Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Don Lucio, poi Filippino.

Lucio. Chi è di là? c’è nessuno?

Filippino.   Servitore umilissimo
Del signore don Lucio, mio padrone illustrissimo.
Lucio. C’è la padrona in casa?
Filippino.   Illustrissimo sì.
Lucio. Bramo di riverirla.
Filippino.   Può trattenersi qui.
Vado a avvisarla subito.
Lucio.   Anderò io da lei.
Filippino. Mi perdoni, illustrissimo, non la consiglierei.
Lucio. Perchè?
Filippino.   Perchè potrebbe... vede ben... la signora..

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Essere per esempio... non mi capisce ancora?

Lucio. Bene, bene, va tosto; di’ che la sto aspettando.
Filippino. Servo di vossustrissima. A lei mi raccomando, (parte)

SCENA II.

Don Lucio, poi Isidoro.

Lucio. Costui non mi dispiace; sa la creanza almeno.

Veggo che tutto il mondo di malcreati è pieno.
Molti negan di darmi il titol che mi tocca,
Altri dell’illustrissimo mi danno a mezza bocca.
Sono tre anni e più, che nobile son fatto,
Che colla nobiltà gioco, converso e tratto,
E l’ignorante volgo audace, invidiosissimo,
Nega il più delle volte di darmi l’illustrissimo.
Isidoro. Schiavo, amico. (ridendo)
Lucio.   Divoto.
Isidoro.   Vado, e torno repente.
Cospetto! vuò che stiamo tutt’oggi allegramente.
Noi pranzeremo insieme da donna Berenice.
Se in compagnia si mangia, mi par d’esser felice.
Brindisi alla salute del bevitor più bravo;
E che si mangi e goda, e che si beva, e schiavo.
(parte)

SCENA III.

Don Lucio, poi don Agapito.

Lucio. Una volta ancor io brillava in società.

Ma dopo ch’io son nobile, mi ho posto in gravità.
Non vuò sedere a tavola vicino a questo pazzo,
Per non soffrir ch’ei m’abbia a dir qualche strapazzo.
I scherzi delle tavole, è ver, son buoni e bei,
Ma devesi rispetto portare ai pari miei.
Agapito. (Saluta un poco don Lucio senza parlare, camminando.)

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Lucio. Vi saluto, signore. Voi pure in questo loco?

Agapito. Venni dalla signora per divertirla un poco. (patetico)
Lucio. (L’avrà ben divertita). Ed or volete andare?
Agapito. Vado poco lontano. Tornerò a desinare.
Lucio. Voi pur siete invitato?
Agapito.   Sicuro; e perchè no?
Non mangio come gli altri?
Lucio.   E più degli altri, il so.
Ma so che l’allegria voi non avete a grado.
Agapito. Io mangio nel mio piatto, ed a nessuno abbado. (parte)

SCENA IV.

Don Lucio, poi donna Berenice.

Lucio. Eccolo il malcreato, parte così alla muta;

Va via per la sua strada, e nemmen mi saluta.
Non lo voglio vicino costui quando si pranza;
Capace egli sarebbe d’usarmi un’increanza.
Berenice. Compatite, don Lucio, s’io qui non venni in prima;
Noi feci per mancanza di rispetto, di stima.
Voi mi compatirete, cavalier generoso.
(Incensarlo conviene quest’uom vanaglorioso), (da sè)
Lucio. La vostra gentilezza mi obbliga estremamente.
Voi siete una signora dall’altre differente.
Soglion trattar le donne sovente con disprezzo;
Ma a certe scioccherie don Lucio non è avvezzo.
Si puote aver in petto della parzialità;
Ma è cosa che sta bene trattar con nobiltà.
Berenice. Odio anch’io quei vivaci bellissimi talenti,
Che han tutto il loro merito nel far gl’impertinenti.
Bella cosa il vedere la femmina ben nata
Coi giovani, coi vecchi a far la spiritata!
Dare un urlone a questo, un pizzicotto a quello,
Far le preziose al brutto, far le civette al bello;

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E intendono di esigere affetti e convenienze

