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governo del signor Zenone Bertòla, buon’anima sua, ed egli non aveva avuto che a lodarsi del buon giudizio del suo signor padre.

Nondimeno, bisognava dire cbe le minestre del signor Zenone Bertòla fossero minestroni adirittura, poichè il suo degno figliuolo era diventato un colosso. Bisognava vederlo, seduto nella sua pizzicheria, dove, forse per omaggio ai principii, stava più volentieri che in ogni altra stanza del suo Bottegone: pareva una statua di Mènnone, un Ramsete, una Sfinge. Accanto a lui Zufoletto pareva un icneumone, uno scarabeo, una lucertola.

Vi ho detto che trovava tempo a far tutto; soggiungerò che ne trovava perfino a trastullare l’unico rampollo dei suoi principali, la piccola Fulvia, una cara tombolina, ritornata da balia pochi giorni dopo ch’egli era entrato in casa Bertòla. Fulvia, un bel nome, non è vero? Quel nome era l’orgoglio della signora Giuditta: lo aveva dato alla sua creaturina, tenendola a battesimo per procura, la nobile contessa donna Fulvia Sferralancia, la prima dama del paese, anzi l’unica, checchè potessero pensare in contrario le zitellone Cometti.

Quando capitavano donne di Mercurano o dei dintorni al Bottegone, per comperare cinque braccia di tela, un taglio di veste, un rocchettino di cotone da ricamo, od altro di somigliante, volevano tutte veder la bambina; la coprivano di baci; facevano le maraviglie di quell’amorino santo. Baciucchiargliela, sì, quantunque la signora Giuditta temesse sempre che gliela sciupassero un poco; ma guai a chiamargliela coi diminutivi, sebbene fosse manifesta l’intenzione di vezzeggiarla.

— Che Fulvina! che Fulvietta| — gridava lei spazientita. — Ci spendete una sillaba di più, senza bisogno; e poi le resterà ancora un nome sformato, che non significa niente. Chiamatela Fulvia, Fulvia, avete capito? Altrimenti ci guasteremo. —

La piccola Bertòla, a dirvi intiero il sentimento di quella mamma orgliosa, doveva essere