La favorita del Mahdi/Parte III/Capitolo V
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CAPITOLO V. — La tortura.
I noggàra battevano la sveglia, quando venticinque guerrieri della guardia di Ahmed Mohamed, armati sino ai denti, circondavano il tugul occupato da Abd-el-Kerim. Una folla considerevole di Abù-Rof, di baggàra, di beduini e di foriani, si era radunata all’intorno chiedendosi cosa volessero fare quei venticinque guerrieri al nuovo sceicco, salvato il giorno innanzi dall’inviato del Signore.
Il capo dei guerrieri, dopo di avere appostati i suoi uomini all’ingiro, in modo da impedire ogni scampo, entrò nel tugul colla scimitarra in pugno e con una cert’aria che pareva tutt’altro che rispettosa e pacifica.
Abd-el-Kerim stava appunto alzandosi allora dall’angareb sul quale aveva dormito. Vedendo quell’uomo piantarglisi minacciosamente dinanzi, squadrandolo con occhio torvo, non potè dissimulare un gesto di sorpresa.
— Che vuoi? gli chiese, sforzandosi di mostrarsi tranquillo.
Seguimi, rispose il capo bruscamente.
— Chi mi vuole?
— L’inviato del Signore.
Abd-el-Kerim trasalì. Nel suo cervello balenò un terribile sospetto, il sospetto che qualcuno lo avesse tradito, che lo avesse denunciato per l’amante di Fathma. Sentì il sangue gelarsi nelle vene e mancare lo forze.
— Che vuole da me Ahmed? chiese egli con ispavento.
— L’ignoro. Mi disse di condurti da lui vivo o morto e io ti condurrò.
— Ma cosa è accaduto per trattarmi peggio di un nemico?
— Non ne so nulla. Ahmed deve avere le sue buone ragioni.
— Si è ingannato.
— È impossibile! esclamò il guerriero con profonda convinzione. Ahmed è infallibile.
— Una parola ancora. Hai veduto qualche straniero entrare nel tugul del profeta?
— Sì, questa notte sono entrati due uomini e uno di essi non l’aveva mai visto al campo.
— Ah!...
— Seguimi. Ahmed non è uomo da aspettare molto.
Abd-el-Kerim, pallidissimo, voleva cingere la scimitarra regalatagli la sera innanzi dal Mahdi, ma il guerriero gliela strappò di mano spezzandola.
— Sei prigioniero, e i prigionieri non devono essere armati, gli disse.
Lo afferrò bruscamente per un braccio e lo trasse a forza fuori dal tugul. I suoi uomini lo circondarono colle pistole e gli jatagan in mano; facendogli capire che al primo tentativo di fuga gli avrebbero fatto saltare le cervella.
— Sono perduto! pensò lo sventurato arabo. Qualcuno mi ha tradito. Chi?... Che farò mai io se mi si gettasse in faccia la tremenda accusa che io fui l’amante di Fathma?
«Che farà di me Ahmed che si mostrò così feroce così implacabile parlando di quella donna!... Allàh! Allàh! quando la finirai tu di perseguitarmi? Non ti basta adunque di avermi privato di colei che tanto amavo, di avermi infranto il cuore?... Vuoi adunque anche la mia morte?
Un sordo gemito gli uscì dalle labbra; gettò uno sguardo disperato all’intorno, forse meditando una fuga che era assolutamente impossibile. Non vide che una turba di guerrieri che lo serrava strettamente, guardandolo con occhi torvi e minacciosi. Sulle labbra di alcuni errava un atroce sogghigno, un sogghigno di soddisfazione. Tutti, lo si vedeva, comprendevano che il nuovo sceicco era caduto in disgrazia e si compiacevano di tale avvenimento.
Maledetti! mormorò l’arabo.
Chinò il capo sul petto e si rinchiuse in cupi pensieri. Non lo rialzò che quando si trovò dinanzi al tugul di Ahmed, attorno al quale si era radunata una intera tribù di baggàra. In mezzo ad essa egli scorse un beduino ammantellato che si coprì il volto con un lembo del taub. Abd-el-Kerim, senza sapere proprio il perchè, tremò tutto e fissò involontariamente gli occhi su quell’uomo che affrettossi a confondersi fra i negri.
Fu fatto entrare nel tugul e lasciato solo. Le prime cose che colpirono il suo sguardo furono un palo che era rizzato in mezzo alla stanzuccia, un rotolo di strisce di pelle e un braciere ardente sul quale arrossavano alcuni jatagan d’una forma speciale.
— Oh! esclamò l’infelice che sentì corrersi per le ossa un brivido.
Volle dare indietro ed uscire, ma non ne ebbe il tempo. Ahmed entrò colla fronte abbuiata, gli occhi accesi da una cupa fiamma, le braccia incrociate convulsivamente sul petto.
