Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA.

Donna Berenice, poi Filippino.

Berenice. Che risposta mi rechi? parla, rispondi a me.

Filippino. I quattro cavalieri li ho trovati al caffè.
A tenor del comando ho l’imbasciata esposta,
Ed eccole a puntino di ognuno la risposta.
Disse don Isidoro, facendo una risata:
Ho piacer che madama si sia rasserenata.
Dille che l’amicizia fra noi non s’ha a dividere,
Che verrò quanto prima a riverirla e a ridere.
Berenice. Sta bene l’allegria, sta bene il riso e il gioco,
Ma proverò ben io di moderarlo un poco.
Filippino. Disse poi don Agapito, e avea la bocca piena:
Tornerò quanto prima, e starò seco a cena.
Berenice. Via, che dissero gli altri?

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Filippino.   Don Pippo un certo che

Disse, ch’io non capisco, del Libro del perchè;
Poi, che verrà, soggiunse l’ingegno peregrino,
Parlando non so bene se greco, o se latino.
Berenice. Bene bene, ch’ei venga; un dì mi comprometto
Di moderargli almeno un simile difetto.
Ed egli, frequentando la mia conversazione,
Di farsi men ridicolo mi avrà l’obbligazione.
Di persuader col tempo parmi di avere il dono.
E don Lucio che disse?
Filippino.   Oh, adesso viene il buono.
Il capo dimenando, battendo in terra il piede,
Disse: la tua padrona da lei più non mi vede.
Aspetto sulla piazza quei cavalieri arditi;
Vo’ battermi con tutti, vo’ che ne sian pentiti.
Che donna Berenice tralasci di cercarmi;
Dille che non ardisca nemmen di nominarmi;
Che un cavalier mio pari così non si strapazza:
E unir fece gridando i circoli di piazza.
Chi lo credea in duello, chi lo credea un insano,
E chi credea che il balsamo vendesse un ciarlatano.
Berenice. Non vuol venir?
Filippino.   No certo. L’ha detto e l’ha ridetto.
Berenice. Lo voglio a tutta forza, lo voglio a suo dispetto.
Gli scriverò una lettera. So quel che far conviene.
Filippino. Non ci verrà, signora.
Berenice.   E che sì, che ci viene?
Vo a stender quattro righe, scritte alla mia maniera.
Se lo ritrovi in piazza, l’aspetto innanzi sera. (parte)

SCENA II.

Filippino solo.

E una gran presunzione che la padrona ha in testa.

La stimo una gran donna, se mi fa veder questa.
Chi sa? non vorrei poi scommetter nè anche un pavolo.

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Certissimo ne sanno le donne più del diavolo.

Stiamo a veder la scena; la goderò io il primo.
Finalmente don Lucio grand’uomo io non lo stimo.
Ella che lo conosce, trovar puote un pretesto
Per obbligarlo ancora... Eccola; oh, ha fatto presto.

SCENA III.

Donna Berenice ed il suddetto.

Berenice. Portagli caldo caldo il mio viglietto in fretta,

E digli: la padrona una risposta aspetta
O in voce, o almeno in scritto. Attendo il tuo ritorno.
(Lo voglio, sì, lo voglio; e dentro a questo giorno).
(da sè, e parte)

SCENA IV.

Filippino solo.

Vado e ritorno subito. Oh son pur curioso

Di leggere il viglietto! dev’essere gustoso.
Il bollo è ancora fresco, si può dissigillare.
La padrona non vede. Mi vuò un po’ soddisfare.
(apre il viglietto, e legge)
Cavalier generoso. Principia molto bene:
Riparar l’onor vostro e l’onor mio conviene.
Dicesi per Milano ch’io v’abbia licenziato.
Sdegnando che vi siate amante dichiarato.
Ciò fa parlar di voi con derisione aperta,
Dicendo che don Lucio si sa che poco merta.
Vo’ far veder al mondo quanto vi apprezzo e stimo:
Oggi però vi prego di favorirmi il primo.
Se quel che dissi a tavola, parvi a ragione amaro,
Venite, e non temete, mi spiegherò più chiaro.
Accettate le scuse di un animo sincero.
L’onor vuol che torniate, se siete un cavaliero.

