La dodicesima notte o quel che vorrete/Atto terzo

Atto terzo

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William Shakespeare - La dodicesima notte (1600)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto terzo
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ATTO TERZO


SCENA I.

Il giardino di Olivia.

Entrano Viola e il Villico con un tamburino.

Viol. Col tuo permesso, amico, e quello della tua musica: vivi tu col sussidio del tuo tamburo?

Vil. No, signore, vivo per la chiesa.

Viol. Sei un ecclesiastico?

Vil. No, ma la mia casa è posta presso alla chiesa.

Viol. Potresti dir del pari, che il re vive mercè un mendico, se il mendico abitasse presso di lui: o che la chiesa vive del tamburo, se il tuo tamburo fosse presso alla chiesa.

Vil. Voi l’avete detto, signore: che cosa è mai questo secolo! Una buona massima, non è che un guanto di pelle di capriuolo fra le mani di un uomo di spirito: ei lo svolge da tutti i lati.

Viol. Sì, ciò è sicuro; quelli che celiano ingegnosamente sulle parole, possono renderle libertine a loro volontà.

Vil. Vorrei perciò che mia sorella non avesse avuto nome, signore.

Viol. Perchè?

Vil. Perchè, signore, il suo nome non è che una parola, e celiando su tal parola, si potrebbe render mia sorella libertina; per verità le parole sono una razza corrotta, dacchè le polizze di cambio le han disonorate.

Viol. La ragione?

Vil. Non posso, signore, darvene alcuna senza parole, e le parole appaiono tanto bugiarde, che son stanco di convalidar le ragioni col loro aiuto.

Viol. Sei davvero gioviale e spensierato.

Vil. No, non sono spensierato, quantunque non pensi a voi.

Viol. Non sei tu il buffone di Olivia?

Vil. Errate, signore, madonna Olivia non vuole buffonerie, e non terrà buffone che quando sarà maritata, perchè i buffoni somigliano ai mariti, come le sardelle alle aringhe. Il marito è il più grosso. Io non son dunque il buffone di madonna Olivia.

Viol. Ma io ti vidi, non ha molto, dal conte Orsino? [p. 98 modifica]

Vil. La follia, signore, fa il giro del globo come il sole; essa risplende da per tutto. Ben mi dorrei se il buffone fosse così spesso col vostro signore, com’egli lo è colla signora mia. Io pure credo di aver veduta la vostra saviezza in quella casa.

Viol. Se tu vuoi farmi complimenti troncheremo ogni colloquio. Eccoti per il bere.

Vil. Ora Giove al suo primo agio peloso vi mandi la barba.

Viol. Te lo confesserò in fede; languo pel desiderio di una barba, sebbene non volessi vederla crescere sulle mie gote. È dentro la tua signora?

Vil. (guardando le monete avute) Non potrebbero generare figliuoli questi metalli, signore?

Viol. Sì, essendo tenute insieme, e poste in opera.

Vil. Vorrei farla da Pandaro, signore, onde recare un’altra Cressida a questo Troilo.

Viol. T’intendo; è un bel dimandare.

Vil. Non è gran cosa, signore, non chieggo che mendicando; Cressida altro non era che una mendica. — La mia signora è in casa, messere: le andrò a dire di dove venite; quanto a ciò che siete, a quel che volete, è cosa fuori del mio firmamento: avrei potuto dire elemento, ma è parola vieta. (esce)

Viol. Colui è abbastanza sensato, ed ha bastante spirito per fare il buffone. Convien che egli osservi l’umore di quelli con cui scherza, la qualità delle persone e le circostanze, e che, come il falco delle rupi, si avventi su tutte le penne che gli si parano innanzi. È un talento difficile al par d’ogni altro: perchè la follia, che si mostra a proposito, dà credito; ma quella che irrompe senza freno, toglie ogni riputazione. (entrano Ser Tobia Belch e Ser Andrea Maldigota)

Tob. Iddio vi salvi, signore.

Viol. E voi anche.

And. Dieu vous garde, monsieur.

Viol. Et vous aussi; votre serviteur.

And. Mi lusingo, signore, che lo siate; ed io sono il vostro.

Tob. Volete avvicinarvi alla mia casa? Mia nipote desidera che vi entriate per intrattenervi con esso lei.

Viol. Son grato a vostra nipote, signore, ed ella è lo scopo del mio viaggio.

Tob. Tastatevi le gambe, messere, e mettetele in moto.

Viol. Le mie gambe m’intendono meglio ch’io non intenda quello che voi volete dirmi, consigliandomi di tastarle.