A suono di disprezzi, a suon d’impertinenze.
Lucio. Oh, io ve lo protesto, non soffrirei d’intorno
Una indiscreta simile nemmeno un solo giorno.
Berenice. Tutti, signor, non pensano come pensate voi.
Don Lucio è cavaliere: conosce i dritti suoi.
Lucio. (Si pavoneggia.)
Berenice. Da me si fa giustizia; e se mi onorerete,
Fra quanti mi frequentano, il vostro luogo avrete.
Lucio. Appunto son venuto per tempo a incomodarvi
Pria dell’ora appuntata; prima per ringraziarvi
Dell’onor che mi fate di esservi commensale,
Poi per saper se gli ospiti sono di grado eguale.
Berenice. Oh signor, perdonate, al mio dover non manco;
Non esporrei don Lucio d’un ignobile al fianco.
Lucio. Dirò, non è ch’io sdegni pranzar coi cittadini,
Coi dottor, coi mercanti, se stan nei lor confini;
Ma trovansi di quelli che prendonsi licenza
Di trattar coi miei pari con troppa confidenza.
Voglio sfuggir gl’impegni, perciò v’interrogai.
Berenice. Altri che cavalieri da me non vengon mai.
Lucio. Io tollerar non posso quelle conversazioni,
Ove i plebei si ammettono con titol di buffoni.
Costoro impunemente, senza temer pericolo,
Fino il padron di casa por sogliono in ridicolo.
Berenice. Voi avete pensieri sublimi e ragionati.
Così parlano gli uomini che son bene allevati.
Lucio. E se averò figlioli, allor ch’io mi mariti,
Saran colle mie massime nell’animo nutriti.
Berenice. Pensate di accasarvi?
Lucio.   La convenienza il chiede.
Al feudo che mi onora, vuò provveder l’erede.
Berenice. Lo trovaste il partito?
Lucio.   Ancor non lo trovai.
Berenice. Caro signor don Lucio, voi meritate assai.

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Sarà cosa difficile trovare un parentado,

Che uguagli il vostro merito, e che vi torni a grado.
Lucio. Vi dirò, per parlarvi con tutta confidenza,
Vorrei una che avesse il titol d’eccellenza.
Col grado della moglie unito al grado mio,
Avrei più facilmente dell’eccellenza anch’io.
Berenice. Permettete che dicavi, signor, fra voi e me
Una cosa verissima. Già qui nessuno c’è.
Nobile siete certo, siete garbato, è vero,
Ma nato voi non siete figliuol d’un cavaliero.
E il fanatismo è invalso, in chi nobile è nato,
Che il sangue si consideri dal padre e dal casato.
Trattando in certe case, signor, chi vi assicura,
Che in campo non si metta di voi cotal freddura?
Quei che non posson spendere, come potete voi,
Ognor pongono in vista il sangue degli eroi;
Trattar non vi consiglio plebei nati dal fango,
Ma con persone nobili così di mezzo rango.
Lucio. Che? degno non son io d’ogni conversazione?
Berenice. Sì, degnissimo siete; avete ogni ragione.
Ma pria di esser la coda di un corpo assai maggiore,
È meglio esser il capo d’un popolo minore.
Lucio. Non dite male in questo. E chi trattar dovria?
Berenice. Signor, siete padrone ogni or di casa mia.
Lucio. Sì, vi sono obbligato; con voi verrò a spassarmi.
Ma ve l’ho detto ancora, io penso a maritarmi.
Berenice. Lo volete far presto?
Lucio.   Più presto che potrò.
Berenice. Non vorrete una vedova?
Lucio.   Vedova? perchè no?
Voi, donna Berenice, parlando colla stessa
Confidenza, con cui meco vi siete espressa,
Credo che non sareste per me tristo partito.
Berenice. D’essere vostra moglie però non mi ho esibito.
Lucio. Mi credereste indegno?

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Berenice.   Oh signor, cosa dice?

