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262 ATTO QUARTO

SCENA XI.

Il Marchese e detti.

Marchese. Eccomi a rivedervi, anche del zio a dispetto.

Livia. Lo zio non lo vorrebbe? che prosunzion! cospetto!
Marchese. Brava. Un po’ di riguardo m’avea fatto lasciare
In faccia di una donna l’usato intercalare.
Livia. Recagli da sedere. (a Cecchino)
Marchese.   No no, vo’ stare in pie.
Livia. Se piace a voi star ritto, per or non piace a me.
Marchese. Sedete.
Livia.   Sederò.
Marchese.   Sì, senza far parole.
In casa mia, signora, si fa quel che si vuole.
Livia. (Ci starei da regina.) (da sè)
Cecchino.   (Che cavalier garbato!
La padrona a suo dosso, affè, l’ha ritrovato.) (da sè)
Marchese. Per venir alle brevi, se il zio non ve l’ha detto.
Sappiate che per voi ho dell’amore in petto.
Livia. Posso crederlo poi?
Marchese.   Non mentono i miei pari.
Livia. Perchè non aggiungete gli usati intercalari?
Marchese. Oh, se vi dà piacere lo cospettar, senz’altro
Dirò cento cospetti, un più bello dell’altro.
Livia. Par che aggiungano forza al ragionar sincero.
Cecchino. (Che giovane garbata! che nobile pensiero!) (da sè)
Marchese. Della germana vostra, che stolida provai,
Voi siete più gentile, siete più bella assai.
E quel che più diletta, cospetto, il desir mio,
È che siete lunatica, come lo sono anch’io.
Livia. Questa espression per altro... (s’alza)
Marchese.   Dite pur; faccio il sordo.
Cecchino. (Ei siede, ed ella s’alza; oh, van bene d’accordo.) (da sè)
Livia. Questa espression, cospetto...
Marchese.   Sedete.