XIV. Il vino del prete

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XIII XV

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XIV.

Il vino del prete.


Mi hanno assicurato che l’arciprete della vicina parrocchia è possessore di una cantina di buono e onesto vino. Andai alla pieve, adunque.

La prima volta, però, che turbai col martello il silenzio di quella grande e vetusta dimora, apparve ad una inferriata una faccia scarna, e ad una finestrina più in su, un’altra faccia pingue; ma l’una era più arcigna dell’altra; e tutte e due erano vecchie: le vecchie serve. «Prete? vino?» domandarono: non ne sapevano nulla. Io insistetti, e allora venne fuori il prete in persona.

Anche lui non ne sapeva che poco intorno all’affare del vino: bensì il suo uomo sapeva, ma questi — per allora — era fuori. Dissi il mio nome, da dove venivo, chi mi aveva mandato, e allora fui introdotto nella casa, e poi nella cantina.

Questo prete fabbrica con passione di enologo vini buoni d’uva; ma egli deve essere temperato bevitore: nerboruto, adusto, alto, nero, ha varcato i sessanta, ma ne dimostra [p. 181 modifica]assai meno. La sua voce è quella dell’uomo savio, cioè mansueta, lenta, profonda.

Io mi presentai per quello che sono, cioè per professore o, come mi piace dire, perchè è più semplice, per maestro di scuola.

— E dove, di grazia?

— A Milano.

A questo nome mandò un’esclamazione e fece l’atto di chi odora un vento infido; il mio ufficio e il mio luogo di provenienza non mi parvero una raccomandazione; oh, lo capii subito, e mi dispiacque, perchè se svelai al prete il mio mestiere, fu per essere accolto bene. Il far la scuola è un sacerdozio — almeno così dicono. — Dunque io e il prete eravamo colleghi e, si sa, fra colleghi si usano (non sempre però) delle gentilezze, anche nei prezzi.

Capii subito che il signor arciprete non mi considerava niente affatto per collega. «Allora, già che ti ho detto chi sono, voglio farti sapere che io sono convinto di essere un collega» — pensai —, e mi misi a ragionare del sacerdozio della scuola con un entusiasmo che certo non è nella mia convinzione, almeno per ciò che l’esperienza mi ha insegnato.

Il prete ascoltava e diceva: — Sì, sì, va bene! — e poi con tuono paterno, mettendomi la mano su la spalla, così spiegò il suo pensiero: [p. 182 modifica]

— Con tutte queste belle teorie, la conseguenza però sa quale è? Che la santa ubbidienza non c’è più! — e stringendo le labbra, girò gli occhi qua e là in cerca della Santa Ubbidienza. — Veda, — aggiunse, — altro è soccorrere il nostro simile, come ha detto Cristo, nostro Signore, e altro è montare la testa a chi l’ha già calda; son due cose diverse, mio caro; il servo vuol fare il padrone, il sottomesso vuol criticare il capo, i contadini vogliono vestire come i signori, chi ha una casa domanda un palazzo. Crede lei che il mondo possa andar bene così? Io dico di no! Badi bene, io parlo per quello che vedo qui. Può darsi che a Milano si abbiano altre viste.

E dal suono della voce si capiva chiaro questo pensiero: «E ora basta di discorsi vecchi come il cucco!»

Ed io non ribattei: il discorso del prete era giusto, dal suo punto di vista. Vero è che quelli che la pensano in modo diametralmente opposto al suo, ragionano bene anch’essi dal loro punto di vista. Gli uni tirano a destra, gli altri a sinistra, così come fa fare il maestro di ginnastica con la corda per l’esercizio ai ragazzi. La conseguenza di questi sforzi, opposti e contrarii, è la immobilità. Il sole che sta molto in alto e può serenamente giudicare, [p. 183 modifica]vede che la immobilità è l’effetto del convulso agitarsi degli uomini. Ma forse, per gli uomini, come pei ragazzi, tutto si riduce ad un esercizio di ginnastica.


*


Le case dei preti, specie in campagna, hanno una loro fisonomia di riposata pace e di continuo benessere. Quella del prete in discorso dominava piacevolmente il paesaggio circostante ed io ne feci grande elogio.