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Brava la mia padrona d’ogni malizia adorna!

L’ha colto nel suo debole; scommetto che ritorna.
Ecco unito il suggello. Porto la carta in fretta.
O che donna, o che donna! che testa maladetta! (parte)

SCENA V.

Don Agapito solo.

Chi è qua? non c’è nessuno? Camerier, servitori.

Che vuol dir? o che dormono, o che son tutti fuori.
Avanzar non mi voglio senza far l’imbasciata:
La signora non menta essere disgustata.
Fa pranzi che consolano. Ritrovar non si ponno
Conversazion sì belle. Ma mi par d’aver sonno;
Ho mangiato assai bene, e in verità mi sento
Il cibo dolcemente passar in nutrimento.
Giacchè mi trovo solo, e altro non ho che fare,
Posso su questa sedia provar di riposare. (siede)
Se dormissi un pochino, potrei riprender lena,
Per essere più franco al tempo della cena.
Oh che morbida sedia! Eh, di dormir non dubito.
Io soglio per costume addormentarmi subito.
(si addormenta bel bello)

SCENA VI.

Donna Berenice ed il suddetto addormentato.

Parmi di sentir gente. Lo staffier dov’è andato?

Don Agapito è qui? Zitto, ch’è addormentato.
Dorma pur, poverino, che ha di dormir ragione,
Se di quel che ha mangiato vuol far la digestione.
Prima che ritornassero don Claudio e Filiberto,
Vorrei che ci venisse don Lucio. Certo, certo,
Se il pensier non m’inganna, dev’essere piccato
Di far vedere al mondo che in casa è ritornato.
E se a parlargli arrivo, non ho più dubbio alcuno;
Saputo han mie parole convincere più d’uno.

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SCENA VII.

Don Isidoro e detti, conve sopra.

Isidoro. Eccomi pronto e lesto. (forte, e ridendo)

Berenice.   Zitto.
Isidoro.   Che cosa c’è?
Berenice. Don Agapito dorme.
Isidoro.   Dorma, che importa a me?
Quel matto di don Lucio vuol finir d’impazzire.
(come sopra)
Berenice. Ditemi, cos’è stato?
Agapito.   Oh! non si può dormire? (destandosi)
Berenice. Compatite. L’ho detto. Se riposar volete,
Là dentro in quella stanza letto ritroverete;
Poi vi risveglieremo.
Agapito.   Non vi prendete pena.
Basta che mi svegliate all’ora della cena, (insonnato parte)

SCENA VIII.

Donna Berenice e don Isidoro.

Isidoro. Un uom simile a questi al mondo non vi fu.

Egli è su questa terra un animal di più.
Berenice. Ciascuno ha il suo difetto, e compatir conviene.
Vi è in ciaschedun del male, vi è in ciaschedun del bene.
Isidoro. Fa quella faccia tetra venir malinconia.
Berenice. E a qualchedun dispiace la soverchia allegria.
Isidoro. Il mio temperamento di barattar non bramo.
Berenice. Amico, da noi stessi noi non ci conosciamo.
Isidoro. Oh oh, mi fate ridere. Andate di galoppo
Dell’ippocondria in cerca?
Berenice.   No, quel ch’è troppo, è troppo.
E un giorno il vostro ridere, con i trabalzi suoi,
Vi obbligherà di farvi comersazion da voi.
Isidoro. Perchè?

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Berenice. Perchè chi ride per onta e per dispetto,

