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252 | ATTO QUARTO |
Contro di don Riccardo scaricò mille ingiurie;
Poi si placò, si pose a scrivere un viglietto;
Dissemi che aspettassi, ed io son qui che aspetto.
Servitore. Aspettala a tuo grado, ch’io non la vo’ d’intorno.
Andai per un affare, al posto or fo ritorno.
Cecchino. Sono serrati ancora?
Servitore. Sì, v’è ancor la fanciulla.
Tenta di persuaderla, ma già non si fa nulla.
Cecchino. Per altro egli è un sistema, mi pare, inusitato,
Specialmente fra nobili. Mi son maravigliato
Sentir che don Riccardo, ch’è un cavalier prudente,
Volesse in tal incontro la giovine presente.
Servitore. È ver, doveva in prima concludere il contratto,
Poi chiamar la nipote; ma so perch’ei l’ha fatto.
Con un ch’è ricco e nobile vorrebbe accompagnarla.
Ma strano conoscendolo, non vuol precipitarla.
In prima egli ha voluto veder s’ella è contenta.
Acciò la poverella un di non se ne penta.
Oh, se così facessero i padri colle figlie,
Al mondo non vedrebbonsi cotante maraviglie.
Se amor facessse i sposi, sarebbon più contenti,
Nè tanti si vedrebbono più amici che parenti.
Cecchino. Ecco la mia padrona.
Servitore. Non vo’ mi veda in faccia.
Cecchino. Talora io me la godo.
Servitore. Sì, sì, buon pro ti faccia. (parte)
SCENA II.
Cecchino, poi donna Livia.
Quello ch’io talor soffro, non soffrirebbe un altro.
Ma se colle stranezze mi provoca e m’aizza,
Con qualche regaluccio mi medica la stizza.