Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA

Camera di donna Berenice.

Donna Berenice sola, poi Filippino.

Berenice. Son pur lieta e contenta. Mi par d’esser rinata,

Or che son dalla villa in Milan ritornata.
Dicono che in campagna si gode libertà?
V’è soggezione in villa molto più che in città.
Qui almen tratto chi voglio, rinchiusa nel mio tetto;
Deggio trattare in villa chi viene, a mio dispetto.
A conversar con donne mi viene il mal di core,
In villa non si vedono che donne a tutte l’ore.
Almen qui sono sola, se alcun viene a trovarmi,
Senza che vi sien donne che vengano a seccarmi.
Filippino. Signora.

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Berenice.   Cosa vuoi?

Filippino.   La di lei genitrice
Seco lei si consola del suo ritorno, e dice
Che sarà a riverirla alla sorella unita.
Berenice. Oh, di’ che non ci sono, che son di casa uscita.
Filippino. V’è un altro servitore con un’altra imbasciata.
Berenice. Chi lo manda?
Filippino.   Lo manda donn’Alba sua cognata.
Le dà parte, che sposo si è fatto il suo figliuolo.
Berenice. Non me n’importa un fico. Di’ che me ne consolo.
Filippino. La prega intervenire alla funzione usata.
Berenice. Digli che la ringrazio; che sono incomodata.
Filippino. Se dico un’altra cosa, la prego mi perdoni.
Son qui due cavalieri.
Berenice.   Vengano, son padroni.
Filippino. (Ho capito. Alle donne difficilmente inclina,
E tratta con più gusto la razza mascolina).
(da sè, indi parte)

SCENA II.

Donna Berenice sola.

Quand’era mio marito ancora fra’ viventi,

Volea ch’io praticassi le amiche e le parenti.
Ma sia costume usato, o mio speziale umore,
Non so d’avere avuta un’amica di core.
So che mi criticavano ogni atto, ogni parola.
Non vuò praticar donne; vuò viver da me sola.
È ver, sarà difficile fissare in casa mia
Un numero costante di buona compagnia,
Perchè questi signori si sogliono annoiare,
Se una donna per uno non han da vezzeggiare.
Ma darò lor tai spassi e tai divertimenti,
Che spero alle mie spese di renderli contenti.
Ho l’arte di conoscere d’ognun la inclinazione,
A ognun secondo il genio farò conversazione.

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Studierò di far sempre quel che gli amici alletta,

Purch’io non sia con donne a conversar costretta.

SCENA III.

Don Filiberto, don Claudio e la suddetta.

Filiberto. Eccomi qui, signora.

Berenice.   Bravo, don Filiberto,
Bravo, bravo, don Claudio.
Claudio.   Qual colpa, qual demerto,
Fe’ sì che dalla villa partir volesse sola,
Senza dire agli amici nemmeno una parola?
Filiberto. Perchè non avvisarci di tal risoluzione?
Berenice. Scusatemi di grazia; vi dirò la ragione.
Prima saper dovete, che sia nel ben, nel male,
Mai non consiglio alcuno.
Filiberto.   Mal, perdonate, male.
Far sempre di sua testa non è la miglior scuola.
Berenice. È ver, ma sono avvezza a consigliar me sola.
Così com’io diceva, pensando a mio talento,
Vidi che la campagna riuscivami un tormento;
E temendo gli amici mi avesser1 sconsigliata,
Senza dirlo a nessuno, sono in Milan tornata.
Filiberto. Stupì ciascuno in fatti.
Claudio.   Ciascun di ciò avvertito,
Dopo che voi partiste, si è dietro a voi partito.
Berenice. Faceste ben, vi lodo, e vi ringrazio ancora.
Gli altri dove son eglino?
Claudio.   Li rivedrete or ora.
Filiberto. Di saper, di vedervi, ciascun è curiosissimo.
Claudio. Fatto avete buon viaggio?
Berenice.   Un viaggio felicissimo.
Cotanto mi premeva partir da quel villaggio,
Che mi riuscir piacevoli gl’incomodi del viaggio.