Abd-el-Kerim fece involontariamente un passo indietro. Si sa che era coraggioso, ma nel vedersi dinanzi quel possente uomo, che con un cenno poteva far rotolare ai suoi piedi mille teste, così cupo, così minaccioso, ebbe paura.
Per alcuni istanti nella capanna regnò un profondo silenzio, rotto solamente dagli scoppiettii del braciere che arrossava gli istrumenti di tortura.
Pareva che Ahmed provasse una feroce compiacenza delle tremende angoscie della vittima.
— Siedi! disse ad un tratto, accennandogli l’angareb.
L’uomo ubbidì macchinalmente senza aprire bocca.
— Abd-el-Kerim, continuò Ahmed, con un tono di voce che tradiva la collera che ruggivagli in petto, frenata solamente da uno sforzo straordinario. Sai perchè ti feci arrestare e tradurre qui come un prigioniero?
— Come vuoi che io lo sappia, disse l’arabo che comprese subito l’immenso pericolo che correva e che la sua vita era appesa ad un semplice filo.
Un sogghigno beffardo, simile a quello di una iena che si dispone a divorare la preda, contorse le labbra del terribile Profeta.
— Sei certo di non saperlo? chiese.
— Ma perchè tale domanda? Spiegati, Ahmed.
— Perchè sei così agitato? La tua coscienza non è tranquilla, Abd-el-Kerim.
— Non è vero! T’inganni!
Ahmed scattò in piedi colla vivacità di una tigre. Gli si avvicinò, gli posò le mani sulle spalle e gli disse con aria tetra:
— Tu tremi!.... perchè tremi? Perchè la tua coscienza non è tranquilla? Perchè il tuo cuore non batte quasi più?... Perchè il tuo sguardo è smarrito?... Non negarlo a me che leggo nel più profondo dei cuori, non negarlo a me che leggo i tuoi pensieri, Tu sai la terribile accusa che gravita sul tuo capo e tremi, tremi.
Abd-el-Kerim, cinereo, tremante, alterato, spaventato, non rispose. Non si sentiva capace di allontanare la terribile accusa che doveva perderlo. Egli si chiedeva solamente chi era il miserabile che lo aveva tradito.
— Ebbene? chiese l’implacabile Ahmed, scrollando lo sventurato.
— Che cosa vuoi che ti dica? balbettò Abd-el-Kerim, smarrito. Non so.... non capisco.... ignoro ciò che tu vuoi dire....
— Ah! fe’ Ahmed con sottile ironia. Non comprendi adunque dove io miri?
— No...
— Te lo dirò io.
Tornò a sedersi ancor più cupo e più minaccioso di prima, saettando d’uno sguardo terribile l’infelice arabo terrorizzato. Stette alcuni istanti raccolto in sè stesso, come se meditasse, poi, con voce calma, marcando ogni parola, disse:
— Ti ricordi di Dhafar pascià?
— Perchè tale domanda?
— Ti ricordi di Hossanieh?
— Hossanieh! esclamò l’arabo diventando ancor più cinereo.
— Mi si disse che un giorno arrivò in quel campo...
— Chi?...
— Una donna!
— Non è vero! urlò Abd-el-Kerim.
Ahmed lo guardò in maniera strana.
— Sai di che donna intendo parlare? chiese egli divorando l’arabo con gli occhi.
— Io!... no!...
— Perchè allora ti sei affrettato a negare che una donna comparve a Hossanieh?
Abd-el-Kerim non rispose. Lo sventurato conobbe di essere perduto.
— Te lo dirò io, allora. Fu per allontanare l’accusa che gravita sul tuo capo.
— Ma quale, quale accusa? gridò il prigioniero.
— Di aver amato una donna che si chiama Fathma!
Abd-el-Kerim cacciò fuori un urlo d’angoscia e indietreggiò fino alla parete della capanna, coi capelli irti, gli occhi stravolti.
— Perchè quel grido? chiese Ahmed, il cui volto assunse una terribile espressione di ferocia e d’odio
— Grazia, Ahmed, balbettò lo sventurato.
— Ah! Tu mi chiedi grazia? Tu sei colpevole adunque? Tu hai amato quella donna adunque! Rispondi, sciagurato, rispondi!
— Ebbene.... sì, ho amato quella donna!
— E non tremi a dirlo?
— Grazia... Ahmed! Grazia...
— Ma non sapevi tu che quella donna era stata mia?....
— Sì, ma lo seppi quando l’amore era diventato così gigantesco da non essere io più capace di soffocarlo, di spegnerlo, di distruggerlo. Che colpa ho io se l’amai ed essa mi amò? Quella donna d’altronde non era più tua.
— Ma non sai adunque, miserabile, che io l’amo ancora?
— Tu l’ami!.... Tu l’ami!....
