo, quasi che lì dovesse cessare la fatica, il caldo, la tristezza, e quella gran luce abbagliante nella quale ci sentivamo come disperdere e dissolvere; andavamo cercando da un paese all’altro qualche ignota sorpresa.
L’allegria dei coolies era scomparsa. Non si udiva che il rumore dei passi, l’ansare dei respiri, lo scricchiolare della sabbia sotto le sonore pneumatiche dell’automobile, lo scalpitio delle tre bestie. Di tanto in tanto un gridare di Ettore, uno squillare improvviso di tromba: — Alt! — siamo ad un passo difficile.
Li desideravamo quasi i passi difficili, per scuoterci. Erano momenti di attività rumorosa. — “Qua, la pala! Il piccone! Bisogna scavare avanti alla ruota destra! Forza, rimoviamo questo macigno! Occorrono le leve! Attenti, uno, due, tre...!„ — E nell’immenso squallore della campagna solitaria la nostra comitiva si agitava in un lavoro febbrile. Poi i coolies abbrancavano di nuovo le corde, e avanti: laè, laè-la.
“Deutscher Feldtelegraph„, abbiamo letto sulla porta di una capanna isolata. È un segno della famosa spedizione internazionale, rispettato dalle popolazioni che scambiano forse quelle parole per un moto sacro dell’occidente. È tutto quello che è rimasto qui della rumorosa invasione delle Potenze. Siamo arrivati sotto alle mura d’una città, Huai-lai, fronteggiata al sud da un’alta collina isolata sorreggente un tempio. Quel tempio fu per poche settimane una caserma europea. Ci siamo fermati per concedere un’ora di riposo agli uomini, che sono andati a goderselo nell’interno della città. Essi hanno portato alla popolazione la notizia dei nostro arrivo.
Subito Huai-lai vuol vederci. Ed ecco che un rumore di moltitudine si avvicina alla porta. Arrivano prima i ragazzi, l’avanguardia delle folle. Dopo alcuni minuti siamo circondati da centinaia di persone che si pigiano contro all’automobile, sorridenti, rispettose. Osservano, toccano timidamente, si fanno ardite, ci interpellano, ci salutano, ci ammirano. Molti sollevano sul palmo della mano delle gabbie con uccelli canori; nelle belle giornate ogni buon cinese d’una certa condizione sociale porta a spasso la sua gabbia, ed è la sua principale occupazione, un passatempo elegante e tradizionale.
Noi intanto facciamo colazione con un po’ di formaggio e di corned-beef. Vederci mangiare diverte il popolo di Huai-lai. Si discute intorno a noi la natura dei nostri cibi. Un vecchio ci fa segno di volerli assaggiare; sputa il formaggio, ingoia la carne, e proclama alla cittadinanza il suo giudizio. La cittadinanza commenta. Il vecchio vuole estendere il controllo anche alla nostra bevanda, e gli passiamo la bottiglia del vino, che egli porta alle labbra con esitazione, respingendo sdegnosamente il bicchiere. Sorsa, gusta, ricomincia a sorsare, e vi mette tanto impegno che la bottiglia gorgogliando si vuota tutta nella sua venerabile gola. Dopo ciò egli è europeizzato; ci sorride con gli occhietti lustri, ci parla attivamente, sale sull’automobile e vi s’insedia fra le acclamazioni dei suoi concittadini, impara a suonare la tromba, suona ed è felice. Proviamo non poca difficoltà a sbarcarlo quando i coolies sono ritornati e riprendiamo la strada.
Siamo passati vicini ad altri poveri villaggi di fango, a piccoli templi in rovina, a stamberghe isolate, casette miserabili che sembravano sperdute lungo la via da qualche città in viaggio. Uno straccio rosso oscillante da un bastone sulle loro porte le indicava come luoghi di sosta ai passeggeri stanchi, minuscole trattorie da mulattieri alle quali i nostri uomini si fermavano a sorbire in fretta una ciotola di thè ed a comperare per qualche sapeca dei dolciumi contesi alle mosche. Tanti paesi si sarebbero I cinesi cercano «Dove è la bestia». creduti disabitati; non si vedeva un uomo e non si udiva un rumore; pareva che volessero celarsi a noi, o significarci: Passate al largo! Ta-tu-mu, una città dalle alte mura scoronate, aveva l’apparenza di una rovina abbandonata da secoli.
La strada si restringeva, entravamo spesso in profonde incassature scavate dalle acque nella sabbia e fra i ciottoli. Camminavamo nel letto d’un torrente.
Intorno a noi giganteggiavano le aspre montagne viste al mattino, senza un filo d’erba, gialle d’un giallo ardente. Salivamo il secondo gradino montuoso che divide Pechino dall’altipiano mongolo, al quale si arriva per tre scaglioni. Si ascende al centro dell’Asia come si ascende ad un tempio: tre soglie e tre ripiani. In basso, alla nostra sinistra, si aprivano le immense vallate dello Shan-si, imbevute d’azzurro e di luce.