— Sono qui da trent’anni, — rispose, — e ho sempre goduto, grazie a Dio, buona salute. Se vuol vedere la casa di sopra, venga pure, oh venga pure! Pare più grande di quello che è. Per rimetterla un poco a nuovo bisognerebbe spenderci del denaro. Una volta, sì, era una parrocchia che rendeva; ma adesso!

Egli mi precedette: erano grandi stanze scialbe con pochi, pesanti mobili — cassapanche, canterani, tracantoni — i quali, se fossero stati smossi, avrebbero fatto piangere lacrime di polvere e di calcinaccio alle pareti: erano antichi fiori defunti, e poi mummificati davanti a teste dolci e chine di varie Madonne. Rimaneva sospeso, però, nell’aria chiusa, il melanconico odore della viola e del garofano morto. Due quadri di marina, del tempo [p. 184 modifica]del Seicento, rappresentavano l’alta poppa di alcune caravelle con le vele latine tutte spiegate e turgide sul rigonfio flutto e glauco. Di fronte un bambin Gesù apriva le braccia come per dire alla mamma sua: «Lasciami andare su la bella barca; io mi annoio, mamma, nella casa del prete!»

— Oh, la bella libreria, oh, i bei libri antichi! — esclamai vedendo alcuni grandi scaffali. Mi accostai, ma una forte grata chiudeva i libri.

Disse:

— Son del defunto parroco che era un dantista. Quando morì, lasciò non so quanti chili di carta scritta, che era tutto un commento di Dante. Gli eredi, gente ignorante qui di campagna, credevano di avere il tesoro. Volevano fare una permuta con due tornature di terra! (Il prete a questo ricordo ridea pure a scosse). E ce ne volle a far capire che quella carta scritta valeva meno della carta pulita. «Ma se ci ha messo tutta la vita!» dicevano. «Ma se tutta la vita ha avuto, pover’uomo, la testa per intrigo!» Me l’han cavata proprio fuori di bocca! Tuttavia, tanto hanno detto, tanto fatto, che ho comperato questa libreria.

— E il manoscritto?

— Mah! — e accennò lontano. — Avrebbe [p. 185 modifica]fatto meglio ad occuparsi della parrocchia, avrebbe fatto.... — concluse serio, serio.

Io fissavo fra la grata curiosamente: Un volume portava questa scritta in oro: «Dante Alighieri, Vita nova d’amore».

(Un profumo di gigli lontani, allora mi fece tremare il core, e chinai il capo).

— Bisognerebbe andare a trovar la chiave, — disse il prete, vedendomi così fermo tuttavia e immaginando il mio desiderio di esaminare quei libri.

— Per carità, non s’incomodi.

— Sì, sarà per un’altra volta.

— Vi sono libri di valore?

— Qualche stampa antica ci dev’essere, ma di argomento profano, — rispose. — Ma guarda qui! ma guarda qui, le maledette bestie! — e il prete col dito ossuto mi indicò, entro la grata, due piccole trappole dove erano alcuni topolini morti, ed uno ancor vivo che saltava.

— Muori di disperata morte! — gli gridò il prete. — Che non si possa salvar niente da queste bestie!

— Ne fan del guasto, i topi?

— Eh, altro che! un po’ per volta se li mangiano tutti questi poveri libri. Bisognerebbe aver tempo per pulirli ad uno ad uno, ma chi ha tempo?

Ci movemmo ancora. [p. 186 modifica]

Grandi pareti scialbe — dico — su cui la pioggia, filtrando, avea disegnato strani arabeschi e continenti nuovi; e così la polvere, stratificandosi in tutta pace su le cornici e su le modanature dei mobili neri, aveva prodotto certi effetti di chiaroscuro, non privi d’arte.

— Bello, signor arciprete, — esclamai.

— Ma che bello! È tanto che ho in mente di metter via tutta questa anticaglia e comperare un po’ di roba nuova!


*


Per una scaletta segreta il prete mi ricondusse ancora nella cucina, dove le due vecchie si erano rifugiate e mi volgevano le balusche pupille bianche; indi mi precedette nella tinaia.

