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cina, poi mutando l’ordine, destra contro mancina, mancina contro destra; a trar su con gl’indici e coi mignoli le belle figurine geometriche, della culla, del pesce, dello specchio, delle zampe di gallina, da una gugliata di refe, girata a staffe sapienti intorno alle palme delle mani; poi a giuocare alle palline nel cortile, come aveva veduto fare in piazza ai piccoli sfaccendati del paese! Ma non erano sempre stati giuochi, quelli che la bambina aveva imparati da lui. Era giunta ai sette anni, e poteva dire che quanto sapeva fare di buono era frutto degl'insegnamenti di Zufoletto. Chi le aveva messa in mano la penna e fatti fare i primi sgorbietti sulla carta? Zufoletto. Le aste, gli o, gli emme, e tutto il resto dell’alfabeto? Zufoletto. Chi le aveva insegnato a compitare, a sillabare, a leggere, insomma? Zufoletto, ancora Zufoletto. Ah, quella minestra a mezzodì e quell’insalata al calar del giorno, le aveva pur guadagnate, ed anche i bocconcini che di soppiatto gli passava la signora Giuditta.

Parecchie volte, in quegli anni, la bambina era stata ammalata; le aveva fatte tutte, le malattie dell’infanzia, bachi, gattoni, volatica, rosolìa, perfino la difterite. E allora, chi la vegliava? chi le teneva compagnia, per farla star buona e ben coperta nel suo letticciuolo, col rischio di attaccarsi ogni nuovo suo male? Zufoletto, ancora e sempre Zufoletto, il buon infermiere che le copriva la rimboccatura del lenzuolo di ninnoli sempre nuovi, di uccellini, di burchielli, di cappelli da prete, fabbricati a forza di pieghe nelle cartucce colorate dei confetti, delle caramelle, e delle pasticche di cioccolata; il buon cerusico che rimetteva le gambe e le braccia alle sue bambole rotte, che raccomodava i suoi cavallini azzoppiti, i suoi cagnolini sfiatati. La piccola Fulvia non aveva posseduto un balocco, a cui non fosse rimasto appiccicato il ricordo di Zufoletto.

Così passavano gli anni, e il ragazzo s’era fatto un giovinottino a modo, che tutti amavano per la sua gentilezza, che tutti invidiavano al