In certi passaggi v’era appena lo spazio per l’automobile, ed occorrevano cautele infinite. Bisognava dare qua e là un colpo di piccone, misurare con l’occhio, e spesso tentare audacemente l’avanzata vigilando i mozzi delle ruote, pronto il guidatore a inchiodare la macchina sotto la potente stretta dei freni. Ad un villaggio, Tu-mu-go, a 45 chilometri da Cha-tau-chung, ci trovammo quasi inaspettatamente fuori dal terreno montuoso; una pianura verde c’invitava alla corsa. Abbiamo accettato l’invito. “Fermi!„
Ci passa la stanchezza come per incanto. In un minuto i coolies sono messi in disparte ed affidati al comando di Pietro, e le tre bestie staccate. Arrotoliamo febbrilmente le corde ai portafanali, sciogliamo la bandiera. Un colpo di manovella, e il motore rugge. Balziamo sulla macchina, e via!
Via, per il sentiero tortuoso e ineguale, senza curarci dei salti, degli sbalzi, degli urti, pur di correre. L’automobile non è che alla seconda velocità, ma ci par di volare. Ci si presentano delle vaste pozze formate dalla pioggia. Avanti! Vi precipitiamo dentro, le solchiamo sollevando una tempesta d’acqua e di fango; l’ondata rigurgita nel vano del telaio e ci bagna. Ridiamo. Parliamo ad alta voce, presi da una strana esuberanza; è una reazione contro i lunghi silenzi e le avvilenti lentezze del cammino trascorso. E c’è anche in noi una gioia nuova, che viene dalla soddisfazione intensa e inesprimibile del fare una cosa che non fu mai fatta. È la voluttà d’una conquista, l’ebbrezza di un trionfo, e una sorpresa insieme, come un trasognamento per la singolarità fantastica di questa corsa in questo paese. Vediamo dei tetti di pagoda fra gli alberi. Ci pare d’interrompere una quiete millenaria, d’essere i primi a gettare fuggendo un segnale di risveglio ad un gran sonno. Sentiamo in noi l’orgoglio d’una civiltà e d’una razza, sentiamo di rappresentare qualche cosa di più di noi stessi: con noi è l’Europa che passa. Nella velocità si riassume tutto il significato della civiltà nostra. La grande brama dell’anima occidentale, la sua forza, il segreto vero d’ogni suo progresso, è espressa in due parole? “più presto!„ La nostra vita è incalzata da questo desiderio violento, da questa incontentabilità dolorosa, da questa ossessione sublime: “più presto!„ Nell’immobilità cinese noi portiamo veramente l’essenza delle nostre febbri.
Attraversiamo delle borgate e dei villaggi. Bambini seminudi fuggono. Gli uomini e le donne ci guardano con calma sorpresa, con una curiosità tranquilla e benevola. Vediamo strani costumi, più pittoreschi di quelli di Pechino; forse più antichi. Sono abbigliamenti verdi, rossi, bianchi, gialli, azzurri, sempre di colori violenti; gli abitanti delle campagne, in tutto il mondo, amano le tinte vivaci forse perchè hanno sotto gli occhi i fiori. Sulle soglie delle case, ove la folla si aduna, è un’agitazione variopinta che si accende al sole; su di essa sporgono i tetti caratteristici dalla leggiadra curva a piroga. Non possiamo avere più viva l’impressione dell’Oriente lontano.
Sui campi folti di verde i contadini si sollevano dal lavoro udendo il rumore della macchina, e ci guardano facendosi con la mano schermo agli occhi. Qualcuno grida: Huò-cho-lae! — “Ecco la ferrovia!„ — L’esclamazione si ripete. Dopo un’occhiata tutti si rimettono al lavoro, e non ci guardano più, persuasi che quella ferrovia della quale hanno sentito tanto a parlare è arrivata. La cosa non ha importanza per loro. In un fosso una donna lava i panni; le passiamo vicino; essa ci degna appena d’uno sguardo e continua a lavare i suoi panni, come se centinaia di automobili passassero ogni giorno lungo il suo fosso. Altrove invece la gente si chiama, accorre, ci segue fra la polvere, mostrando un’ingenua espressione di stupore nelle faccie gialle. L’anima di questo popolo è un mistero impenetrabile. Chi sa che il diverso effetto prodotto dalla rivelazione dell’automobile nei vari villaggi non corrisponda a delle originarie diversità di razza fra gli abitanti, chi sa che la curiosità non sia tartara e l’indifferenza cinese.
