La figlia del re (Barrili)/II
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II.
Zufoletto si ritrovò là dentro come in un mondo nuovo: nuovo, dico, ma piacevole al sommo per lui, come è naturale che sia ogni cosa nuova ed insolita ai bambini, nei quali la curiosità è istinto di cognizione. I nervi sempre desti lo tenevano pronto ad ogni chiamata, ad ogni cura, ad ogni fatica. Sottile com’era, passava da per tutto, senza far mai cascar nulla, o solamente uscire di riga. Pure, della roba ce n’era, in quel Bottegone, e spesso fuori di squadra, in un mezzo equilibrio, su spigoli di tavole, su spalliere di seggiole, sopra orli di scaffali, come sempre avviene in tutti i magazzini assai frequentati. Saliva, scendeva, correva, strisciava lesto, senza far rumore, quasi senza farsi vedere, come una lepre, come un capriolo, come un ramarro; ed era sempre lì, pronto a tutti i comandi, ritto in qualche angolo di quelle sette botteghe riunite, facendosi piccin piccino, secondo lo spazio, come se ci fosse nato, come se non si fosse mai mosso di lì. Povero cosino! occupava così poco posto nel mondo!
In una settimana di soggiorno al Bottegone, era già diventato necessario, come la granata, come lo strofinaccio in cucina. Le pannine, la cartoleria, la drogheria, non sapevano stare senza di lui: perfino la pizzicheria lo voleva, per ispiccare un prosciutto dal gancio, per calar dallo scaffale una forma di cacio, che era più grossa di lui. Zufoletto di qua, Zufoletto di là, serviva a tutti, trovava tempo a far tutto; perfino a dare dai vetri una sbirciatina ai ragazzi della sua età, che giuocavano alle palline sul battuto della piazza maggiore.
Mingherlino era entrato; mingherlino restava, crescendo di statura. Pure, mangiava tutto il suo bisogno. La signora Giuditta, degna metà del suo Demetrio Bertòla, più specialmente incaricata di vigilare alle pannine, vedeva assai volentieri il ragazzo; e tutti i giorni, dopo il desinare, gli lasciava qualche rilievo di tavola, accortamente nascosto tra due piatti in un angolo della cucina. Questo è un segreto, ed ha mestieri di spiegazione, come tutti i segreti. Il signor Demetrio non passava a Zufoletto che minestra e pane a discrezione. Non già che fosse cattivo uomo, Dio guardi! Ma egli soleva dire che i ragazzi non avevano a diventare ghiottoni; che soltanto la minestra era nutritiva, per la giovane età, e che, dove restasse qualche vuoto nello stomaco, un bel tozzo di pan di casa lo avrebbe facilmente colmato. A buon conto, così e non altrimenti s’era allevato lui, sotto gli occhi ed il governo del signor Zenone Bertòla, buon’anima sua, ed egli non aveva avuto che a lodarsi del buon giudizio del suo signor padre.
Nondimeno, bisognava dire cbe le minestre del signor Zenone Bertòla fossero minestroni adirittura, poichè il suo degno figliuolo era diventato un colosso. Bisognava vederlo, seduto nella sua pizzicheria, dove, forse per omaggio ai principii, stava più volentieri che in ogni altra stanza del suo Bottegone: pareva una statua di Mènnone, un Ramsete, una Sfinge. Accanto a lui Zufoletto pareva un icneumone, uno scarabeo, una lucertola.
Vi ho detto che trovava tempo a far tutto; soggiungerò che ne trovava perfino a trastullare l’unico rampollo dei suoi principali, la piccola Fulvia, una cara tombolina, ritornata da balia pochi giorni dopo ch’egli era entrato in casa Bertòla. Fulvia, un bel nome, non è vero? Quel nome era l’orgoglio della signora Giuditta: lo aveva dato alla sua creaturina, tenendola a battesimo per procura, la nobile contessa donna Fulvia Sferralancia, la prima dama del paese, anzi l’unica, checchè potessero pensare in contrario le zitellone Cometti.
Quando capitavano donne di Mercurano o dei dintorni al Bottegone, per comperare cinque braccia di tela, un taglio di veste, un rocchettino di cotone da ricamo, od altro di somigliante, volevano tutte veder la bambina; la coprivano di baci; facevano le maraviglie di quell’amorino santo. Baciucchiargliela, sì, quantunque la signora Giuditta temesse sempre che gliela sciupassero un poco; ma guai a chiamargliela coi diminutivi, sebbene fosse manifesta l’intenzione di vezzeggiarla.