— Sì, l’amo quella donna bella e fatale, e l’amo a segno che per essa marcerei sull’Egitto, a segno che per essa rinnegherei la mia religione. Comprendi ora quanto Ahmed-Mohammed ama Fathma? Lo comprendi ora?
— Sì.... lo comprendo! esclamò l’arabo con ira.
— Abd-el-Kerim, disse Ahmed con furore, se tu fossi Ahmed-Mohammed ed io Abd-el-Kerim, cosa faresti?
— Perchè tale domanda?
— Fra poco lo saprai. Dimmi, cosa faresti tu?
— Io mi mostrerei generoso.
— Ed io mi mostrerei implacabile. Preparati a soffrire i più atroci tormenti.
— Grazia, Ahmed!... supplicò lo sventurato, cadendo in ginocchio dinanzi a lui.
— Ahmed non perdona.
— Miserabile! urlò l’arabo saltando in piedi, fuori di sè.
Il Mahdi, vedendo che il prigioniero stava per avventarglisi addosso, indietreggiò sguainando la scimitarra e gettò un acuto fischio.
Yòkara, il gigantesco carnefice, balzò nella stanza abbrancando a mezzo corpo l’arabo. Gli bastò un pugno solo per atterrarlo e ridurlo all’impotenza.
— Lega quest’uomo al palo, disse Ahmed sdraiandosi indolentemente sull’angareb.
Il carnefice sollevò l’arabo che non dava quasi più segno di vita e lo legò solidamente al palo con forti correggie di cuoio.
— Fallo ritornare in sè, poi gli straccerai le carni a colpi di corbach.
— Sta bene!
Il miserabile si avvicinò al braciere, levò uno degli jatagan, prese i pollici dell’arabo e li serrò attorno al ferro incandescente.
La carne scoppiettò a quel contatto e per l’aria si sparse un nauseante odore di bruciaticcio. Abd-el-Kerim guizzò come fosse stato toccato da una scarica elettrica; un rantolo soffocato gli rumoreggiò in fondo alla gola. Riaprì gli occhi girandoli all’intorno.
— Eccolo svegliato, ripigliò il carnefice deponendo il ferro.
— Devo mettere in opera il corbach?
— Non ancora, disse Ahmed. Lascialo che rinvenga del tutto.
Infatti Abd-el-Kerim rinveniva. Suo primo moto fu quello di torcere i polsi tentanto di rompere i legami, poi si abbandonò addosso al palo gemendo lugubremente. Le dita calcinate al contatto del ferro rovente dovevano farlo soffrire atrocemente.
— Fathma!... mormorò lo sventurato con voce semispenta. Fathma!...
Ahmed digrignò i denti e la sua ira accrebbe smisuratamente a quell’invocazione disperata.
— Ah! maledetto! brontolò egli. Ancora la chiami? Ma non la vedrai più, te lo giuro. Quando uscirai dalle mie mani per passare in quelle del tuo nemico, sarai un uomo rovinato per sempre.
S’avvicinò alla sua vittima e toccandola in mezzo al petto:
— Mi riconosci? gli chiese.
— Che mi hai fatto? rantolò Abd-el-Kerim. Io soffro... soffro atrocemente... mi hanno arso le mani...
— Mi riconosci? ripetè Ahmed, avvicinandosi vieppiù.
— Sì, ti conosco... vendicativo uomo.
— Rispondi alla interrogazioni che ti farò, se vuoi salvare la vita. Che hai fatto di Fathma? Dove si trova?
— Lasciami in pace...
— Abd-el-Kerim! gridò Ahmed gravemente. La morte ti sfiora colle sue nere ali. Rispondi: dove si trova Fathma?
— Ma non capisci che io l’ho perduta, che fui separato da lei a Hossanieh, che mi fu rapita?
— Da chi?
— Da un uomo che era mio rivale.
— Chi è quest’uomo?
— Un soldato un’anima dannata, un... S’arrestò agitando le dita calcinate e gemendo ancor più lugubremente. Un copioso sudore irrigavagli il volto e il petto gli si sollevava affannosamente.
— Dimmi, dov’è quest’uomo? gli chiese Ahmed in preda ad una esaltazione indicibile.
— Non lo so... credo che sia morto...
— Tu vuoi ingannarmi. Olà, carnefice, fa il tuo dovere.
Yòkara a quel comando impugnò un grosso staffile, un corbach di pelle d’ippopotamo, flessibile e insanguinato. Lo fece girare e fischiare attorno al capo, poi applicò un terribile colpo sul petto di Abd-el-Kerim, tracciando un segno violaceo.
L’infelice gettò un urlo strozzato, un urlo di dolore e si rovesciò contro il palo.
— E uno, contò Ahmed, Percuoti, percuoti, duro fino a che le carni siano lacerate. Allora vi introdurrai la morte.