Un cavalier suo pari? sarei troppo felice.
Lucio. Dunque risoluzione.
Berenice.   Ne parlerem fra poco.
Intanto non pensate d’andare in altro loco.
La mia conversazione dev’essere la sola
Ch’è da voi frequentata.
Lucio.   Vi do la mia parola.
Berenice. (Eccolo anch’ei fissato con tal speranza in petto), (da sè)
Lucio. (Almeno avrò una moglie che ha per me del rispetto).

SCENA V.

Filippino e detti.

Filippino. Signora, è qui don Pippo.

Berenice.   Venga, se l’accordate.
(a don Lucio)
Lucio. L’ignorante m’annoia; ritornerò, scusate.
Berenice. Egli è al pranzo invitato.
Lucio.   Lo so, me ne dispiace.
È nato bene anch’egli, ma il suo stil non mi piace.
Vuol far l’uomo saccente, ed è un ver babbuino.
A tavola, badate, io non lo vo’ vicino.
Berenice. A un cavalier sì degno sceglier io lascio il posto.
Lucio. (Oh che compita donna! ) Ritornerò ben tosto.
(s’inchina, e parte)

SCENA VI.

Donna Berenice, Filippino, poi don Pippo.

Berenice. Fa che venga don Pippo.

Filippino.   Eccol ch’ei viene innanti.
(Ecco il vero esemplare degli uomini ignoranti). (da sè)
Berenice. Se vincere vo’ il punto, che m’ho fissato in mente,
Con tutti usar convienmi uno stil differente.

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Evvi una cosa sola ch’eguale a ognun mi fa,

Tutti mi rendon lacci, e sono in libertà.
Pippo. Eccomi qui, signora; ma questa non mi pare,
Sia detto per non detto, l’ora del desinare.
Berenice. Perchè?
Pippo.   Perchè i Romani, ch’erano genti dotte,
Solevano mangiare verso un’ora di notte.
Berenice. Voi siete bene istrutto dunque del stile antico.
Gran bello studio è questo!
Pippo.   Siete del studio amante?
Berenice. Io per le belle lettere son pazza delirante.
Pippo. Certo le belle lettere sono un studio assai bello.
In materia di lettere, io scrivo in stampatello.
Ho una raccolta in casa di medaglie bellissime,
E di monete ancora, con lettere grandissime.
Berenice. Questa è la beltà vera, visibile e palpabile,
E non certe anticaglie d’un prezzo immaginabile.
Nelle lucerne antiche spendon tanti quattrini.
Pippo. Io ho una lucerna in casa, nuova, con tre stoppini.
Berenice. So ancor che voi avete una gran libreria.
Pippo. Può esser che di meglio al mondo non ci sia.
Ho speso in dieci anni, non son caricature,
Più di sessanta scudi in tante legature.
Berenice. Cosa avete di bello?
Pippo.   Son tanti i libri miei...
Se me li ricordassi, quasi ve li direi.
Aspettate: due tomi avrò del Caloandro,
Averò quasi tutta la Vita d’Alessandro;
Paris e Vienna certo, i Reali di Franza,
Il Guerrino meschino, le Femmine all’usanza,
Dieci o dodeci tomi del Giornale Olandese.
Ho sedici commedie tradotte dal francese;
Il libro delle Poste per viaggiare il mondo;
Un libro che ha per titolo... mi pare, il Mappamondo;
Due o tre Calepini, due o tre dizionari,

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Una serie perfetta di trentadue lunari;