— Che Fulvina! che Fulvietta| — gridava lei spazientita. — Ci spendete una sillaba di più, senza bisogno; e poi le resterà ancora un nome sformato, che non significa niente. Chiamatela Fulvia, Fulvia, avete capito? Altrimenti ci guasteremo. —
La piccola Bertòla, a dirvi intiero il sentimento di quella mamma orgliosa, doveva essere Fulvia, rimaner Fulvia, nient’altro che Fulvia, come la sua madrina illustrissima. La signora Giuditta, aveva ragione, dopo tutto: quando si ha un bel nome, perchè rovinarlo coi diminutivi, sotto il pretesto di farlo diventare più bello?
La bambina cresceva a vista d’occhio, ed era un incanto, un prodigio; bisognava amarla per forza, divorarla coi baci, tanto era graziosa, col suo sennino precoce, con le sue moine infantili, coi suoi capriccetti. Faceva qualche volta disperare il signor Demetrio, perchè gli sviava troppo il suo galoppino, che invece di andare alla posta, a fare un’ambasciata, a portare un involto, era sempre là, attorno alla piccola Fulvia, a farle gli occhiacci, le ombre, la voce grossa, ed altri giuocherelli, di cui ella si divertiva mezzo mondo.
Lo sgridava, allora; e Zufoletto mogio mogio scivolava fuori, per correre alle sue faccende. Ma la bambina non li intendeva così, gli uffizi di Zufoletto in casa Bertòla: piangeva, urlava, strillava, si disperava, voleva Zufoletto ad ogni costo. E lui, che aveva già avuto tempo a ritornare, non ardiva farsi vivo; tremava, ansava e ammiccava in un cantuccio, il piccolo ramarro. E allora il signor Demetrio andava a cercarlo; e quando lo aveva trovato, fingeva di allungargli una pedata.
— Che cosa fai lì, bietolone? Non senti che quella gran diavola piange? —
Un altro non avrebbe saputo a qual santo votarsi, e magari avrebbe acceso un moccolo a tutti. Lui no; si faceva piccino, e obbediva, di qua e di là, sempre in moto, senza lagnarsi mai. Perchè lagnarsi, del resto? Era sempre meglio obbedire, laggiù, dove in fondo in fondo era ben voluto da tutti, anzi che vedersi guardare di traverso della signora Placidia, con quei suoi occhioni di rospa, o dallo zio prete, che pareva un basilisco pronto sempre a sorbirselo col fiato.
Quanti bei giuochi aveva egli insegnato alla piccola Fulvia! a batter le manine rosee contro le sue, destra contro destra, mancina contro mancina, poi mutando l’ordine, destra contro mancina, mancina contro destra; a trar su con gl’indici e coi mignoli le belle figurine geometriche, della culla, del pesce, dello specchio, delle zampe di gallina, da una gugliata di refe, girata a staffe sapienti intorno alle palme delle mani; poi a giuocare alle palline nel cortile, come aveva veduto fare in piazza ai piccoli sfaccendati del paese! Ma non erano sempre stati giuochi, quelli che la bambina aveva imparati da lui. Era giunta ai sette anni, e poteva dire che quanto sapeva fare di buono era frutto degl'insegnamenti di Zufoletto. Chi le aveva messa in mano la penna e fatti fare i primi sgorbietti sulla carta? Zufoletto. Le aste, gli o, gli emme, e tutto il resto dell’alfabeto? Zufoletto. Chi le aveva insegnato a compitare, a sillabare, a leggere, insomma? Zufoletto, ancora Zufoletto. Ah, quella minestra a mezzodì e quell’insalata al calar del giorno, le aveva pur guadagnate, ed anche i bocconcini che di soppiatto gli passava la signora Giuditta.
Parecchie volte, in quegli anni, la bambina era stata ammalata; le aveva fatte tutte, le malattie dell’infanzia, bachi, gattoni, volatica, rosolìa, perfino la difterite. E allora, chi la vegliava? chi le teneva compagnia, per farla star buona e ben coperta nel suo letticciuolo, col rischio di attaccarsi ogni nuovo suo male? Zufoletto, ancora e sempre Zufoletto, il buon infermiere che le copriva la rimboccatura del lenzuolo di ninnoli sempre nuovi, di uccellini, di burchielli, di cappelli da prete, fabbricati a forza di pieghe nelle cartucce colorate dei confetti, delle caramelle, e delle pasticche di cioccolata; il buon cerusico che rimetteva le gambe e le braccia alle sue bambole rotte, che raccomodava i suoi cavallini azzoppiti, i suoi cagnolini sfiatati. La piccola Fulvia non aveva posseduto un balocco, a cui non fosse rimasto appiccicato il ricordo di Zufoletto.