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Filiberto. Eppur quei pochi giorni, ch’ebbi l’onor anch’io

Di villeggiar con voi, mi parve a parer mio
Che tanto si brillasse, e tanto si godesse,
Che più per esser lieti bramar non si potesse.
Claudio. Don Lucio, don Agapito, don Pippo ed Isidoro
Caratteri son tutti che vagliono un tesoro.
Uno vanaglorioso, un mesto ed un giocondo,
Un altro che fa il dotto, e non sa nulla al mondo,
Pare che espressamente uniti in compagnia
Fossero, per produrre lo spasso e l’allegria.
Berenice. Sì, dite ver, s’avrebbono goduti mille mondi.
Giorni goder potevansi lietissimi, giocondi,
Se state non ci fossero nel nostro vicinato
Tante signore donne a fare il sindicato.
Claudio. Non venivano anch’esse a ridere con noi?
Berenice. Veniano, sì signore, si divertiano; e poi?
E poi tornando a casa quest’era il loro uffizio,
Della conversazione dir male a precipizio.
Che dite della vedova che si scordò il marito?
Vi pare che in quest’anno fatt’abbia un bell’invito?
Come fa a mantenersi? l’entrate sue son note;
Crediam che in poco tempo consumerà la dote?
Talvolta in faccia mia vidi strisciarsi2 l’occhio
Aspasia con Celinda, e battersi il ginocchio.
Disse non so che cosa, e intesi la Contessa
A dir piano ad Eufemia, ch’io fo la dottoressa.
Parlano per invidia, lo so, non v’è che dire;
Ma sia quel che si voglia, non le posso soffrire.
Filiberto. Si prendono talvolta le cose in mala parte;
Talora un accidente si giudica per arte.
Berenice. Ecco le vostre solite contraddizioni eterne.
Vendere non mi lascio lucciole per lanterne.
Claudio. Ma torneran le amiche alla città fra poco.

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Dovrete rivederle in questo o in altro loco.

Berenice. Venire in casa mia niuna sarà sì ardita;
Ha da soffrir me sola chi è della mia partita.
Se voi, se altri si degnano venire ad onorarmi,
Di compagnia di donne non ha più da parlarmi.
Filiberto. Si ha da servir voi sola?
Berenice.   Sì, questa è la mia brama.
Filiberto. E in quanti s’ha a dividere la grazia di Madama?
Berenice. Distinguere conviene. Altro è conversazione,
Altro è quel che si chiama impegno di passione.
Spero nel primo caso non disgustare alcuno;
Nel secondo può darsi ch’io mi consacri ad uno.
(guardando con arte tutti due)
Claudio. Sarà ben fortunato chi avrà tal cuore in dono.
Filiberto. Se troppo mi avanzassi, domandovi perdono.
Non chiederò chi sia l’avventuroso oggetto,
Bramo saper soltanto, se già l’avete in petto.
Berenice. Forse sì, e forse no.
Filiberto.   Questo è un non dir niente.
Claudio. Anzi mi fa in quel forse pensar diversamente.
Guardate ove mi guida il cuor coi dubbi suoi:
Creder mi fa che in petto rinchiuda uno di noi.
Berenice. (Oh, s’inganna davvero). (da sè)
Filiberto.   Di noi chi avrà tal merto?
Berenice. Vorreste saper troppo, caro don Filiberto.
Sentite, in casa mia tutti vi bramo eguali;
Non voglio che vi siano nemici, nè rivali.
Non vuò che alle mie spalle si fabbrichi un romanzo.
Oggi vi prego uniti di favorirmi a pranzo.
Poi giocheremo un poco, poscia in carrozza a spasso,
O andremo nel giardino a fare un po’ di chiasso.
La sera alla commedia tutti nel mio palchetto;
Ma voglio che ci stiate sin l’ultimo balletto.
Non voglio che si giri qua e là dalle signore;
Quando che si vien meco, non si va a far l’amore.

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Parto per un momento. Or or ritorno qua.

Ho un affar che mi preme; vi lascio in libertà.
(parte)

SCENA IV.

Don Filiberto e don Claudio.

Filiberto. Che dite voi, don Claudio, del suo bizzarro umore?