Obbliga i galantuomini a perdergli il rispetto.
Le società civili sogliono conservarsi,
Allora che a vicenda si cerca uniformarsi;
E quando uno s’accorge che offende i suoi compagni,
Dee moderar lo scherzo, onde nessun si lagni.
Queste le leggi sono di buona società:
Ridere con misura, scherzar con civiltà.
Isidoro. Padrona mia garbata. (in atto di partire)
Berenice.   Con un’azion simile
Voi confessate adunque che siete un incivile.
Isidoro.   Io confessar tal cosa?
Berenice. Sì, voi lo confessate,
Se una lezione onesta di tollerar sdegnate.
Isidoro. Ma io vi parlo chiaro; non ho altro bene al mondo
Che rider, se ne ho voglia, e vivere giocondo.
Berenice. Rider non v’impedisco, quando vi sia il perchè.
Ridete con don Pippo, sfogatevi con me.
Con quelli che non l’amano, il ridere lasciate.
Fra noi da solo a sola farem delle risate.
Isidoro. Io vi sono obbligato di tali esibizioni,
Ma credete che manchino a me conversazioni?
Berenice. Quali conversazioni, don Isidoro mio?
Di quelle che oggi corrono, di quelle che dich’io;
Vi faran mille grazie le donne in sul mostaccio,
E poi dietro le spalle diran: che buffonaccio!
Stuzzicheranno a posta la gente a provocarvi
A ridere e a scherzare, affin di corbellarvi:
Certo procureranno d’avervi nel palchetto
Per disturbar la gente, per far qualche1 chiassetto;
E poi se qualcheduno si lagnerà di loro,
Diranno, è stato causa quel pazzo d’Isidoro.
Qui troverete un misto di serietà e di gioco,
In casa mia ciascuno può avere il proprio loco.
(I)

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Basta sia vicendevole la stima ed il rispetto,

Una felice Arcadia divenire il mio tetto.
E voi che per il brio, per le vivezze estimo,
Voi nei giocosi impegni sempre sarete il primo.
Isidoro. Signora, mi stringete sì forte i panni addosso,
Che forza è ch’io vi lodi, e ridere non posso.
Quello che avete detto, è tutto vero, il so.
Modererò il costume, o almen mi sforzerò.
Berenice. L’uomo fa quel che vuole, quando di far s’impegna.
Isidoro. L’uomo fa quel che deve, quando far ben s’ingegna.
Berenice. Bravissimo.
Isidoro.   Che dite? anch’io faccio il morale, (ridendo)
Posso ridere adesso, non ve n’avete a male.
Berenice. Quando siam fra di noi, ridete pure in pace.
Anch’io so stare allegra, e il ridere mi piace.
Isidoro. Andiamo nel giardino?
Berenice.   Sì bene, andiamo giù.
Isidoro. Subito, allegramente.
Berenice.   Facciam chi corre più.
Isidoro. Non vo’ che vi stanchiate; andiam, gioietta mia.
Viva chi vi vuol bene.
Berenice.   E viva l’allegria. (partono)

SCENA IX.

Don Lucio e Filippino.

Lucio. Ah, per il mio buon nome, che sofferir mi tocca!

Filippino. Meglio è che la risposta dia alla padrona a bocca.
Lucio. Dov’è?
Filippino.   Non so davvero.
Lucio.   Avrà gli amanti appresso.
Filippino. Che cosa vuol ch’io sappia? vede ch’io vengo adesso.
(parte)

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SCENA X.

Don Lucio, poi don Pippo.

Lucio. Io che la nobiltade di sostener procuro,

Non ho potuto alfine resistere al scongiuro.
Se di viltade alcuno vorrà rimproverarmi,
Con questo foglio in mano potrò giustificarmi.
Pippo. Oh oh, me ne rallegro, don Lucio; ben tornato.
Mi consolo con voi, che il caldo vi è passato.
Lucio. Non soffro che nessuno m’insulti e mi derida.
Pippo. È ver che contro due faceste una disfida?
Lucio. L’ho fatta, e la sostengo, e battermi son pronto,
Per riparar l’onore, per riparar l’affronto.
Pippo. Imparai dei duelli ogni arte ed ogni usanza
Nell’Amadis di Gaula, nei Reali di Franza.
Però mi maraviglio che qua siate venuto,
Prima di vendicare l’affronto ricevuto.
Lucio. Son cavalier d’onore, l’onte soffrir non soglio.
La ragion che mi guida, leggete in questo foglio.
(vuol dare il foglio a don Pippo)
Pippo. Ho studiato quel tanto che ad un par mio conviene;
Ma a dir il ver, lo scritto io non l’intendo bene.
Lucio. Dunque vi dirò a voce la ragion che mi pressa
Ritornar dalla dama...
Pippo.   Eccola qui ella stessa.

SCENA XI.

Donna Berenice e detti.

Berenice. Scusatemi, don Lucio, se attendere vi ho fatto.

