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sai meno. La sua voce è quella dell’uomo savio, cioè mansueta, lenta, profonda.
Io mi presentai per quello che sono, cioè per professore o, come mi piace dire, perchè è più semplice, per maestro di scuola.
— E dove, di grazia?
— A Milano.
A questo nome mandò un’esclamazione e fece l’atto di chi odora un vento infido; il mio ufficio e il mio luogo di provenienza non mi parvero una raccomandazione; oh, lo capii subito, e mi dispiacque, perchè se svelai al prete il mio mestiere, fu per essere accolto bene. Il far la scuola è un sacerdozio — almeno così dicono. — Dunque io e il prete eravamo colleghi e, si sa, fra colleghi si usano (non sempre però) delle gentilezze, anche nei prezzi.
Capii subito che il signor arciprete non mi considerava niente affatto per collega. «Allora, già che ti ho detto chi sono, voglio farti sapere che io sono convinto di essere un collega» — pensai —, e mi misi a ragionare del sacerdozio della scuola con un entusiasmo che certo non è nella mia convinzione, almeno per ciò che l’esperienza mi ha insegnato.
Il prete ascoltava e diceva: — Sì, sì, va bene! — e poi con tuono paterno, mettendomi la mano su la spalla, così spiegò il suo pensiero: