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— Ah! fe’ Ahmed con sottile ironia. Non comprendi adunque dove io miri?

— No...

— Te lo dirò io.

Tornò a sedersi ancor più cupo e più minaccioso di prima, saettando d’uno sguardo terribile l’infelice arabo terrorizzato. Stette alcuni istanti raccolto in sè stesso, come se meditasse, poi, con voce calma, marcando ogni parola, disse:

— Ti ricordi di Dhafar pascià?

— Perchè tale domanda?

— Ti ricordi di Hossanieh?

— Hossanieh! esclamò l’arabo diventando ancor più cinereo.

— Mi si disse che un giorno arrivò in quel campo...

— Chi?...

— Una donna!

— Non è vero! urlò Abd-el-Kerim.

Ahmed lo guardò in maniera strana.

— Sai di che donna intendo parlare? chiese egli divorando l’arabo con gli occhi.

— Io!... no!...

— Perchè allora ti sei affrettato a negare che una donna comparve a Hossanieh?

Abd-el-Kerim non rispose. Lo sventurato conobbe di essere perduto.

— Te lo dirò io, allora. Fu per allontanare l’accusa che gravita sul tuo capo.

— Ma quale, quale accusa? gridò il prigioniero.

— Di aver amato una donna che si chiama Fathma!

Abd-el-Kerim cacciò fuori un urlo d’angoscia e indietreggiò fino alla parete della capanna, coi capelli irti, gli occhi stravolti.

— Perchè quel grido? chiese Ahmed, il cui volto assunse una terribile espressione di ferocia e d’odio

— Grazia, Ahmed, balbettò lo sventurato.

— Ah! Tu mi chiedi grazia? Tu sei colpevole adunque? Tu hai amato quella donna adunque! Rispondi, sciagurato, rispondi!

— Ebbene.... sì, ho amato quella donna!