Pippo. E a me nulla, signora?
Berenice.   Vuò mantenervi il patto.
(a don Pippo)
Quel libro che sapete, lo preparai testè,
Ho trovato per voi un ottimo perchè.

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Andate a ritrovare don Isidoro intanto.

Ei nel giardin vi aspetta. Fatelo rider tanto.
Poscia il perchè bellissimo di leggervi mi preme;
Quando saremo soli, lo leggeremo insieme.
Pippo. Benissimo, ho capito. Don Lucio, riverente.
Di già di quel negozio non m’importa niente.
(a don Lucio, e parte)

SCENA XII.

Donna Berenice e don Lucio.

Lucio. Voi mi badate poco, cara signora, e invano

Questo foglio m’invita.
Berenice.   Perchè tenerlo in mano?
Lucio. Per poter far constare la ragion che mi guida
A venir dove nacque il punto di disfida.
Berenice. Lasciate ch’io vi parli con vero amor sincero:
Voi siete poco cauto, e poco cavaliero.
Mostrar vorrete a quelli che forse non lo sanno,
Le beffe che di voi dai discoli si fanno?
Il testimon vorrete mostrar nel foglio espresso
Del disprezzo che serba il mondo di voi stesso?
Quel che là dentro ho scritto, a voi lo posso dire;
Non lo direi ad altri, a costo di morire.
Volano le parole, lo scritto ognor rimane,
E son di un foglio a vista tarde le scuse e vane.
Più di quanto fu detto di voi dal volgo insano,
Pregiudicar vi puote chi ha quella carta in mano.
E se talun con arte ve la rapisce un giorno,
E se girar si vede la bella carta intorno,
Quale ragione avrete contro un sì fatto imbroglio?
Arrossirete in volto. Datelo a me quel foglio.
(glielo leva di mano)
Note pericolose vadano col demonio. (lo straccia)
(Così dell’arte mia perito è il testimonio). (da sè)

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Lucio. Volea, pria di stracciarlo, concludere l’istoria.

Berenice. Eh, favellar possiamo, che l’ho tutto a memoria.
Lucio. Dunque di me si dice...
Berenice.   Superfluo è il replicarlo.
Di quel che già leggeste, con fondamento io parlo.
Or che da me tornaste, è ogni rival smentito:
Non resta che vedervi di nuovo stabilito.
Lucio. Qual condizion mi offrite, perchè in impegno io resti?
Berenice. Da me voi non avrete che giusti patti e onesti.
Lucio. A buone condizioni di accomodarmi assento.
Io fo due patti soli, voi fatene anche cento.
Il primo che don Claudio e che don Filiberto
In questa casa vostra non vengano più certo.
Ed accordato il primo, questo sarà il secondo:
Voglio che siate mia, quando cascasse il mondo.
Berenice. Due patti voi faceste, due ne vo’ fare anch’io.
Il primo, in casa mia vo’ fare a modo mio;
Ha da venir don Claudio, verrà don Filiberto,
Che son due cavalieri degnissimi, e di merto.
Secondo: di sposarmi parlar non vo’ sentire,
E tanto e tanto in casa don Lucio ha da venire.
Lucio. Io?
Berenice.   Sì, voi.
Lucio.   Con tai patti?
Berenice.   Con questi patti appunto.
Lucio. V’ingannate di grosso.
Berenice.   Or mi mettete al punto.
Lucio. Credete di don Pippo ch’io abbia l’intelletto?
Berenice. Don Pippo è un galantuomo, portategli rispetto.
Lucio. Tutti di me più degni.
Berenice.   Tutti egualmente io stimo.
E fra color ch’io venero, forse voi siete il primo.
Sì, don Lucio carissimo, avete un non so che,
Che mi obbliga all’estremo, e non so dir perchè.
Non so che non farei per dimostrarvi il cuore,

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Ma poi pensar dovete, ch’io son dama d’onore.