Così passavano gli anni, e il ragazzo s’era fatto un giovinottino a modo, che tutti amavano per la sua gentilezza, che tutti invidiavano al signor Demetrio Bertòla. Quando si dice nascer vestiti! Andavano tutte bene, a quel fortunatissimo uomo. Don Virginio Lorini, scontento di non aver potuto fare del suo giovane omonimo un prete a sua immagine e somiglianza, poteva almeno esser contento di non averlo avuto a mantenere. Qualche volta gli era occorso, al vecchio avaraccio, di dover calare a Mercurano; specie in occasione di grandi solennità, per dare una mano al collega arciprete di San Zenone. Ma da principio non si era arrisicato dall’altra banda della piazza; non aveva domandato mai del nipote, quasi ignorando ch’egli vivesse laggiù. Temeva, forse, che gliel’avessero a rimettere sulle braccia? Chi sa? forse arrossiva pensando di non averlo trattato da zio, nè da padrino, nè da uomo battezzato. Più tardi, molto più tardi, o gli fosse passata la paura, o svanita la vergogna, s’era lasciato accostare dal signor Demetrio Bertòla ed anche, coi debiti riguardi, s’era accostato lui al Bottegone.
— E così? — aveva domandato, facendo la voce grossa, come quando cantava messa da morto «praesente cadavere»; — come siete contento di questo bel mobile?
— Fa bene, fa bene; — rispondeva il signor Demetrio. — Non lo dovrei dire in sua presenza; ma la verità è una sola. Mi serve con fedeltà e intelligenza. È pronto a tutto; premuroso, rispettoso, garbato; e tiene i libri in ordine, che è un piacere a vederli.
— Ah sì! guardate un po’! — biascicava don Virginio. — Me ne rallegro tanto con voi... e con lui. Bisognava proprio che andasse fuori di casa sua, per far bene le cose.
- Eh don Virginio, la vita è una gran scuola; - replicava il signor Demetrio. — Ne so qualche cosa ancor io, che ho dovuto farmi quasi tutto per pratica, in mezzo a tante difficoltà! Quanto a lui, se tira avanti così, farà un buon cammino nel mondo. C’è la stoffa, in lui, c’è la stoffa. Figuratevi che ha imparato il francese da sè. Non lo parla ancora, intendiamoci; altro ci vorrebbe. Ma per questo, ci sono io, che lo parlo come una gatta spagnuola; e per il viaggiatore, quando càpita coi suoi campioni, ce n’è ancora d’avanzo. A scriverlo, qui ti voglio, è il gran punto. Ma il vostro signor nipote fa progressi, e riesce già a tenermi um pochino di corrispondenza. —
Il signor Demetrio diceva il vero, ma non tutto il vero, come sarebbe necessario anche fuori della corte d’assise. La corrispondenza della casa Bertòla, il giovane Lorini, a sedici anni, la teneva già lui tutta quanta. Ed era una corrispondenza varia, abbondante, farraginosa poichè il Bottegone lavorava in tutti i generi che via via saltassero in mente al signor Demetrio, o che la sbirciata quotidiana alle vetrine del prossimo suo, ai giornali, agli avvisi, ai prospetti, gli facesse parer convenienti al suo multiforme negozio.
Da qualche tempo, per esempio, la sala della cartoleria s’era arricchita di nuovi elementi. I libri non erano più solamente sillabarii, grammatichine e letture graduate per le scuole inferiori: s’erano aggiunte le grammatiche di varie lingue, i vocabolarii, le antologie; qualche classico italiano, qualche buon autore di altri paesi vi faceva capolino. Questa novità non l’aveva certamente pensata il signor Demetrio: era il frutto delle prudenti audacie di Zufoletto, il quale, quanto più desiderava di accrescere con la lettura il complesso delle sue cognizioni, tanto più attentamente studiava i bisogni intellettuali dai suoi avventori, secondo le classi, gli umori e le stagioni.