Claudio. Circa alla distinzione, che vi predice il cuore?
Filiberto. So che la distinzione di donna Berenice
Capace è un onest’uomo di rendere felice.
Ma in mezzo a tanti e tanti difficile è acquistarla,
Ed io non mi lusingo ancor di meritarla.
Claudio. Corriam la nostra lancia. Non siete voi capace
D’attendere l’evento, e tollerarlo in pace?
Filiberto. Io sono un uom sincero. Quel che ho nel core, ho in bocca.
Tolleranza in amore parmi importuna e sciocca.
Claudio. Oh, come mai fra gli uomini il pensamento varia:
Tolleranza in amore a me par necessaria.
Fondo la mia ragione sovr’un principio certo:
Per esser bene amato, conviene acquistar merto;
E merto non acquista con donna d’amor degna,
Chi a qualche tolleranza l’affetto non impegna.
Filiberto. Falso principio è questo. Un’alma tollerante
O mostra d’esser vile, o d’esser poco amante.
Chi ben ama, è impaziente. Ogni rival paventa.
Di un forse mal inteso il cor non si contenta.
Ogni amator fedele amor fa sospettoso.
Claudio. Fa ingiuria alla sua dama un amator geloso,
L’offende chi la carica di un simile strapazzo.
Filiberto. E chi di lei si fida soverchiamente, è un pazzo.
Claudio. Sfido l’intolleranza che voi nutrite in petto.
Filiberto. A tollerar seguite. Io la disfida accetto.
Claudio. Non apprendeste ancora, quanto trionfi più
Sul cor di bella donna la lunga servitù.

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Filiberto. Anzi appresi al contrario, che quanto più servite

Sono da noi, si mirano andar più insuperbite.
Claudio. Ma la superbia istessa, quando adorar si vedono,
Fa che al più fido amante tutto l’amor concedono.
Filiberto. Oh che pensar ridicolo! anzi la donna è avvezza
Cercar di farsi amare da quel che la disprezza.
Claudio. Alle discrete donne di ciò voglio appellarmi.
Filiberto. Trovate una discreta, e lascio giudicarmi.
Claudio. Qui l’onor delle donne m’arma a ragione il petto.
Filiberto. Voi mi sfidate a prova; io la disfida accetto.

SCENA V.

Filippino e detti.

Filippino. Signori, la padrona siede alla tavoletta.

La loro compagnia con desiderio aspetta.
Filiberto. Andiam.
Claudio.   Non dirò nulla, per timor che le spiaccia,
Della questione nostra.
Filiberto.   La dirò ad essa in faccia.
Non ho rossore a dirle che a femmina non credo
Un forse sospettoso, qualor di più non vedo.
Così s’ella mi apprezza, mi mostra il volto umano;
Se finge, e non mi cura, non mi lusingo in vano. (parte)
Claudio. Ad una meta istessa sembra ch’amor ne porte;
Egli i suoi passi accelera, io vo di lui men forte.
Ma può inciampar chi corre; dura chi pian cammina.
E nella dubbia impresa vedrem chi l’indovina, (parte)

SCENA VI.

Filippino, poi Gamba.

Filippino. Dunque la mia padrona ha stabilito adesso

Non voler più trattare con gente del suo sesso.
È ver che non è brutta, è ver che non è vecchia;
Ma quattro o cinque cani stan male ad un’orecchia.
Gamba. Oh Filippino!

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Filippino.   Oh Gamba! tu pur giunto in città?

Gamba. Son qui col mio padrone.
Filippino.   Il tuo padron che fa?
Gamba. È partito con Lucio, cogli altri amici uniti,
Di villa, poco dopo che voi foste partiti.
Oh se sentissi, amico, quel che colà si dice
Nelle conversazioni di donna Berenice!
Tal partenza improvvisa diede da dir sul sodo.
Interpretar le donne la vogliono a lor modo.
Chi dice, è innamorata; chi aggiunge, ed è gelosa.
Chi dice: non ha merito, per questo è invidiosa.
Chi crede che in campagna finiti abbia i danari,
E sola sia in Milano venuta a far lunari.
Filippino. E in città, che ti credi abbian di lei parlato?
Dicono: s’è tornata, qualche gran caso è stato.
Chi dice, avrà perduto tutti i quattrini al gioco.
Chi dice, i villeggianti l’avran trattata poco.
Chi dice, or che il gran mondo sen sta in villeggiatura,
Venuta è alla cittade a far la sua figura.
Gamba. Si può saper la causa che la fe’ ritornare?
Filippino. Io credo di saperla, ma non vuò mormorare.
Don Claudio lo conosci, don Filiberto ancora.
Gamba. Sì, li conosco.
Filippino.   Ehi, senti. Son dietro alla signora.
Un col pettine in mano, l’altro colla guantiera.
Chi fa da parrucchiere, chi fa da cameriera.
Ma non vo’ mormorare.
Gamba.   Sei un ragazzo onesto.
Filippino. Vien la padrona. Ehi, senti. Doman ti dirò il resto.