Cosa mi costerebbe il licenziar repente
Quei due che vi dispiacciono? Ve l’accerto, niente.
Pensate voi ch’io li ami? Lo dico fra di noi:
Per me non li trattengo, li trattengo per voi.
Lucio. Per me, che deggio farne?
Berenice.   Eh, lasciate ch’io dica.
Vedrete se vi sono sincerissima amica.
Spiacemi aver stracciato quel foglio, ma non preme:
I pezzi lacerati si ponno unire insieme.
Ma nemmeno nemmeno; la memoria ho felice,
La carta è lacerata, ma so quel ch’ella dice.
Caro don Lucio, il mondo v’invidia malamente,
Potete in certi luoghi andar difficilmente.
La nobiltà vi sfugge, le dame principali
(Compatite, di grazia) voglion trattar gli eguali:
E i loro cavalieri, per far la bella scena,
In grazia delle donne vi voltano la schiena.
Qui ritrovate un numero di cavalier stimati,
Ciascun coi suoi difetti, però tutti bennati;
In grazia mia vi soffre ciascuno volentieri,
Mangiate in compagnia, giocate ai tavolieri;
E quei che qui vi trattano, fan poi questo buon frutto,
Che in forza d’amicizia vi trattano per tutto.
Se di scacciarli tutti vi dessi or la parola.
Cosa fareste al mondo voi solo con me sola?
Nessun ci guarderebbe, ed io sarei forzata
Privarmi di don Lucio per essere trattata.
Ma il mio caro don Lucio tanto mi preme e tanto,
Che fargli degli amici vo’ procurarmi il vanto;
E vo’ che il mondo sappia, e vo’ che il mondo dica:
Sì, Berenice infatti è di don Lucio amica.
Lucio. Resto convinto appieno: il pensier vostro io stimo.
Berenice. (Tu non sarai a credermi nè l’ultimo, nè il primo).
Lucio. Ma perchè non potrebbesi aver tal compagnia,

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Ancor ch’io vi sposassi, ancor che foste mia?

Berenice. Trattar mi converrebbe il vostro parentado,
E dicon, perdonate, sian gente di contado;
E i cavalieri istessi che or vengono a onorarmi,
Avrebbono in tal caso riguardo a praticarmi.
Lucio. Mi date del villano così placidamente.
Berenice. Eh via, zitto, don Lucio, che nessun non ci sente.
Lucio. Ma se vo’ maritarmi, non l’ho da far per voi?2
Berenice. Aspetto a questo passo di rispondervi poi.
È un articolo questo, che voi sol non impegna.
Darò a ognun la risposta che la ragion m’insegna.
Lucio. Datela dunque.
Berenice.   E presto.
Lucio.   Quando l’avrò?
Berenice.   Sta sera.
Lucio. Siete una donna accorta.
Berenice.   Ma però son sincera.

SCENA XIII.

Filippino e detti.

Filippino. Viene don Filiberto.

Berenice.   Fallo aspettare un poco.
(Filippino parte)
Non è ben che vi trovi per ora in questo loco.
(a don Lucio)
Lucio. Perchè?
Berenice.   Bella domanda! siete nemici ancora.
Quando gli avrò parlato, vi vederete allora.
Oggi l’impegno è mio di far tutti felici.
In casa mia vi voglio tutti fratelli e amici.
E d’essere tenuta da tutti io goderò
Per sorella amorosa.

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Lucio.   E per consorte?

Berenice.   No.
(caricato fra la rabbia e lo scherzo)
Quegli altri nel giardino a ritrovar passate.
E quel ch’è stato è stato; più non si parli; andate.
Lucio. Di non avervi in sposa il dispiacer sopporto.
Ma son chi son, nè voglio che mi si faccia un torto.
(parte)

SCENA XIV.

Donna Berenice, poi Filippino.

Berenice. L’ho accomodata bene con questi facilmente.

Don Claudio sarà anch’egli, cred’io, condiscendente.
Difficile è quest’altro, più risoluto e sodo,
E ancor di persuaderlo non ho trovato il modo:
Ma studierò ben tanto, che mi verrà in pensiero.
Sottrarmi coi ripieghi per or fa di mestiero.
Hanno queste da essere le mire principali,
Far che sian tutti amici senza trattar sponsali.
Sei costì, Filippino? (verso la scena)
Filippino.   Eccomi, mia signora.
Berenice. Dov’è don Filiberto?
Filippino.   Non è salito ancora.
Berenice. Ne ho piacer. Quando viene, sta sempre alla portiera.
Vedrai che nelle mani terrò la tabacchiera.
Quando prendo tabacco, vien tosto immantinente
A dirmi qualche cosa: quel che ti viene in mente.
Filippino. Lasci pur far a me, che mi saprò ingegnare.
Berenice. Lo fo per certi fini. Basta; non ti pensare
Che vi sia qualche arcano.
Filippino.   Da ridere mi viene.
Io son uno, signora, che pensa sempre bene.
Dir mal della padrona non tentami il demonio.
Se mormoro, se parlo, Gamba è buon testimonio.