Questa era ben lucida, ma non per effetto dell’acqua: anzi, a giudicare dal buon vino, quivi, come sul rugoso volto del sacerdote, come su quello delle due serve, come sui pavimenti, l’acqua non era passata che parsimoniosamente. In grande copia invece l’acqua doveva esser passata per l’orto; l’acqua che zampillava giovane, argentina, canora come voce di ninfa da un tubo di pozzo artesiano. Bello, dunque, l’orto e ricco di melanzane, di [p. 187 modifica]pomidori, di finocchi e di sedani interrati. Più bello ancora era l’apiario, dipinta a colori smaglianti: giallo, rosso, bianco; odore di miele e quasi di incenso, di basilico e di maggiorana, murmure sordo delle nere api. Ma bellissimo poi sorgeva un olmo poderoso, degno di essere consacrato ad Ercole; cui verde da un lato abbracciava una splendente edera dai vivaci corimbi; dall’altra parte cingeva, serpendo, una forte vite; e tra il fogliame e i corimbi pendevano grappoli, color d’ambra purissima.

— Io le voglio far sentire questo moscato, e mi dirà poi se è buono, — disse il prete. — Ce n’è poco più e glielo voglio far sentire — e così dicendo tolse dalla tasca un coltellino e, allungandosi sulla già lunga persona, accuratamente recise un grappolo e me lo porse. — Siamo agli ultimi d’agosto, e senta come è matura! — sclamò con soddisfazione.

Assaggiai: l’acino grosso si spaccò, e il dolce liquore si sparse nella bocca a gran letizia e frescura delle papille gustatorie, mentre il grappolo non era scarso di gioia ai nervi dell’olfatto: onde io quella ricca e dolcissima quiete contemplando, non potei vincere me stesso e sentii fiorire entro il mio cuore molte e antiche parole di poetica lode intorno all’ocio religiosorum. Ma il vecchio prete [p. 188 modifica]che non era amico, evidentemente, della poetica e della retorica, alle mie prime frasi enfatiche, mi guardò con strani occhi investigatori, come farebbe un medico che ascolta improvviso venir fuori il discorso di un povero svanito di mente. Compresi subito da quello sguardo il mio errore: repressi le parole alate che volevano sgorgar fuori; ricondussi quelle che erano uscite a parlare dell’olmo stupendo, gloria di Dio.

— E di chi lo cura, — mi aggiunse, emendando, il prete, — perchè i tordi arrosto non vengono giù dal cielo. Bisogna andarli a cacciare. Del resto questo olmo si direbbe proprio un olmo magico. Perchè lei doveva venir qui, appunto a quest’ora, due sere fa a sentire. Era un passereto! Sul calar del sole le passere vi si raccoglievano a centinaia (a centinaia, dico!) e facevano a chi cantava meglio: erano tutti occhietti e testoline fuor dalle frasche: la gente si fermava a sentire fin su la strada. Allora sa che cosa ho io pensato? Ho pensato di prenderle tutte in una bella volta. Preparo ben bene le mie reti e tutto era pronto per incappellar l’olmo, quando, che è? che non è? Proprio quella sera che le aspettavo, le passere non vengono; l’albero rimane muto; nemmeno una passera è capitata.

— Il diavolo, signor arciprete! — dico io, [p. 189 modifica]e credetti dire bene; ma ero destinato quel giorno a non indovinarne una.

— Ma che il diavolo! Scimunito! («Scimunito» non me lo disse, ma lo si lesse chiaro nel suo volto). Il diavolo ha ben altro da fare! Un barbagianni, un gufo è stato! Ci deve essere un barbagianni, un gufo lassù! Le passere hanno sentito l’odore, capisce lei? Sono fuggite: ma chi può — e sforzava la vecchie pupille entro il fogliame — andarlo a scovare in quella selva?

O rondini, o tortore, o uccelli della Vernia, che intorno a Santo Francesco facevate nembo e festoso canto, ed egli vi chiamava sorelle e fratelli e vi lodava e vi accomiatava ai punti estremi della terra, e verso settentrione e verso ponente, e dove il sole nasce e dove muore, affinchè la vostra voce canora, gloria di Dio, diffondeste, o quanto pochi sono in terra uomini metafisici e spirituali! E Iddio ha donato a tutti una divina anima immortale?


*


Mentre a questo pensavo, suonarono molti e lieti saluti al reverendo; e insieme a quei saluti una schiera di signore entrò pel cancello, ad una, ad una.