Arriviamo ad un paese, Tum-ba-li, che ha la porta, nelle mura, così stretta da non poterci passare. Giriamo intorno, sull’erba dei prati, lentamente. Ad un villaggio ci fermiamo a prendere acqua. Il motore ha sete e anche noi. Una folla bonaria ci circonda, offre dell’acqua fresca e limpida, e intraprende un attento esame della parte inferiore dell’automobile. Discute, si avvicina: dei giovani arditi si abbassano fino a terra per guardare meglio il cofano del volano. Poi tutti si abbassano. Il volano Ingresso dell’Itala a Hsin-wu-fu. evidentemente li preoccupa. Guardiamo anche noi, cercando inutilmente che cosa possa attirare così la loro attenzione. La scena è comica. Qualcuno si fa coraggio e, a gesti più che a parole, ci chiede delle spiegazioni. Ah, finalmente comprendiamo! Essi domandano “dove è la bestia„. Il cavallo che non è davanti, deve certamente star dentro; tanto vero — osserva uno mostrando il secchio con mimica espressiva — che gli si dà da bere per un buco. Il difficile è capire come è incastrato l’infelice quadrupede. Ettore vuol fare della propaganda pratica, ed apre la scatola del motore mostrando i cilindri. Ma la gente sèguita a guardare sotto, con la più grande persuasione. E noi la lasciamo perplessa.
Abbiamo raggiunto i palanchini che ci avevano sorpassato al mattino. I mulattieri si sono precipitati di sella per reggere le cavalcature imbizzarrite; gli animali hanno fatto sgambettamenti di terrore; i palanchini, dopo alcune oscillazioni come boe sulle onde, si sono fermati un po’ di trasverso a causa delle opposte opinioni sulla direzione da prendersi manifestate energicamente dalle mule attaccate al veicolo. E dalle tendine sollevate e scomposte abbiamo intravvisto ancora i dignitosi viaggiatori guardarci con aria di profonda sorpresa, non scevra da qualche preoccupazione; noi passavamo rapidamente gridando loro lieti addii. Era la nostra vendetta.
Ci siamo fermati alla sera ad un delizioso villaggio, Shin-pao-wan, di un’antichità patriarcale. Dentro alle mura vi è una quiete che seduce; non si ode che il cinguettare degli uccelli. Ad ogni porta, appese all’architrave, vi sono due o tre gabbie con delle allodole di deserto che cantano; i loro gorgheggi riempiono l’aria. È una musica strana, penetrante, piena, intensa, che la gente ascolta in silenzio seduta sulle soglie. I mongoli portano a migliaia dalle loro pianure di questi graziosi prigionieri canori per i quali i cinesi hanno un culto. I cinesi lasciano alle loro voci il dominio sopra ogni suono, quasi riconoscessero in esse qualche cosa di divino. La via del villaggio, allagata, s’è trasformata in uno stagno nel quale si specchiano le case e l’azzurro del cielo. Da lontane epoche quella piccola invasione d’acque deve essersi insediata fra le abitazioni, poichè è rispettata, e dei salici hanno avuto il tempo di crescere sulle sue sponde dissetandosi nell’onda quieta. La gente passa intorno, sugli alti marciapiedi. I carri non entrano nel villaggio.
Ecco avanzarsi un piccolo corteggio, una visione d’altri tempi: sopra una mula bianca bardata di seta rossa, passa una grande dama riccamente vestita di rasi ricamati, il volto colorato di bianco e di rosa, le piccole labbra tinte di sanguigno, la capigliatura guernita di fiori. Una figura staccata da un vaso Chien-long. Non arriva qui la moda di Pechino; vivono ancora costumi di secoli andati. La dama è preceduta e seguita da servi; si reca forse ad una festa: ci fermiamo a guardarla mentre attraversa un ponticello ad arco, e scorgendoci essa si copre il volto con la manica graziosamente.
Abbiamo girovagato nel villaggio dopo aver lasciato l’automobile in un caravanserraglio fuori delle mura. Quando siamo rientrati abbiamo trovato il cortile pieno di gente, di cammelli, di carri, di cavalli. Erano arrivate delle carovane. Il personale dell’albergo era in gran faccende; misurava a cumuli enormi le granaglie per gli animali; correva a portare agli uomini vassoi colmi di riso fumante e alte pile di focaccie. In un angolo della corte uno stregone, per mezzo di una candela accesa e di parole magiche, faceva scongiuri per la guarigione di un vecchio mulo ammalato, il quale subiva l’incantesimo con rassegnazione in mezzo ad un pubblico silenzioso. Nelle ampie cucine fumose tutti i fuochi erano accesi, ed alla luce rossastra di fiaccole di sego s’agitavano i cuochi dai torso ignudo e sudante, simili a fabbri in un’antica fucina, intorno all’automobile un altro affollamento si ostinava a cercare la bestia. Ci siamo accorti che l’idea della bestia appare al contadino cinese come la spiegazione più logica del fenomeno. Soltanto, i più intelligenti ritengono non si tratti di un cavallo, ma di un qualche ignoto animale favoloso fatto prigioniero da noi; e quando odono il roco urlo della tromba dicono: Ecco la sua voce!