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SCENA XV.

Donna Berenice, poi don Filiberto, poi Filippino.

Berenice. Nol credo tanto schietto, conoscolo alla ciera.

Ma i nostri servitori son tutti a una maniera.
Ne abbiamo di bisogno, di lor convien fidarsi,
E se non sono i peggio3, è grazia da lodarsi.
Filiberto. Eccomi di ritorno.
Berenice.   E tanto siete stato?
Cosa dice mia madre?
Filiberto.   Don Claudio è ritornato?
Berenice. Non ancora.
Filiberto.   La vostra cortese genitrice
Brama di rivedervi per esser più felice.
Sta bene di salute, dalla vecchiaia in fuori,
E i vostri complimenti li accetta per favori.
Berenice. Anderò a visitarla. Grazie vi rendo intanto
Dell’incomodo preso.
Filiberto.   Buon servitor mi vanto.
Ma di già che siam soli, deh, se vi contentate,
Favelliamo sul serio.
Berenice.   Sì, mio signor, parlate.
Filiberto. Fatta ho la strada a piedi, son stanco, a dir il vero.
Berenice. Ehi, chi è di là? due sedie, (esce Filippino e reca le sedie)
Filiberto.   (Escir di pene io spero).
Berenice. (Se dichiararsi aspetta, or si lusinga invano).
(tira fuori la tabacchiera)
Filippino. (Affè, che ha la padrona la tabacchiera in mano).
(da sè, e parte)
Berenice. Che volevate dirmi?
Filiberto.   Da capo io tornerò
A dir quel che già dissi.
Berenice.   Quel che diceste il so.

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Filiberto. Una risposta certa a me più non si nieghi.

Berenice. Permettetemi prima, che di un favor vi preghi.
Filiberto. Disponetene pure.
Berenice.   Ma poi non mi mancate.
Filiberto. Con simile timore nell’onor m’insultate.
Berenice. Vo’ che torniate amici...
Filiberto.   Son di don Claudio amico.
Berenice. Lo so, non è di lui...
Filiberto.   Qualche novello intrico?
Berenice. Don Lucio...
Filiberto.   Ah, con colui...
Berenice.   Voi v’impegnaste a farlo.
Filiberto. È ver.
Berenice.   Sarete amici in grazia mia?
Filiberto.   Non parlo.
Berenice. L’uomo che non favella, non spiega i pensier suoi.
Filiberto. Sì, dite ben, lo stesso posso dir io di voi.
Finchè non vi spiegate sinceramente e schietto,
Raccogliere non posso quel che chiudete in petto.
Su, donna Berenice, ditemi apertamente
Sulle proposte nozze quel che chiudete in mente.
Di qua più non si parte senza un sì certo e chiaro,
Senza un no risoluto.
Berenice. (Prende tabacco.)
Filippino.   Signora, il calzolaro.
Filiberto. Che il diavolo sel porti.
Berenice.   Di’ che di fuori aspetti.
Filiberto. Va tu ed il calzolaro; che siate maledetti.
Filippino. (Filippino parte ridendo)
Berenice. Quali smanie son queste?
Filiberto.   Di grazia, compatite.
Da me vi liberate tosto che il ver mi dite.
Berenice. Il falso in vita mia non so d’averlo detto.
Stupisco che voi abbiate di me sì bel concetto!
Filiberto. Sarà difetto mio di non avervi inteso.

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Compatite, signora, un ch’è d’amore acceso.