Mercurano, a dir vero, ne masticava pochi, dei libri, ma pochi bene: per contro, ne andavano via molti nei giorni della gran fiera di luglio, ed anche discretamente alla domenica nei mesi d’estate e d’autunno, quando le prossime colline mandavano qualche villeggiante a fare la sua passeggiata mattutina nel bosco. Anche su quella curiosità un po’ stracca degli scioperati signori che scendevano a dare una capatina nell’abitato di Mercurano, aveva fatto capitale l’accorto Zufoletto, entrando così, senza parere, nelle idee e negli andamenti commerciali del suo principale. Aggiungete che non aveva dato una scorsa solamente ai libri nuovi che si vendevano nel Bottegone; dei libri, e d’ogni razza, ce n’erano passati, sotto i suoi occhi, da anni; c’erano passati, a buon conto, tutti i libri vecchi che la gente vendeva a peso, insieme con l'altre cartacce, per uso della pizzicheria, della drogheria, dell’appalto. Zufoletto li ripassava tutti, innanzi di farne i fogli sciolti, per rinvoltarne il pepe, la cannella, le fette di soprassata, o i quattro soldi di trinciato forte. E alcuni, riconosciuti di maggior pregio, erano messi da parte, per ingrossare la libreria di casa. Di casa, intendete, non sua; quantunque l’avesse incominciata lui, continuata lui, fatta lui, non si sentiva il padrone di quel piccolo tesoro intellettuale. Bene, in quella vece, si sentiva padrone di un altro tesoro, che gli andava di continuo crescendo nei ripostigli del suo cassettone. Erano tutti quinterni di scuola, e non scritti da lui: quali vergati ad asticciuole, quali a lettere dell’alfabeto, ripetute a grossi caratteri centinaia di volte; altri a sillabe composte, a parole formate, a proposizioni intiere; altri ancora a favolette, a raccontini, con la lor brava morale infantilmente trovata. Qua e là in fondo alle pagine, si vedevano numeri, operazioncelle aritmetiche, frammezzate da fiori strani, uccellini non mai più visti, omettini e donnette da far morir dalle risa, tutte cose dell’altro mondo, che avevano la virtù d’intenerire il fortunato proprietario, quante volte rovistava là dentro, per contemplare il suo meraviglioso tesoro.
Su tutti quei quinterni era scritto un nome: sui primi con mano maestra, che era quella dell’alunno, o, per dire più veramente, dell’alunna. Erano infatti i quinterni della signorina Fulvia Bertòla, della scolarina bella, per la quale Zufoletto non era stato maestro soltanto, ma s’era rifatto discepolo egli stesso, discepolo di sè medesimo, autodidatto, come dicono i pedanti. Uscendo da casa sua, aveva una brutta mano di scritto: tutte lettere slegate, aperte in alto, quali cascanti dall’altro. Ma in casa Bertòla, negli scaffali della cartoleria, aveva trovato un manuale di calligrafia, ed era rimasto estatico un pezzo a contemplarne gli stupendi esemplari, che gli parevano altrettante patenti di asinità per i suoi ganci deformi. Messosi allora non senza vergogna allo studio, si era fatto da sè un calligrafo consumato. L’aritmetica non era il suo forte; ed egli aveva preso a ristudiare da sè l’aritmetica. Qui, veramente, aveva avuto da principio un maestro, nel garzone della pizzicheria; ma gl’insegnamenti di quel poveraccio non erano andati più in là della sottrazione. Alla moltiplicazione aveva provveduto col suo piccolo ingegno: sfranchito di lì, s’era provato colla divisione, uscendone più difficilmente, con aiuto di prove e controprove, ma infine ad onor suo, lanciandosi poscia di là alle vertiginose altezze della regola del tre, della regola di proporzione, di sconto, d’interesse, e via discorrendo.
Tutto ciò, ripetiamolo, senza trascurare i suoi doveri quotidiani, che non erano pochi. Ma egli è proprio per chi in molte cose si affatica, che il tempo si allunga, dandogli tempo a far tutto. Cresciuto negli anni e nella esperienza, innalzato gradatamente agli onori della tenuta dei libri e della corrispondenza commerciale, Zufoletto attendeva ancora alla delicatissima cura di rinnovar le provviste, avendo l’occhio ai momenti opportuni, secondo il variare dei prezzi sui mercati di Genova, di Milano, di Torino e perfino di Parigi.