Tob. Voglio dire, signore, che entriate. [p. 99 modifica]

Viol. Vi risponderò col fatto avanzandomi. Ma siamo prevenuti. (entrano Olivia e Maria) Celeste e perfetta bellezza, Iddio vi profumi col suo alito.

And. Questo giovine è un valente cortigiano. Iddio profumarla! A meraviglia!

Viol. Il mio messaggio non ha voce, signora, che pel vostro orecchio indulgente e buono.

And. Profumi, indulgente, buono, voglio scrivere tutte queste parole.

Ol. Si chiudano le porte del giardino, e lasciatemi sola ad udirlo. (escono ser Tobia, ser Andrea e Maria) Datemi la vostra mano, signore.

Viol. Il mio rispetto e i miei servigi sono tutti per voi.

Ol. Qual è il vostro nome?

Viol. Cesario, bella principessa, il vostro servo Cesario.

Ol. Il mio servo, signore? Non più vi è stata schietta gioia nel mondo, dacchè si è chiamato complimento una bassa e finta sommissione. Voi siete il servo del conte Orsino, mio giovine.

Viol. Ed egli è il vostro, e i servi suoi divengono i vostri necessariamente. I servi di un servo potrebbero essere altra cosa?

Ol. Al conte non penso, e pel suo cuore vorrei che fosse piuttosto vuoto, che pieno della mia imagine.

Viol. Vengo, signora, per interessarvi in suo favore.

Ol. Ah! col vostro permesso, ve ne prego... Vi ho imposto di non tornarmi a parlare di lui... ma se voleste aprire un altro negoziato, avrei più piacere ad udirvi, che a intender l’armonia delle sfere celesti.

Viol. Cara signora...

Ol. Lasciatemi dire: ho avuta l’arditezza di mandarvi un anello, e bisogna che mi assoggetti alla vostra lentezza nell’interpretarmi. Con un’astuzia vergognosa io vi ho costretto a prendere per voi quello, che non sapevate che a voi s’indirizzasse. Che potete ora pensarne? Non mi avete mal giudicata? Non mi avete coperta di disprezzo, ha rispondetemi. Che dite di me?

Viol. Io vi compiango.

Ol. È già un passo verso l’amore.

Viol. No, perchè sovente noi commiseriamo anche i nostri nemici.

Ol. Ah, allora mi sembra ch’io potrò anche ridermi di voi. Oh mondo, quanto è facile ad inorgoglirsi il povero al primo luccicare della fortuna. Se si ha a divenir preda di qualcuno, quanto è meglio soccombere sotto il leone, che sotto il lupo. (suona un [p. 100 modifica]orologio) L’ora che suona, mi rimprovera la perdita che faccio qui del mio tempo. Rassicuratevi, giovine, io non vi voglio, e nondimeno quando la ragione e gli amici vi avran fatto maturo, la vostra sposa possederà un bel marito. Ecco la vostra via, seguitela.

Viol. La gioia rimanga con voi. Non avete nulla da dirmi pel mio signore?

Ol. Fermatevi, manifestatemi quel che pensate di me?

Viol. Che voi vi credete quello che non siete.

Ol. Se ciò credo, lo credo anche di voi.

Viol. E ben vi apponete; io non sono quel che sembro.

Ol. Vorrei che foste quello ch’io desidero.

Viol. Purchè cangiassi in meglio, si compia pure il vostro desiderio.

Ol. Ah, quante grazie mostrano le parole sulle sue labbra! Un omicida non si tradisce più presto dell’amore che vorrebbe nascondersi. La notte dell’amore è chiara come il mezzodì. Cesario, per le rose della primavera, per la verginità, per l’onore, per la fede, per tutto ciò che vi è di più sacro, te lo giuro, ti amo tanto, che in onta de’ tuoi dispregii, non posso celare la mia passione. Non trarre da questa confessione argomenti per insultarmi; perchè sebbene io sia la prima a dichiararti il mio affetto, questo non dev’essere per te un motivo di schernirlo. Fa tacere piuttosto ogni suggestione con questo riflesso, che l’amore che si arrende alle preghiere è di gran prezzo, ma quello che spontaneo si dona gli è d’assai superiore.

Viol. Giuro per la mia innocenza e per la mia giovinezza, che io pure ho un cuore ed una fede, sebbene alcuna donna non li posseggano... ma, addio, cara signora, io non verrò più a deporre ai vostri piedi le lagrime del mio padrone.

Ol. Tornate, voi forse potrete commuovermi, e indurre ad apprezzare il suo amore questo cuore, che ora lo abborre. (escono)

SCENA II.