Due parole vi chiedo; non parmi essere audace.
Berenice. Vo’ contentarvi alfine. Orsù, datevi pace.
Son pronta ad isvelarvi candidamente il cuore.
Voglio che siate certo... (prende tabacco)
Filippino.   Signora, è qui il sartore.
Filiberto. (Povero me!) (da sè)
Berenice.   Si fermi. Parlate, aspetterà, (a don Filiberto)
Non mi dà soggezione.
Filiberto.   Va via, per carità.
(a Filippino, che ridendo parte)
(Ride il briccon... Se giungo...) Seguitate, via, su.
Berenice. Che cosa vi diceva, non mi ricordo più.
Filiberto. Pronta, mi dicevate, ad isvelare il vero,
Voglio che siate certo...
Berenice.   Or mi ricordo, è vero.
Certo vi rendo, e dico, e lo protesto ancora...
(apre la tabacchiera)
Filiberto. Perchè tanto tabacco? vi farà mal, signora.
Berenice. Ma voi non crederete tutto quel ch’io dirò.
Filiberto. Colle prove alla mano tutto vi crederò.
Berenice. Colle prove alla mano? dunque è il parlar sospetto.
Filiberto. Ma finor che ho da credere, se nulla avete detto?
Berenice. Da voi posso sperare egual sincerità?
Filiberto. Del mio cuor siete certa.
Berenice.   Quai prove il cuor mi dà?
Filiberto. Comandate.
Berenice.   Don Lucio...
Filiberto.   Maladetto colui.
Datemi il mio congedo, se più vi cal di lui.
Berenice. Io congedarvi? ingrato!
Filiberto.   Vi domando perdono.
Berenice. Vi ricordate poco qual io fui, qual io sono.
Si vede ben che avete un cuor debole e fiacco.
Di reggere incapace... (apre la tabacchiera)

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Filiberto.   Non prendete tabacco.

(le ferma la mano)
Berenice. Un picciolo favore non mi accordar?...
Filippino.   Signora,
È venuto don Claudio.
Filiberto.   Vattene in tua malora.
(a Filippino)
Berenice. Mi fareste la scena di dir che non si avanzi?
L’onor mio nol consente. Fa pur ch’ei venga innanzi.
(Filippino parte)
Non mancherà poi tempo di dare un compimento
Al nostro mal inteso fatal ragionamento.
Filiberto. Non so che dir; direi tanto, se dir potessi,
Che arriverei parlando a dar fin negli eccessi.
Megli’è che non si parli; vi leverò d’imbroglio.
Berenice. Anzi si ha da parlare; ve lo comando, e voglio.
Filiberto. Ma quando?
Berenice.   Questa sera.
Filiberto.   Ma dove?
Berenice.   Appunto qui.
Filiberto. Voi mi fate impazzire.
Berenice.   Don Claudio eccolo qui.

SCENA XVI.

Don Claudio e detti.

Claudio. Recovi la risposta della cugina vostra,

Che ai generosi uffizi gratissima si mostra.
Spera poi di vedervi al nuziale invito.
Berenice. Obbligata, don Claudio. Siete così compito,
Che ardisco di pregarvi di un’altra grazia ancora.
Me la farete voi?
Claudio.   Che non farei, signora?
Berenice. Vorrei che con don Lucio tornaste in amistà.
Claudio. Se il comandate voi, non ho difficoltà.

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Berenice. Sentite? per amico non sdegna d’accettarlo.

E, voi me lo negate? (a don Filiberto)
Filiberto.   Ho detto di non farlo?
Berenice. Dunque il farete.
Filiberto.   Accordo.
Berenice.   Di lui tornate amico.
Filiberto. Bene.
Berenice.   Ditelo chiaro.
Filiberto.   Ma sì, ma sì vi dico.
Berenice. Tanto ancor non mi basta. Venite, se vi piace.
Filiberto. Dove?
Berenice.   Venite entrambi a far con lui la pace.
Claudio. Son pronto ad obbedirvi.
Berenice.   E voi, signor? (a don Filiberto)
Filiberto.   Nol nego.
Berenice. Andiamo, cavalieri, non comando, vi prego.
Ma siete sì gentili, lo so, col nostro sesso,
(li prende per mano)
Che i preghi ed i comandi sono con voi lo stesso.
(li tiene per la mano, e partono)

Fine dell’Atto Quarto.

Note

  1. Così l’ed. Zatta. Nell’ed. Pitteri si legge: per far dello chiassetto.
  2. Ed. Zatta: con voi?
  3. Ed. Zatta: E se non son peggior ecc.