In specie un almanacco che il più sicuro e dotto,
E un libro per trovare i numeri del lotto.
Berenice. Tutte cose sceltissime da trarne buoni frutti.
Pippo. È ver, ma non son cose che le intendano tutti.
Voi ne avete dei libri?
Berenice.   Cose da trar sul fuoco.
Ho l’arte, per esempio, che insegna a far il cuoco.
Pippo. Non è cattivo libro.
Berenice.   Ho nello studio mio
L’arte di far danari.
Pippo.   Credo d’averlo anch’io.
Berenice. Ho una raccolta intera di tutte le canzoni
Uscite da ventanni.
Pippo.   Questi son libri buoni.
Berenice. Li tengo lì per comodo, se vengon forestieri.
Pippo. Dopo aver desinato, leggerò volentieri.
Infatti andando intorno a tante signorine,
Non trovo che romanzi, sonetti e canzoncine.
Berenice. Dovete d’ora innanti venir sempre da me,
E leggeremo insieme il Libro del perchè.
Pippo. Questo libro l’avete?
Berenice.   L’ho, ma il tengo serrato.
Pippo. Lo vedrò volentieri. Oh, quanto l’ho cercato!
Vi saran, mi figuro, tutti i perchè del mondo.
Berenice. Certo.
Pippo.   Perchè la luna faccia ogni mese il tondo?
Berenice. Anche questo.
Pippo.   Saravvi il perchè, mi figuro,
Il latte ch’è sì tenero, faccia il formaggio duro.
Berenice. Vi è tutto in questo libro.
Pippo.   Vo’ veder se ritrovo
Il perchè le galline cantino, fatto l’uovo.

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SCENA VII.

Filippino e detti.

Filippino. Viene don Filiberto.

Berenice.   Venga pure, è padrone.
Filippino. Senta (dice che brama parlar da solo a sola).
(piano a Berenice)
Berenice. (Digli che aspetti un poco). (piano a Filippino)
Filippino.   Subito lo consola.
(da sè, indi parte)
Berenice. Vedeste il mio giardino? (a don Pippo)
Pippo.   Non credo, non mi pare.
Berenice. Fino all’ora del pranzo andate a passeggiare.
Vedrete, vel protesto, un vago giardinetto.
Pippo. Eh, di queste freddure io non me ne diletto.
Berenice. Ho dei fiori, ho dei frutti; fate quel ch’io vi dico.
Pippo. E dei fiori e dei frutti non me n’importa un fico.
Berenice. Fatevi dar un libro di là, dal cameriere.
Pippo. Non vien don Filiberto? Mettiamoci a sedere.
Berenice. Ho con don Filiberto un interesse insieme;
Esser con lui soletta per un affar mi preme.
Pippo. Ed io devo dar loco?
Berenice.   Fate il piacere a me.
Pippo. Vi sarà la ragione nel Libro del perchè?
Berenice. Se leggete quel libro, v’avete a deliziare.
Vi son tanti perchè, che fan maravigliare.
Pippo. Il Libro del perchè dirà, con permissione,
Ch’io vado e che vi servo, perchè sono un minchione.
(parte)

SCENA VIII.

Donna Berenice, poi Filiberto.

Berenice. Credo che in vita sua non sia da quella testa

Uscita una sentenza più bella di codesta.
Ma con lui ci vuol poco per tenerlo obbligato.

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Son certa che per questo non sarà disgustato.

Anche quegli altri amici han tutti il loro merto,
Ma quei che più mi premono, son Claudio e Filiberto:
Filiberto. Compatite, signora, se con indiscretezza
V’ho troncato il piacere di qualche stolidezza.
Berenice. Certo mi ha fatto ridere don Pippo la mia parte;
Ma per don Filiberto tutto si lascia a parte.
Filiberto. Bene obbligato. In grazia, fino che soli siamo,
Permettete, signora, fra noi che discorriamo.
Berenice. Volentieri. Possiamo seder.
Filiberto.   Come v’aggrada. (siedono)
Berenice. (Vedrò com’egli viene, e andrò per ogni strada).
(da sè)
Filiberto. Prevedete il motivo, per cui la grazia chiedo
Di favellarvi solo?
Berenice.   Sì, signor, la prevedo.
Filiberto. Come sta il vostro cuore?
Berenice.   Sta bene, a quel ch’io veggio.
Filiberto. E il mio sta così male, che non potria star peggio.
Berenice. Perchè?
Filiberto.   Per un difetto suo naturale antico,
Che della sofferenza suol renderlo nemico.
Berenice. Fate sia tollerante, che ne avrà merto e gloria.
Filiberto. Ecco, del mio rivale sicura è la vittoria.
Berenice. Qual rivale?
Filiberto.   Don Claudio.
Berenice.   Voi vivete ingannato.
Filiberto. Non amate don Claudio?
Berenice.   Non l’amo, e non l’ho amato.
Filiberto. Dunque a me il vostro cuore dona la preferenza.
Berenice. Vi par che questa sia sicura conseguenza?
Filiberto. Ho da temer in altri chi al desir mio contrasti?
Berenice. Non temete nessuno, lo giuro, e ciò vi basti.
Filiberto. Se altri temer non deggio, dunque io sarò il primo.
Berenice. Caro don Filiberto, io vi rispetto e stimo.

