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Fulvia, rimaner Fulvia, nient’altro che Fulvia, come la sua madrina illustrissima. La signora Giuditta, aveva ragione, dopo tutto: quando si ha un bel nome, perchè rovinarlo coi diminutivi, sotto il pretesto di farlo diventare più bello?

La bambina cresceva a vista d’occhio, ed era un incanto, un prodigio; bisognava amarla per forza, divorarla coi baci, tanto era graziosa, col suo sennino precoce, con le sue moine infantili, coi suoi capriccetti. Faceva qualche volta disperare il signor Demetrio, perchè gli sviava troppo il suo galoppino, che invece di andare alla posta, a fare un’ambasciata, a portare un involto, era sempre là, attorno alla piccola Fulvia, a farle gli occhiacci, le ombre, la voce grossa, ed altri giuocherelli, di cui ella si divertiva mezzo mondo.

Lo sgridava, allora; e Zufoletto mogio mogio scivolava fuori, per correre alle sue faccende. Ma la bambina non li intendeva così, gli uffizi di Zufoletto in casa Bertòla: piangeva, urlava, strillava, si disperava, voleva Zufoletto ad ogni costo. E lui, che aveva già avuto tempo a ritornare, non ardiva farsi vivo; tremava, ansava e ammiccava in un cantuccio, il piccolo ramarro. E allora il signor Demetrio andava a cercarlo; e quando lo aveva trovato, fingeva di allungargli una pedata.

— Che cosa fai lì, bietolone? Non senti che quella gran diavola piange? —

Un altro non avrebbe saputo a qual santo votarsi, e magari avrebbe acceso un moccolo a tutti. Lui no; si faceva piccino, e obbediva, di qua e di là, sempre in moto, senza lagnarsi mai. Perchè lagnarsi, del resto? Era sempre meglio obbedire, laggiù, dove in fondo in fondo era ben voluto da tutti, anzi che vedersi guardare di traverso della signora Placidia, con quei suoi occhioni di rospa, o dallo zio prete, che pareva un basilisco pronto sempre a sorbirselo col fiato.

Quanti bei giuochi aveva egli insegnato alla piccola Fulvia! a batter le manine rosee contro le sue, destra contro destra, mancina contro man-