In quel tumulto da fiera sono apparsi due soldati russi, col fucile a baionetta in canna; erano soldati della Legazione che scortavano la posta russa per Kalgan e Kiakhta. Venivano da Pechino, e ci hanno portato notizie delle altre automobili che sapevamo giunte la sera precedente a Pa-ta-ling. Le avevano incontrate al di qua della Muraglia; esse avrebbero passata la notte a Huai-lai. Noi avevamo percorso dall’alba 65 chilometri, dei quali 20 col motore. Eravamo avanti agli altri di 35 chilometri; ci avrebbero raggiunto a Kalgan. — Il planzo è plonto! — udimmo esclamare. Pietro era vicino a noi con le mani cariche di piatti, e ci sorrideva da dietro il fumo di vivande di sua esclusiva manipolazione. Pietro è anche cuoco.
Più tardi, fra il pranzo e il sonno, seduti fuori delle camere nostre, intenti a consumare delle sigarette, guardavamo l’ombra nera di grandi montagne profilarsi sul cielo stellato.
— Sono le montagne di Ki-mi-ni — ha osservato Borghese.
Nel cortile di un caravanserraglio cinese. — Ettore.
— Ancora delle ascensioni!
— E difficili. Kalgan è al di là.
— Passeremo?
— Chi sa! Domani sarà una giornata campale.
E lo fu realmente.
Partimmo che era ancora notte.
Appena un leggero chiarore, che pareva di luna, impallidiva le stelle all’oriente. Era difficile distinguere il sentiero, e il vecchio capo dei coolies, pratico dei luoghi, andava avanti esplorando. Non potevamo arrischiarci a camminare col motore; e del resto avevamo ancora ben pochi chilometri di pianura da percorrere prima di arrivare ai passi montuosi di Ki-mi-ni. I nostri cinesi trainavano senza fatica seguendo il passo rapido del mulo, dell’asino e del cavallo. Al sorgere del sole eravamo ai piedi d’una grandiosa e singolare montagna, la Lian-ya-miao.
La Lian-ya-miao è isolata dagli altri monti, e più alta di tutti, ed ha l’aria di essere al loro comando. Essa è rasentata al sud dal fiume Hun, e domina per un tratto il suo corso dall’alto di immani rupi a picco. La strada per Kalgan passa in vicinanza dell’Hun-ho, un po’ sulla riva del fiume, un po’ sulle balze del monte, ora fra sabbie ed ora fra dirupi, s’inerpica e discende, finchè aggirate le montagne lascia il fiume e s’inoltra fra molli colline verso l’altipiano di Hsin-wa-fu, al cui limite, ai piedi di altre montagne, sta Kalgan.
Sotto alla Lian-ya-miao è costruita la città di Ki-mi-ni, nella pianura; agli angoli delle sue muraglie sorgono graziose pagodine, e qualche tetto di tempio dagli angoli sollevati, sormontato da draghi di maiolica e guernito di campanelli, s’erge al disopra delle merlature. Di Ki-mi-ni non si scorge altro. Essa è tutta chiusa fra le alte mura quadre, come tante città cinesi. Strane città vicino alle quali passiamo senza vedere il loro profilo, misteriose, che si difendono dalla curiosità come da un nemico. Camminando all’esterno dei loro bastioni, nel silenzio e nella solitudine, sembra quasi impossibile che dall’altra parte di quelle gran mura oscure ed eguali vi sia una popolazione, vi siano delle strade, delle case, dei mercati, della gioia e del dolore. Tutto è cinto da muri in Cina: l’Impero, le città, i templi, le case. L’ideale della vita cinese è una tranquilla prigionia.
Passati intorno alla città, ci siamo trovati subitamente in riva all’Hun-ho, nell’ombra della Lian-ya-miao le cui roccie ci sovrastavano.
Sulla vetta del monte abbiamo scorto un tempio. Come hanno fatto a costruirlo? — ci siamo chiesti meravigliati. Pietro si è affrettato a rivelarcelo. Quel tempio non fu fatto dagli uomini. Nessun uomo ne sarebbe stato capace. La verità è che venne costruito da Buddha stesso. Egli discese dal cielo sotto forma di una vecchia, tanti secoli or sono, e in una sola notte eresse il santo edificio. E nella notte stessa, trasformatosi in un vecchio, egli costruiva un ponte sull’Hun, del quale esistono ancora le rovine. E Pietro ci ha indicato infatti i resti di una testata di ponte in In Cina. — Il nostro pubblico. pietra invasa dagli sterpi. È curioso come la leggenda d’un dio che viene a compiere lavori urgenti sulla terra sotto le spoglie di vecchio e di vecchia, sia comune fra i popoli dell’Oriente asiatico. Il tempio e il ponte mi rammentano che al Giappone, pure in una notte, la deessa Kwannon, sdoppiatasi anch’essa in un vecchio e in una vecchia, ha scolpito la propria effige in doppio esemplare su due giganteschi tronchi d’albero, ed uno di questi auto-ritratti si venera ancora a Kamakura, ove io pure l’ho visto. La divinità e la vecchiaia si fondono spesso nelle leggende asiatiche, forse perchè divinità e vecchiaia sono oggetto di una eguale devozione.