Era, a farla breve, una perla di scritturale, di commesso, di factotum della casa Bertòla. Quando morì la signora Giuditta, povera e santa donna, che fu un pianto per tutto il paese, il marito che a modo suo l’amava, diede a conoscere di amarla moltissimo, trascurando il negozio, non trovando in sè stesso la forza di occuparsi di niente. Se fosse stato solo a portare il peso di quel suo piccolo mondo, quello era certamente il giorno delle vendette per tutti i mercanti di fiera, che il Bottegone aveva rovinati, per tutti i bottegai concorrenti di Mercurano che il Bottegone non lasciava prosperare. Non badando ai suoi interessi, non rinnovando le sue provviste in tempo, smettendo della sua vigilanza al banco, della sua cortesia premurosa con ogni razza d’avventori, le sue faccende si sarebbero avviate per una brutta china; anche per esser troppe, avrebbero preso il tracollo, e un giorno o l’altro addio roba! Di corrispondenza, a buon conto, non si occupava più da un bel pezzo: ma ancora, vivente la signora Giuditta, aveva l’uso di guardare ogni settimana i suoi libri, e di fare una conversazione con Zufoletto sopra ogni partita. Morta la signora Giuditta, rimase parecchie settimane senza guardare più nulla, senza discorrer di nulla, col suo segretario.
Quando volle rimettersi a leggere nei libri, gli parve arabo, turco, cinese, e n’ebbe un giramento di capo. Son libri, quelli dei conti, del dare e dell’avere, che quando uno sta un mese senza occuparsene, non ci trova più il bandolo. Non ci sono che i curatori dei fallimenti, per saper leggere nei libri maestri. A benefizio dei creditori, ci s’intende; ond’è che i tribunali non si facciano pregare per nominarne a dozzine. Ma questo è come cavarsi la sete col prosciutto. Vi bisogna fallire, infatti, perchè nei vostri libri ci si legga chiaro. E piaccia a voi, questo, o piaccia ai vostri commessi, che seguiteranno poi lo stesso commercio. Per intanto non poteva piacere a Zufoletto.
E non ci fu caso che fallisse il Bottegone, anche privato delle cure quotidiane del suo proprietario. Seguitò a prosperare; e se non fosse per mancar di riguardo al signor Demetrio Bertòla, nè per isbugiardare il proverbio che l’occhio del padrone governa il cavallo, si potrebbe soggiungere che prese da quel tempo a fiorire più che mai. Fioriva anche la signorina Fulvia, quantunque la mamma sua se ne fosse andata in cielo, e il babbo se ne andasse troppo spesso con la testa ciondoloni per le viottole campestri di Mercurano. Zufoletto era lui il babbo, dopo essere stato maestro e bambinaia ad un tempo.
Fulvia era un angelo ricciutello, che in tutto il paese non si ricordava d’aver mai visto il compagno. Che furori, quando fu mandata per la prima volta alla scuola, e là, di primo acchito, si ritrovò la prima della sua classe! Notate che l’avevano, dopo un accurato esame, fatta saltare dalla prima alla seconda; e un mese dopo, per non far torto alle altre bambine, bisognò sbalestrarla alla terza. Lassù la trattennero, quantunque, per ciò che sapeva, fosse da collocarla in quarta. Ma per la quarta, forse, era ancora troppo piccina, ed avrebbe fatto per un altro verso sfigurare le grandi. Quella diavolina sapeva già tutto quello che nelle elementari s’insegna a bambine e bambini. Leggeva con una esattezza, con una grazia, con un sentimento, da far restare a bocca aperta. E come recitava, poi! Bisognava sentirla nella «Vispa Teresa», nella «Bambola nuova» e nella «Nostra Regina»; c’era da divorarsela coi baci.
In breve, di lì a due anni di scuola, per ciò che riguardava la cultura intellettuale, non c’era più niente da insegnarle, o, per dire più veramente, da farle ripassare, nelle scuole femminili di Mercurano. Di cucito e di ricamo era entrata più debole: ma in quei due anni aveva fatto prodigi. Anche per quel lato era un «fenomeno vivente»: cosa che traeva le prime risate di bocca al signor Demetrio; le prime, dico, dopo la morte della signora Giuditta.
— Signor Demetrio, — dicevano le maestre, — bisogna pensarci, a questa bella bambina. È un portento. Qui non c’è più una scuola per lei. Bisognerebbe metterla anche alle lingue, per le quali ha una disposizione singolare. Sa già un po’ di francese. O dove lo impara? —
Il signor Demetrio lo sapeva benissimo, dove lo imparasse sua figlia. Ma non voleva gittarne il segreto alle turbe.