SCENA VII.

Donna Berenice e detti.

Berenice. Tu pur sei ritornato?

Gamba.   Signora, il mio padrone
Vorrebbe riverirla, se gli dà permissione.

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Berenice. A don Lucio dirai, ch’oggi l’aspetto qui,

Un’ora o poco più sonato il mezzodì.
Gamba. Dunque a pranzo?
Berenice.   S’intende.
Gamba.   Don Pippo eravi seco.
Berenice. Digli che con don Pippo l’aspetto a pranzar meco.
Gamba. Sì signora.
Berenice.   Raccontami: di mia risoluzione
In villa cosa dissero quelle buone persone?
Gamba. Certo, signora mia, il ver dirlo conviene.
Ha detto ciascheduno che voi faceste bene,
Che siete una signora benissimo allevata,
Che gli affari di casa vi hanno in città chiamata,
Che siete dagli spassi avvezza a star lontana,
E che faceste bene partire alla romana. (parte)
Berenice. Gamba è un furbo, è egli vero?
Filippino.   Oibò, sull’onor mio,
Egli è un giovin dabbene, tale e quale son io.
Anche i vicini nostri han detto ch’è un indizio,
Questo ritorno vostro, di donna di giudizio.
E dopo voi venendo quei cavalieri istessi,
Han detto: la signora avrà degl’interessi.
Gamba ed io certamente siam due persone schiette.
Abbiam, ve lo protesto, due bocche benedette. (parte)

SCENA VIII.

Donna Berenice, poi Filippino.

Berenice. Li credo due birboni di prima qualità.

Chi sa che cosa han detto in villa ed in città?
Ma ciò poco mi preme: son vedova, son sola;
Nessuno mi comanda; ciò basta e mi consola.
Vuò fare a queste donne vedere a lor dispetto,
Se vincere la posso allor che mi ci metto.
Una conversazione non voglio che ci sia
In tutta la cittade compagna della mia.

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E mantenerla io voglio sola senz’altre donne.

Che fan certe signore? Stan lì come colonne;
Non sanno che giocare, dir male, e far l’amore;
Per incantar degli uomini vi vuol spirito e cuore.
Quei due si son scoperti rivali innamorati,
Ma li terrò mai sempre sospesi ed obbligati.
Gridi don Filiberto che vuole esser sicuro;
Alla passion dee stare finchè ne ho voglia, il giuro.
Don Claudio soffra in pace modesto, sofferente,
E aspetti quanto vuole, non otterrà mai niente.
Sono ambidue partiti con tal lusinga interna,
Ma in me viverà sempre l’indifferenza eterna.
Se mi dichiaro ad uno, perdo dell’opra i frutti;
Il mio cuor per nessuno, la grazia mia per tutti.
Filippino. Due visite, signora.
Berenice.   Si sanno i nomi loro?
Filippino. Don Agapito l’uno, l’altro don Isidoro. (parte)

SCENA IX.

Donna Berenice, don Isidoro, poi Agapito.

Berenice. Come si sono uniti due di sì strano umore?

Uno allegro, un patetico; un ride, e l’altro more.
Esser della partita però voglio obbligarli,
E per averli amici studiar di secondarli.
Isidoro. Oh donna Berenice! (allegro sempre)
Berenice.   Son serva. (allegra)
Isidoro.   Riverente,
Eccoci qui con voi per stare allegramente.
Berenice. Allegri, allegri pure, che non si pianga mai.
Isidoro. Finchè si può, si rida, e non si pensi a guai.
Berenice. Serva di don Agapito.
Agapito.   Servitore divoto.
Berenice. Che avete che vi turba?
Agapito.   Il mio stil non vi è noto?