Il fiume era un po’ gonfiato dalle pioggie; largo e torbido serpeggiava capricciosamente nel vastissimo letto sabbioso. In un punto, bruscamente, la montagna sporgeva il suo fianco di roccia fino alle acque. Nei tempi di magra le carovane guadano l’Hun, e proseguono il cammino sull’altra riva. Noi non ci arrischiammo a tentare la corrente alta. Decidemmo di prendere la via del monte, la quale si sollevava arditamente avanti a noi con un dislivello repentino, e spariva subito fra i dirupi.
E cominciammo la scalata.
Il sentiero era tagliato nella roccia. Seguiva tutti i crepacci del monte. Aveva dei serpeggiamenti così serrati, che in certi istanti a dieci passi non vedevamo più alcun passaggio, ed avevamo l’impressione di sboccare sull’abisso. Non ci lasciava mai indovinare i suoi giri; provavamo una continua sorpresa. Alla nostra destra s’innalzava la parete di roccia; costeggiavamo a sinistra il precipizio. In fondo ad esso il fiume. Al di là del fiume scoprivamo, ascendendo, un orizzonte che si apriva sconfinatamente, la valle del Sang-kan-ho, le montagne pallide del Hwang-hwa-shan, incerte, incorporee, lievi come spettri di montagne; spingevamo lo sguardo nel cuore dello Shan-si. A tratti il sentiero si restringeva; in certi punti era largo appena per il passaggio delle ruote; erano momenti d’ansia; sul ciglione in altri tempi erano stati costruiti muricciuoli di riparo, ora cadenti o caduti, e guardando in basso provavamo l’impressione d’essere sospesi. Vedevamo carovane di cammelli camminare lungo l’Hun, simili a file d’insetti. Talvolta dei macigni sporgevano sulla nostra testa, e, quasi istintivamente, affrettavamo e facevamo agli altri affrettare il passo.
La manovra dell’automobile era faticosa e difficile. Noi lavoravamo con i cinesi, ora alle ruote, a spingerne i raggi a colpi di spalla, ora a portare soccorso alle cordate, a dirigerne gli sforzi. I coolies erano ammirevoli. Qualche cosa delle nostre ansietà e del nostro entusiasmo era penetrato in loro. Attenti e volonterosi, davano tutta la loro forza e tutta la loro intelligenza. Nel duro lavoro mettevano dell’amor proprio. Avevano imparato il Fra le roccie della Lian-ya-miao. modo di superare certi ostacoli, e lo applicavano senza aspettare il comando. Studiavano i nostri gesti, cercavano d’indovinare le nostre intenzioni. Avevano capito benissimo il meccanismo dello sterzo, e quando vedevano le ruote anteriori così impigliate nelle fenditure o fra i sassi da rendere impossibile il dirigerle, correvano a liberarle, le forzavano a volgersi dal lato più utile, secondavano l’intenzione di Ettore che reggeva il volante. Il significato di alcune parole della nostra lingua non era più un mistero per loro: “forza, avanti, fermi, piano, attenti„ erano divenuti vocaboli eloquenti alle loro orecchie. Ed oltre a tutto ciò un buon umore inesauribile, una voglia d’esser contenti sotto ogni pretesto. Ad ogni mal passo superato era uno scoppio d’allegria. Dopo la concitazione intensa d’uno sforzo, trovavano la voglia anche di cantare, con voce affannosa. Festeggiavano le loro piccole vittorie. Trovavano mille argomenti di conversazioni e di risa, finchè il grido di attenti non li faceva tacere e non li curvava nuovamente sotto la corda tesa, il vederci sempre pronti anche noi ad afferrarci alle funi, scamiciati, le braccia nude, e unire al momento del bisogno la nostra fatica alla loro, li spronava. Forse l’inorgogliva.
Non sapevamo mai che ora fosse, perchè non volevamo saperlo. In certi viaggi bisognerebbe sempre lasciare l’orologio a casa; esso è un cattivo compagno, che vi scoraggia mostrandovi quanto il tempo è lento a trascorrere. Noi vivevamo fuori del tempo. Avevamo l’impressione d’esser in marcia fra le montagne da un’epoca indefinibile: ciò abitua e rassegna. Il giorno maturava su di noi incommensurato. Il sole sfolgorante scaldava le roccie, le infuocava, le accendeva. Toccando le pietre ritraevamo le mani con la sensazione d’essere scottati. L’aria era immobile e calda sotto il riverbero; pareva che la montagna alitasse su di noi un suo respiro lieve da gigante addormentato. Alcuni coolies avevano denudato il loro torso color del bronzo, e la corda, appoggiata alla spalla, s’affondava nel muscolo, increspava la pelle; ma i denudati erano tutti portatori, ed avevano sulle spalle la carne già incallita dalle assi dei palanchini e dai bilancieri dell’acqua. Sembravano insensibili al ruvido attrito, e raramente cambiavano di spalla alla fune con un loro moto rapido e caratteristico.