— Eh, capirete; — rispondeva ammiccando; — ci sono tanti libri, nel Bottegone! Chi va al mulino s'infarina; figuriamoci poi chi ci sta di casa. —
Qualche amico era andato più oltre; aveva messo risolutamente un «aut aut». O prendere per la fanciulla una dama di compagnia; che, dopo tutto, lo stato di fortuna del signor Bertòla permetteva queste grandezze, e l’ingegno della bambina meritava ogni sacrifizio: oppure.... Oppure, che cosa? Ma sì, bisognava bene affrontare la difficoltà, prendere il toro per le corna. Non già per lui, che certi grilli non li aveva in capo, nè per far torto alla buona memoria di quella santa donna della signora Giuditta; ma infine, per amore di quella povera figliuola, una seconda madre non era forse necessaria?
Una seconda madre! che discorso era quello? Le mamme son mamme, e le matrigne son cagne. Questo proverbio il signor Demetrio lo aveva imparato dai suoi vecchi. E su quel punto, poi, al principale teneva bordone il segretario; anzi, andava più in là. Una seconda moglie al signor Demetrio! per dargli altri figli? e per trattar male il suo angelo bello? Ah no, mille volte no; e si levasse pure quel primo corno al dilemma.
Quanto all’altro, peggio che andar di notte. Ma che, si faceva celia? Una dama di compagnia in casa Bertòla! una istitutrice! Una bestia, novantanove volte su cento, che non ha potuto nè saputo vivere in casa sua, che sente il bisogno di correre il mondo, funestando le case degli altri, non già per insegnare la lingua sua, che conosce per pratica e non sa mai per grammatica, ma solamente per imparare la lingua degli altri; una rabbiosa spigolistra, o una sciocca fantastica, tutta gonfia della sua dignità, piena di pretese, sempre ignorante della giusta misura, una testimone importuna di gelosi segreti, una giudichessa arcigna di tutte le piccole debolezze a cui non partecipa, a cui non saprà mai compatire, una svenevole romantica o una pedantesca uggiosa, un carnefice in gonnella e sempre atteggiato a vittima, un vampiro sempre inteso, nella migliore ipotesi, a succhiarvi l’affetto della bambina cara, ad ispirarle un amore che non è quello della casa, perchè dalla casa non viene e dalla casa non si nutre; no, no, diecimila volte no. Dunque? Dunque via l’altro corno, e del dilemma non restava più neanche l’ombra.
Si stette un pezzo ad almanaccare su quel caso difficile. Nessuna questione più grave si era offerta mai alle meditazioni di casa Bertòla; nessuna maraviglia adunque che ci si meditasse per tre mesi, quanto durarono le vacanze, dopo l’ultimo anno di studi che la bambina aveva passato nelle scuole di Mercurano. Finalmente una risoluzione fu presa; ma solamente perchè bisognava prenderne una, e nel dubbio non si poteva restare più a lungo, essendo venuto l’ottobre. Zufoletto si adattò al male minore, ch’egli stesso aveva dovuto consigliare; si adattò a veder andare la bambina in conservatorio.
Era tanto intelligente, quella cara piccina, che sarebbe stato davvero un delitto non farla studiare, non darle un’istruzione di tutto punto, rinunziare per lei a quel corredo di cognizioni, che parevano fatte a bella posta per la sua mente, come i fiori pel ramo. La casa Bertòla, ricca abbastanza, poteva far le cose alla grande; e per chi le avrebbe fatte, se non per l’unico rampollo, per l’erede di tutto?
Accolto il partito, Zufoletto cercò, domandò informazioni intorno al luogo più adatto. Gli avevano detto di un buon collegio di Toscana; ma era troppo lontano, se mai fosse bisogno di andare a vedere l’educanda. Gli avevano vantato un collegio di Milano, ma quello, se era abbastanza vicino, non pareva per contro il più conveniente, tra la confusione e gli svaghi di una grande città. La conseguenza di tante indagini e di tanti studi preliminari fu questa, che Fulvia Bertòla entrò a mezzo ottobre nel reputato collegio delle Dame inglesi di Lodi; bel luogo signorile, ottima postura, sulla riva destra del Lambro, con un giardino ancora più inglese delle Dame sullodate; e sotto la mano, finalmente, non in capo al mondo, per tutte le piccole corse che al babbo paresse opportuno di fare.