Il carnefice, cieco istrumento del terribile profeta, si mise a sferrare rabbiosamente l’arabo che era di già svenuto. La pelle si coprì di solchi azzurrognoli, violacei, rossi, poi si lacerò.
Il sangue incominciò a scorrere abbondantemente giù per quell’inanimato corpo, formando in terra una larga pozza.
— Percuoti! percuoti! ripeteva ferocemente Ahmed.
E il carnefice percuoteva senza posa e senza pietà, facendo volare per l’aria goccie di sangue che macchiavano le pareti e il soffitto del tugul e staccando lembi di pelle.
Ad un tratto si fermò.
— Padrone, diss’egli esitando, se continuo così lo uccido.
— Lo credi? chiese Ahmed ironicamente.
— Te lo assicuro. È mezzo morto di già.
— Questi arabi sono di ferro, tuttavia basterà così. Ora, introduci nelle ferite la morte.
Yòkara slegò Abd-el-Kerim che non respirava quasi più tutto scorticato, tutto rosso di sangue, colla faccia spaventosamente alterata e gli occhi stravolti, schizzanti dalle orbite. Lo depose a terra, vi gettò sopra un mastello di acqua poi mandò un fischio.
La tenda si alzò ed apparve uno spaventevole negro, un essere mostruoso, ributtante; orribile a vedersi.
Era alto, scarno, col volto smunto, ossuto, gli occhi infossati e accesi e sul suo corpo dinanzi e di dietro vedevansi dei tumori più o meno grossi di un pugno e di una forma strana. La pelle dell’addome e del petto era screpolata, ulcerata e lasciava qua e là vedere la viva carne.
Ahmed fe’ un gesto di ribrezzo.
— Sei pronto a subire l’operazione? chiese tranquillamente il carnefice.
— Quando l’inviato di Dio me lo comanderà, mi farò tagliare in diecimila pezzi, rispose il mostro.
— Distenditi a terra. Mi accontenterò di un solo verme.
L’altro ubbidì. Il carnefice impugnò un coltello dalla lama sottile e ben arrotata, tastò un tumore dei più grossi e si pose a tagliarlo lentamente, a strati, senza che il paziente desse segno di provare il menomo dolore.
Il sangue colava, ma l’operatore continuava a tagliare imperturbabilmente.
Due minuti dopo s’arrestava. Depose il coltello aprì colle dita il tumore e trasse, con grande precauzione, un verme bianco, rotondo, grosso tutt’al più come uno spago forzino e non più lungo di sessanta centimetri.
— Cos’è? chiese Ahmed che seguiva attentamente quella strana operazione.
— Un filare di Medina, rispose il carnefice.
Ruppe in due lo schifoso animaletto che contorcevasi disperatamente, facendo uscire un liquido biancastro, spesso, granuloso, attaccaticcio. Egli lo raccolse in un guscio d’uovo di struzzo.
— Vedi, disse volgendosi verso Ahmed, questo liquido è formato da piccolissimi vermicelli, i quali non chiedono altro che di essere introdotti nel corpo di un uomo per ingrandire.
— Ebbene?
— Io verso questo liquido sulle ferite del prigioniero. I piccini troveranno alimento nel sangue, ingrandiranno e si costruiranno una specie di nicchia fra la pelle e la carne. Fra qualche mese quel povero diavolo diverrà spaventevole come il negro che tu hai dinanzi.
— E guarirà?
— No, deperirà lentamente, lentamente, a meno che non trovi un uomo tanto abile che gli estragga questi terribili succhiatori di sangue, il che non è probabile. Sarai ampiamente vendicato.
— È orribile.
— Dici spaventevole.
— Non monta, termina.
Il gigante si avvicinò ad Abd-el-Kerim, gli sollevò la pelle lacerata in diversi luoghi, e lasciò cadere goccia a goccia il liquido fatale che doveva ucciderlo,
— Ora, diss’egli, puoi darlo all’uomo che lo aspetta.
Ahmed con un gesto gli intimò di ritirarsi insieme al negro, poi tornò a battere le mani. La porta d’entrata si aprì e apparve il beduino ammantellato fino agli occhi.
Scorgendo Abd-el-Kerim a terra e in quello stato, la sua faccia si illuminò e un sorriso diabolico, un sorriso di feroce gioia, apparve sulle sue labbra.
— Mi sono vendicato, gli disse Ahmed con voce cupa. Ti abbandono il prigioniero e ricordati che se lo ammazzi te ne sarò grato.
— Grazie, Ahmed, rispose il beduino. So cosa devo fare di quest’uomo che odio con tutte le forze dell’anima mia.
Quattro guerrieri entrarono nel tugul, gettarono una tela sul corpo dell’infelice arabo e lo portarono via.