Ad un certo punto la salita cessava. Più ripida si presentava la discesa, sempre addossata al monte, precipitosa. Staccammo gli animali dal traino, sciogliemmo le corde per assicurarle alle imperniature delle molle posteriori. Ogni sforzo doveva essere rivolto a trattenere l’automobile nello scosceso declivio. Tutti gli uomini si prepararono, su due file, come per un tug of war. Ettore mise la leva del cambio alla prima velocità; così se le corde si fossero spezzate ed i freni non avessero agito, l’automobile non sarebbe precipitata con la spaventosa rapidità d’una caduta, ma sarebbe stata un po’ trattenuta dal motore; in tal modo poteva essere ancora possibile dirigerla, se non salvarla. Quando tutto fu pronto si diede il segnale: Avanti! Il mostro grigio cominciò ad inabissarsi.
Pareva che volesse vendicarsi d’essere stato trascinato. Adesso era lui che voleva correre, attento alle inavvertenze degli uomini, pronto alla fuga, sensibile al menomo rallentarsi della tensione; si sarebbe detto che aspettasse il momento opportuno per ribellarsi, insofferente di quel controllo sulla sua forza. Bastava un attimo, bastava che si turbasse per un istante l’armonia degli sforzi, che l’assiduità dei muscoli si rilasciasse appena, e la gran macchina si slanciava avanti trascinando tutti; e per un tratto sembrava insensibile alla stretta dei freni. Gettati indietro, il mento sul petto, i piedi puntati al suolo, le gambe e le braccia irrigidite, i denti stretti, il respiro sospeso, cinesi e noi, tutti uniti, lottavamo. Era un momento breve, per fortuna. I freni nuovi, pieni d’olio, avevano lenta presa, ma alla fine mordevano. Ettore conosceva la sua bestia ed era fiducioso, sapeva domarla a tempo. Quando volevamo fermarci, correvamo a mettere grossi ciottoli sotto le ruote, con la premura di chi fabbrica una barricata per arrestare un nemico, e poi ci riposavamo lasciando l’automobile sola, inclinata in avanti in un atteggiamento d’ostinazione, le lunghe corde serpeggianti a terra dietro a lei come due gran code. Presto raggiungemmo il piano, e riprendemmo lentamente il cammino fra la montagna e l’Hun.
Il sentiero ci condusse verso un villaggio, Shao-huai-huen, mezzo nascosto da folti salici e circondato da campi di riso. La strada s’era fatta fangosa. Il terreno viscido e nero, impregnato dalle pioggie, affondava. Metà dei raggi delle ruote vi spariva dentro, e la mota si attaccava ai cerchioni e alla gomme, vi si Arrivo a Kalgan delle automobili francesi e olandese. accumulava, dava alle ruote delle forme e delle dimensioni stravaganti; pareva che l’automobile scorresse su dei rulli di terra. E anche le nostre scarpe subivano degli incomodi aumenti; il fango le copriva di stratificazioni voluminose che scacciavamo di tanto in tanto scuotendo i piedi e lanciandole lontano. Scivolavamo, il passo si appesantiva. I coolies dovevano fermarsi ogni minuto a riposarsi. Abbiamo incontrato una carovana di muli, carichi di pellicce mongole; due di essi, spaventati dall’automobile, sono usciti dal sentiero e sono affondati fino al ventre.
In vicinanza del villaggio, la strada era coperta d’acqua. A destra e a sinistra, campi di riso cinti da alti margini e inondati anch’essi. Non v’era da scegliere; bisognava passare. I nostri uomini denudarono le loro gambe, ed entrarono nel pantano. Il lungo guado pareva procedesse bene. Misuravamo con gli occhi la distanza della terra asciutta, pieni di speranza. Ancora due minuti, e saremmo stati in salvo. L’acqua gorgogliava sotto i passi.
Improvvisamente l’automobile si fermò.
— Avanti, avanti! — gridò Ettore.
— Imbecilli! — esclamammo — si riposano proprio in questo momento.
— Forza! Una sosta è terribile adesso. Si affonda!
Ma i poveri cinesi non si erano fermati volontariamente. Essi comprendevano bene il pericolo. Tiravano a più non posso, gridavano concitati. Le tre bestie puntavano le zampe sotto una grandine di frustate e allungavano i colli magri. Le corde erano tese, lo chassis gemeva. Inutile. La macchina pareva inchiodata. Più volte fu rinnovato il tentativo di smuoverla, ora lentamente, ora a strattoni; in ogni modo. Bisognava cercare altri mezzi. Ci preparavamo ad attaccare delle catene agli alberi e far forza con i paranchi. Ma i cinesi, tastando sotto l’acqua con i piedi nudi, sentirono che le ruote avevano urtato qualche cosa. Pietro ci riferì:
— Grosso sasso!