[p. 190 modifica]Precedevano due vecchie dame, assai degne e composte, e dietro venivano due signorine.

Il prete, come le vide ed udì, spalancò le braccia ospitalmente, e col saluto di meraviglia e di festa: — Oh, la mia signora marchesa, che bella improvvisata! Lei, — disse piano e in fretta a me, — s’accomodi col mio uomo che è tornato, — e mosse verso la ospite desiderata. Io allora andai dal suo uomo, il quale dall’aspetto doveva essere sagrestano e cantiniere ad un tempo, mi combinai con lui e pagai. (Buona regola, signor arciprete, far pagare subito certe persone. Certe persone, metafisiche e spirituali, non si ricordano mai degli umili loro doveri terreni, quando non lo fanno apposta).

Dunque io pagai e il sagrestano mi diede la ricevuta.


*


Le vecchie dame e le marchesine (non mi erano volti nuovi) facevano frattanto un gran chiacchierio, facevan loro il passereto, ma con molto consumo di   e r r e   nasale e nobilesco e con molte sfumature toscane, come è costume della nostra nobiltà, la quale, o è educata in Firenze, o quivi ha parenti o temporanea dimora. La voce del prete, nello sforzo [p. 191 modifica]di adattarsi ad espressioni galanti e festose, stonava. Le due vecchie Perpetue intanto si affrettavano, acciabattando, a portar fuori seggiole, ed ammannire un po’ di ristoro.

— Dio, e Imperia dove sarà rimasta? — gemette a un tratto la vecchia marchesa guardandosi attorno.

— Era avanti di noi con la bicicletta, — disse una sorella.

— Quel velocipede, signor arciprete, — sospirò ancora la marchesa, — è la mia disperazione.

Il prete invocò con gli occhi il Signore contro la nequizia dei tempi e contro il velocipede in ispecie, poi così parlò:

— Quando le dico, signora marchesa, che monsignor vescovo ha dovuto con pubblica lettera pastorale vietare l’uso di questo velocipede ai sacerdoti, dico tutto.

Questa volta fu la marchesa a levare gli occhi al cielo.

Io, vedendo che il prete non pensava o non credeva conveniente presentarmi alle dame, decisi di andarmene.

A dire la verità, lì per lì mi bruciò un poco che il signor arciprete applicasse anche su me la teoria della separazione delle classi sociali. Ma poi, pensandoci meglio, «E nella vita sociale. — dissi a me stesso. — dove si [p. 192 modifica]insegna il dogma della fratellanza, non è lo stesso? Le classi sociali si mescolano qualche volta con le falde, o coi gomiti dei loro abiti, con certe frasi di prammatica, ma col cuore?.... E allora che vale? Meglio in tale caso essere sinceri come il prete (sempre supponendo che l’abbia fatto apposta)». Salutai dunque: il prete si levò, prendendolo pel picciuolo, il nicchio; gli occhi delle dame mi seguirono sino alla bicicletta; ma quando fui fuor del cancello, non visto, non potei a meno di fermarmi, e allora ben sentii la marchesa che diceva:

— Anche queste qui (cioè le due marchesine) adesso vorrebbero la bicicletta.

— Sì, mammina! — sospirò l’una delle signorine.

— Sì, mammina! — sospirò l’altra. — Ma noi saremo più ubbidienti di Imperia.

— Le sente, signor arciprete? le sente? Ad Imperia ho dovuto concedere, — disse la marchesa. — Essa ha trent’anni ormai.

— Donna Maria Anna, donna Adriana, sentite, — disse il prete alle giovani con la voce di chi sta per ingoiare un dolce e segreto frutto: — io voglio dare loro una bella bicicletta, una vera bicicletta....

— Sì, sì, signor arciprete.

— Quando, — proseguì egli levando la mano [p. 193 modifica]che benedice, — quando verranno qui a prendere il consenso. Lo sposo, ecco la bicicletta.

Fu una delusione.

— Oh, non ci si pensa più! — sospirò una sorella.

— Non ci si pensa più, ormai, — ripetè l’altra, — ed è ben per questo che mamma ci dovrebbe dare almeno la bicicletta come ad Imperia.