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Sto bene, grazie al cielo, non mi sento alcun male,

Ma sono un po’ patetico così per naturale.
Berenice. Tutti nascono al mondo col suo temperamento, (patetica)
Isidoro. Io voglio rider certo.
Berenice.   Chi ride, ha il cuor contento.
Sediamo: chi è di là?
Isidoro.   Lasciate, farò io.
(prende due sedie, una per lui, una per Berenice)
Berenice. Volete ch’io vi serva, don Agapito mio? (patetica)
Agapito. Eh, prenderò la sedia. (va a prenderla lentamente)
Berenice.   Sì, se così volete. (patetica)
Isidoro. Discorriamola un poco in allegria. Sedete.
(a Berenice, e siedono)
Berenice. Dite, alla mia partenza si fe’ verun schiamazzo?
Isidoro. Quando siete partita, io ho riso come un pazzo.
Berenice. Partii senza dir nulla.
Isidoro.   Bravissima.
Berenice.   Scusate.
Isidoro. Oh, quanto che mi piacciono le belle improvvisate!
Agapito. (A tempo a tempo reca innanzi la sua sedia, e si pone a sedere colla solita patetichezza, senza dir niente.)
Isidoro. Che son le cerimonie? tutte caricature. (ridendo)
Berenice. Compatite di grazia. (a don Agapito)
Agapito.   No. Servitevi pure.
Berenice. Quando io mi son partita, voi che diceste, in grazia?
(a don Agapito)
Agapito. Dissi che si poteva soffrir la malagrazia.
Berenice. Dunque mi condannaste.
Agapito.   Io poche volte approvo.
Berenice. Ne anche le cose buone?
Agapito.   Buone? se non ne trovo.
Berenice. In fatti anch’io nel mondo niente di buon vi veggio.
Agapito. Il mondo? oh, questo mondo va pur di male in peggio.
Isidoro. Ma che si fa? si piange? Eh, stiamo allegramente.
Agapito. Parlate pur con lui, che non m’importa niente.

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Tanto sto da me solo.

Berenice.   Che dite? non consola?
(a don Isidoro con ironia, di don Agapito)
Isidoro. Sta le giornate intere senza mai dir parola.
Io, se non parlo e rido, mi sento venir male.
Berenice. Oh, l’allegria di cuore certo è un gran capitale.
Isidoro. Su via, cosa facciamo per divertirci un poco?
Berenice. Volete che giochiamo?
Isidoro.   A cosa serve il gioco?
Allegria non la chiamo star fitti3 al tavolino.
Andiamo a passeggiare; andiamo nel giardino.
Giochiamo a volantino, ovvero al bilbocchè.
Cerchiamo un suonatore, balliamo un minuè.
Berenice. Tutto quel che volete, (allegra) Spiacemi solamente
Pel signor don Agapito. (patetica)
Agapito.   Non ci4 penso niente.
Lasciatemi pur solo, che tanto io ne ho piacere.
Berenice. Andiamo a passeggiare.
Agapito.   Io sto bene a sedere.
Berenice. Se volete sedere senz’altra compagnia,
Potete divertirvi, leggendo in libreria.
Agapito. Io non leggo.
Berenice.   Suonate?
Agapito.   Oibò.
Berenice.   Che inclinazione
Avete mai?
Agapito.   Mi piace star in conversazione.
Berenice. Senza parlar?
Agapito.   Che importa? ascolto, osservo, e noto.
Isidoro. Eh, andiamo. (a don Agapito, ridendo)
Agapito.   Non mi movo, se viene il terremoto.
Berenice. Per fare una finezza a me, voi non verrete?
Via, caro don Agapito, so che gentil voi siete.

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Ad una donna alfine, che vi rispetta e prega,

Che in cortesia vel chiede, la grazia non si nega.
Agapito. (s’alza patetico, senza parlare)
Berenice. Bravo.
Isidoro.   Bravo davvero, l’amico è un omenone. (ridendo)
Agapito. Qual motivo di ridere trovate in ciò? buffone.
(a don Isidoro, e serioso parte)
Berenice. Andiam, che non si sdegni.
Isidoro.   Va in collera per niente.
Eh, che si rida; andiamo.
Berenice.   Andiamo allegramente.
(partono)

Fine dell’Atto Primo.

Note

  1. Nell’ed. Zatta e in altre si legge il verso così: E temendo d’esser forse da altri sconsigliata ecc.
  2. Così l’ed. Zatta. L’ed. Pitteri, striccarsi.
  3. Ed. Zatta: star zitti ecc.
  4. Ed. Zatta: Io non ci penso ecc.