Un grosso sasso? Ecco le leve di ferro. Al lavoro. Ci accingevamo a demolire anche una montagna quando, palpando con le mani in cerca d’un punto d’appoggio per le leve, i coolies sentirono che non si trattava d’un sasso. E Pietro spiegò:
— Grosse radici!
Infatti erano le radici d’un gigantesco salice, che stava poco discosto, lieto di verde e indifferente come se non avesse avuto la più lontana responsabilità. Non v’era altro da fare che tagliare le radici a colpi di accetta. Un lavoro singolare e nuovo nell’automobilismo. Chi ci avrebbe visti ci avrebbe creduti intenti alla favolosa impresa di spaccare l’acqua. I colpi scendevano regolari, rasentando un bastone piantato sul fondo a segnalare il punto da colpire.
Le radici tagliate vennero legate, tirate, sbarbicate a forza di braccia, schiantate e distorte fino a sbarazzare completamente le ruote. E allora uscimmo dal pantano, velocemente, senza fermarci per qualche chilometro, contenti di ritrovare un sentiero che, per quanto cattivo, non celava insidie. Il sentiero ci riportò sulle sabbie del fiume, e poi di nuovo fra campi, boschetti e villaggi. Ad ogni pozzo ci fermavamo ad immergere le mani e la faccia nell’acqua fresca, voluttuosamente.
— Where do you go? — “Dove andate?„
Questa domanda in inglese, arrivataci mentre passavamo vicino ad un solitario tempio abbandonato, ci ha fatto rivolgere con somma meraviglia. Non abbiamo visto che un cinese, seduto all’ombra d’un albero, intento a guardarci. Era lui che c’interpellava? Sì, proprio lui.
— Dove andate? — ha ripetuto.
— A Kalgan. E voi, chi siete?
— Io sono un ingegnere della ferrovia di Kalgan.
— E che fate?
— Studio.
— Che cosa studiate?
— La ferrovia di Kalgan.
— Buon divertimento.
— Aspettate.
— Perchè?
— Voglio salutarvi.
E il bravo ingegnere ha interrotto lo studio della ferrovia di Kalgan, che somigliava molto ad un dolce riposo, ed è venuto gravemente a mostrarci che conosceva gli usi stranieri. Ha stretto la mano a tutti noi, ha ripetuto: Addio, addio! — ed è tornato all’ombra dell’albero.
Ci siamo fermati a mangiare delle perfide focacce in un albergo di villaggio, Shan-shui-pu. In quel mentre la corte dell’albergo ha risuonato dello scalpitìo di due cavalli arrivati al galoppo. Ne abbiamo visto scendere due soldati cinesi, stracciati, sporchi, le cartucciere alla cintola, i fucili a tracolla, le daghe sulle reni, il tutto dominato da due faccie da briganti. Pietro è accorso:
— Soldati del mandarino di Hsin-vva-fu! — ci ha detto.
— Che vogliono?
— Venuti per ordine mandarino a vederci.
I briganti ci hanno veduto, sono rimontati a cavallo, e sono scomparsi.
La automobili nel cortile della banca Russo-Cinese a Kalgan.
Noi ci siamo rimessi in cammino. Poco dopo la montagna ci riprendeva.
Due contrafforti rocciosi avanzavano incontro a noi un tumulto di scogliere rossastre. Ancora due valichi! Ed eccoci di nuovo inerpicati fra i macigni.
La strada era peggiore di tutte quelle percorse fino allora. Non dovevamo tanto lottare contro la difficoltà di ripide e lunghe pendenze, come sulla Lian-ya-miao, quanto contro gli ostacoli opposti dalle asperità della roccia nuda. Camminavamo su degli scogli, tutti buche, sollevamenti, spaccature, sporgenze. Lo scorrere delle acque, lo zoccolo dei muli e il largo piede dei cammelli avevano appena addolcito in tanti secoli le scabrosità più vive sopra uno stretto passaggio. L’automobile, per quanto si andasse con lenta cautela, oscillava sulle ineguaglianze del suolo, impuntava ora con una ruota, ora con l’altra, ricadeva di schianto dalla gibbosità delle pietre, aveva i cerchioni attanagliati in solchi profondi. Ed ascoltavamo preoccupati lo scricchiolare metallico dello chassis sforzato dalla trazione, il cigolare sottile del legno delle ruote, una quantità di suoni sommessi mandati non si sa da quale parte della macchina, leggeri lamenti dell’acciaio, appena percettibili, che parevano venire dal lavorio d’insetti distruggitori. Tutte le giunture dell’automobile subivano una tensione per la quale non erano create, e quei rumori significavano spostamenti infinitesimali, deviazioni minime, ma che potevano essere il principio d’una alterazione disastrosa. Era lo scheletro della macchina che soffriva, che si stancava, e la stanchezza delle macchine non si guarisce col riposo.
Ogni passo era, in alcuni punti, un problema da risolvere. Ettore guidava in piedi, per veder bene la strada vicina; aveva le mani scorticate dal volante che vibrava tutto e disobbidiva allo sforzo delle braccia.
