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— Mi sono vendicato, gli disse Ahmed con voce cupa. Ti abbandono il prigioniero e ricordati che se lo ammazzi te ne sarò grato.
— Grazie, Ahmed, rispose il beduino. So cosa devo fare di quest’uomo che odio con tutte le forze dell’anima mia.
Quattro guerrieri entrarono nel tugul, gettarono una tela sul corpo dell’infelice arabo e lo portarono via.
CAPITOLO VI. — Lo scièk Abù-el-Nèmr.
Era il dopo pranzo dell’ultimo giorno di luglio. Pel cielo correvano disordinatamente densi nuvoloni di una tinta lattea, spinti da un vento impetuosissimo e caldissimo. Alcuni goccioloni di pioggia tiepida cadevano pesantemente sulle tende e sui tugul del campo sudanese, e in lontananza lampeggiava e brontolava di tratto in tratto il tuono.
Le innumerevoli orde del Mahdi, secondo il solito, erano tutte in movimento, occupate ad esercitarsi coi cannoni, colle mitragliatrici e coi remington, tolti agli egiziani a Kasghill, od a destreggiarsi con finte scaramuccie, o a marciare per colonne o in quadrato o a operare ritirate e tentare assalti, o a costruire fortini, trincee, terrapieni o bastioni sotto la condotta dei loro sceicchi.
In mezzo al campo, sulla cima di una collinetta, se ne stava tutto solo un individuo che pareva non si occupasse affatto di quanto succedeva a lui d’intorno. Questo individuo era un beduino, quello stesso che aveva tradito Abd-el-Kerim.
Ammantellato accuratamente, egli passeggiava innanzi e indietro, colla testa china sul petto, la fronte aggrottata e gli occhi accesi da una cupa fiamma.
Di tratto in tratto arrestavasi, volgeva uno sguardo di fuoco verso le tempestose nubi e colla faccia alterata si chiedeva: