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— Rispondi alla interrogazioni che ti farò, se vuoi salvare la vita. Che hai fatto di Fathma? Dove si trova?
— Lasciami in pace...
— Abd-el-Kerim! gridò Ahmed gravemente. La morte ti sfiora colle sue nere ali. Rispondi: dove si trova Fathma?
— Ma non capisci che io l’ho perduta, che fui separato da lei a Hossanieh, che mi fu rapita?
— Da chi?
— Da un uomo che era mio rivale.
— Chi è quest’uomo?
— Un soldato un’anima dannata, un... S’arrestò agitando le dita calcinate e gemendo ancor più lugubremente. Un copioso sudore irrigavagli il volto e il petto gli si sollevava affannosamente.
— Dimmi, dov’è quest’uomo? gli chiese Ahmed in preda ad una esaltazione indicibile.
— Non lo so... credo che sia morto...
— Tu vuoi ingannarmi. Olà, carnefice, fa il tuo dovere.
Yòkara a quel comando impugnò un grosso staffile, un corbach di pelle d’ippopotamo, flessibile e insanguinato. Lo fece girare e fischiare attorno al capo, poi applicò un terribile colpo sul petto di Abd-el-Kerim, tracciando un segno violaceo.
L’infelice gettò un urlo strozzato, un urlo di dolore e si rovesciò contro il palo.
— E uno, contò Ahmed, Percuoti, percuoti, duro fino a che le carni siano lacerate. Allora vi introdurrai la morte.
Il carnefice, cieco istrumento del terribile profeta, si mise a sferrare rabbiosamente l’arabo che era di già svenuto. La pelle si coprì di solchi azzurrognoli, violacei, rossi, poi si lacerò.
Il sangue incominciò a scorrere abbondantemente giù per quell’inanimato corpo, formando in terra una larga pozza.
— Percuoti! percuoti! ripeteva ferocemente Ahmed.
E il carnefice percuoteva senza posa e senza pietà,