Subitamente, due coolies abbandonano la corda gridando, e si azzuffano.
Tutti gli altri lasciano il lavoro, e fra urla infernali entrano nella mischia. Il vecchio capo soffia a perdifiato nel fischietto dell’obbedienza. Pietro, dall’alto della sella, grida anche lui. Noi non sappiamo che pensare. Un ammutinamento? Una rivolta?
Balziamo sui tumultuanti come guardie di sicurezza sopra una dimostrazione sovversiva, e sfolliamo con energia, finchè arriviamo a mettere le mani sui due primi cinesi, che intanto si erano afferrati per il codino e si graffiavano assiduamente il viso. Pareva una rissa di donne. “Che cos’è? — tuoniamo — Al lavoro! Avanti!„
— Pietro, che avviene?
L’impagabile Pietro ci spiega, e ci fa ridere. I due cinesi si battevano per una questione d’amor proprio. Uno aveva detto all’altro: “Tu non fai forza, tu non lavori, perchè sei venuto?„ L’offesa era grave. L’altro (un ragazzo dall’aria di fanciulla, e che per questo avevamo soprannominato la Signorina) s’è slanciato sull’offensore per tirargli il codino, il che rappresenta agli occhi cinesi un’atroce vendetta. I compagni erano intervenuti per sedare la lite.
— Pietro, come finirà questa faccenda?
— Ma è già finita — ci risponde sorpreso — tirato coda finito tutto!
E veramente vediamo i nostri eroi, attaccati alla stessa cordata, lavorare ancora insieme senza l’ombra del rancore; della lite non conservano altro ricordo che qualche graffio sanguinolento che si asciugano di tanto in tanto col rovescio della manica.
Le difficoltà della strada hanno sùbito ripreso tutta la nostra attenzione.
Il sentiero s’incassava fra pareti di roccia, così vicine che noi le toccavamo tutt’e due aprendo le braccia. Con quale ansia attraversavamo quei singolari corridoi tortuosi! Ci sembrava che l’automobile dovesse rimanervi incastrata. Tornare indietro sarebbe stato impossibile. In basso, le pareti avanzavano talmente che una delle ruote doveva sempre montare un po’ sulla sporgenza della roccia. La macchina camminava inclinata. Occorrevano un colpo d’occhio ed una sicurezza meravigliosi per guidarla. Era una questione di centimetri. Di centimetro, anzi. Talvolta Ettore, stretti i freni impetuosamente, e immobilizzata così la macchina, si volgeva esclamando con tono scoraggiato: Non si passa! — E bisognava por mano al piccone, abbattere qualche sporgenza, misurare, tentare ancora facendo tirare gradatamente i soli uomini, al grido di: Ma-man-ti! “Piano!„ Le nostre voci erano rimandate dagli echi, che pareva volessero anche loro avvertire: Ma-man-ti!
Il maggiore pericolo era per le ruote posteriori. Esse venivano talmente serrate in basso e sforzate fra le basi delle due pareti, che tendevano leggermente a disporsi come le aste di una V. Temevamo che si spezzassero i raggi o si spezzasse l’asse del differenziale. Ma uscite dalle strette riprendevano, con nostra gioia, la loro posizione parallela. In alcuni momenti però non potevo fare a meno di pensare che forse avevano ragione i fautori delle piccole automobili. Cinque centimetri di meno di larghezza, e saremmo passati ad occhi chiusi per tutto.
Sulla soglia della Mongolia. — Le automobili si preparano ad attraversare le praterie.
(L’Itala ed il Principe Borghese sono alla destra).
Ad una svolta abbiamo udito uno schianto, seguito da uno scrosciare sinistro. “Ci siamo!„ — abbiamo gridato angosciosamente. L’automobile aveva urtato il fianco con violenza. Fortunatamente il danno era limitato al parafango, che s’era scheggiato, e al montatoio, che s’era torto e piegato indietro. Ettore fremeva; avrebbe pagato metà della sua vita per essere sùbito fuori da quelle gole che ci sembravano eterne.
Le gole cominciarono poi ad alternarsi con dei tratti sabbiosi. Le roccie s’impiccolivano e le sabbie aumentavano. Sulle falde dei monti, verso il nord, i venti impetuosi che vengono dalla Mongolia hanno accumulato delle dune, hanno soffocato gli scogli sotto ai loro stessi detriti. Nei valloni la sabbia forma vasti declivi livellati che sembrano gran fiumi gialli. A poco a poco ci trovammo sulle vette tondeggianti di quelle dune, per passaggi scavati nella rena dal lungo transito delle carovane. E da lassù per la prima volta vedemmo, simile ad un oceano, azzurro e incerto nella limpidità dell’orizzonte, l’altipiano mongolo.
Là ci aspettavano le immense praterie e il deserto. Là era la fuga, la liberazione, la via dell’Occidente.
Agitammo in aria i cappelli e lanciammo nella serenità del cielo un grido d’entusiasmo: Evviva!