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Filiberto. Certo la stima vostra mi reca un sommo onore.

Ma ditemi sincera, come si sta d’amore?
Berenice. D’amor io sto benissimo.
Filiberto.   Per chi?
Berenice.   Siete pur caro!
Filiberto. No, donna Berenice, mi avete a parlar chiaro.
Berenice. Vorreste ch’io venissi col cuore alla carlona,
Che vi dicessi tutto. Oibò, non son sì buona.
Filiberto. Qual riguardo vi rende con me sì riservata?
Berenice. Riguardo di non essere derisa e beffeggiata.
Filiberto. Or bene, per provarvi che tal sospetto è vano,
Che son sincero e onesto, prendete, ecco la mano
Senza far più dimora...
Berenice.   Signor, non tanta furia.
Non sono una villana da farmi tal ingiuria.
Filiberto. Vi offendo ad esibirvi la man, se il cuor vi diedi?
Berenice. Vi par che sia faccenda da far così in due piedi?
Filiberto. Lo confesso, a ragione voi mi rimproverate.
Farò quel che conviene; che ho da far? comandate.
Berenice. Soffrir pazientemente, o che con voi mi sdegno.
Filiberto. Lungamente soffrire, signora, io non m’impegno, (s’alza)
Berenice. Dove andate?
Filiberto.   A cercare la smarrita mia quiete.
Berenice. Siete qui sulle spine?
Filiberto.   Parmi che sì.
Berenice.   Sedete.
Filiberto. Consolatemi almeno. (sedendo)
Berenice.   Di consolarvi io bramo.
Filiberto. Ardo per voi d’amore.
Berenice.   Lo credo. Ed io non v’amo?
Filiberto. Lo saprò, se mel dite.
Berenice.   Di me cosa pensate?
Filiberto. Non saprei.
Berenice.   Siete caro!
Filiberto.   Mi amate, o non mi amate?

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Berenice. Lascio a voi giudicarlo. (s’alza con un poco di serietà)

Filiberto.   Come?
Berenice.   Non dico il modo.
Filiberto. Questo è un parlar da oracolo.
Berenice.   (Di tormentarlo io godo).
(da sè)
Filiberto. Eh, parlatemi schietto.
Berenice.   Vi caverò di pene.
Filiberto. Ma quando?
Berenice.   Quanto prima, ma tollerar conviene.
Filiberto. Soffrirei volentieri fino all’estremo dì,
Pur che un sì mi diceste.
Berenice.   Non volet’altro? sì.
Filiberto. Sì? di che cosa?
Berenice.   Ancora ciò non vi basta? orsù,
S’è parlato abbastanza, non vuò discorrer più.
Filiberto. Una parola sola. (patetico)
Berenice.   E che parola è questa?
(caricandolo un poco)
Filiberto. Ditemi se mi amate. (come sopra)
Berenice.   Dove avete la testa? (come sopra)
Filiberto. Non vi capisco ancora. (come sopra)
Berenice.   Mi capirete poi. (come sopra)
Filiberto. Quando vi spiegherete? (come sopra)
Berenice.   Quando vorrete voi. (come sopra)
Filiberto. Non si porrebbe adesso?... (come sopra)
Berenice.   Vedo uno che ci guarda.
(osservando fra le scene)
Andiamo a desinare, che l’ora si fa tarda. (parte)
Filiberto. O ch’ella vuol deridermi, o ch’io non ho più mente.
M’ha detto cento cose, e non capisco niente. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.

Note