Una stanza nella casa di Olivia.

Entrano ser Tobia Belch, ser Andrea Maldigota e Fabiano.

And. No, in fede, non resterò un minuto di più.

Tob. E la tua ragione, caro veleno, la tua ragione?

Fab. Convien che diciate la vostra ragione, messere Andrea.

And. Veramente vidi vostra nipote prodigar più favori al [p. 101 modifica]servo del conte che a me mai non ne prodigasse: vidi tutto nell’orto.

Tob. Ti vedeva ella allora, vecchio garzone? Dimmelo.

And. Così chiaramente com’io vi miro adesso.

Fab. Una gran prova dell’amore che essa sente per voi.

And. Pel Cielo! volete farmi diventar un ciuco? Ve lo proverò, signore, col giudizio e la ragione.

Tob. Due gran magistrati che tali divennero anche prima che Noè esercitasse l’arte del marinaio.

Fab. Ella non fece una bella accoglienza a quel paggio dinanzi a voi, che per pungervi, per risvegliare il vostro valore assopito, per mettervi il fuoco nel cuore, e lo zolfo nel fegato. Voi avreste dovuto andarle incontro allora, e con qualche fina arguzia, con qualche lampo di spirito petrificato avreste reso mutolo quel garzone. Questo era quanto si aspettava da voi; e a ciò voi mancaste; voi lasciaste togliervi dal tempo il bel raggio che vi era splenduto, ed eccovi ora gettato sotto il freddo polo della mia signora, a cui resterete appeso come un ghiacciuolo alla barba di un Olandese, se non pensate a riscattare questo fallo con qualche bell’opera di valore, o di qualche abile trovato di guerra.

And. Se vi è qualche tentativo da fare, preferirò il valore, perchè abborro la politica più del peccato.

Tob. Allora dunque ergi la tua fortuna sulla base della prodezza. Manda un cartello al paggio del conte; battiti con lui, feriscilo in undici parti; mia nipote ne terrà conto, e sii ben certo che non vi è mezzano d’amore nel mondo che possa render caro un uomo agli occhi di una femmina, come la riputazione del valore.

Fab. Non vi è altro mezzo, ser Andrea.

And. Porterete uno di voi due la mia sfida?

Tob. Va, scrivila con carattere marziale, sii assoluto e breve: poco vale se non vi è spirito, basta in ciò la chiarezza. Insultalo con tutta quella licenza che dà l’inchiostro: digli del tu, e accumula tante mentite sul suo capo quante ne potranno capire nel foglio, fosse esso così grande, da poter servir di lenzuolo al letto di Ware in Inghilterra1. Su, va all’opera, e mostrati in tutto uomo, quantunque scrivi con una penna d’oca.

And. Dove vi troverò?

Tob. Verremo a chiamarti. Va. (esce ser Andrea)

Fab. Quell’uomo vi è molto caro, ser Tobia.

Tob. Io gli son stato due mila volte più caro, fanciullo. [p. 102 modifica]

Fab. Avremo una bella lettera da lui: ma la porterete poi a chi è diretta?

Tob. Non mi credere mai più se non la porto. Ecciterò con ogni mio mezzo quel garzone a rispondere. Ma credo che non riesciremo a metterli alle prese insieme, perchè per ser Andrea se lo si sparasse, e se vi si trovasse solo tanto sangue, quanto ce ne vuole per empiere il piede di una mosca, io acconsentirei a mangiare il resto del cadavere.

Fab. E nè tampoco il suo avversario mostra molti segni di animosità. (entra Maria)

Tob. Ecco il più vago augelletto che viene a noi.

Mar. Se vi piace l’allegria e il riso, seguitemi. Quello stupido Malvolio è divenuto un pagano, un vero rinnegato; perchè non v’ha cristiano che desideri salvarsi con una credenza ortodossa che possa mai dar fede a tali stravaganze: egli è in calze gialle.

Tob. E ha le giarrettiere dorate?

Mar. Sì della più brutta specie, della più goffa. L’ho cruciato a mio senno, e ho potuto accorgermi ch’egli obbedisce esattamente ad ogni parola della lettera che gli feci trovare. Per sorridere si scompone il volto con più righe che non ve ne siano nel nuovo mappamondo accresciuto delle Indie: non avrete mai veduto nulla di simile. M’astenni a fatica dal cacciargli qualche cosa in viso. So che la mia signora gli darà una ceffata; se essa lo fa, egli ne sorriderà, e l’avrà in conto di un gran favore.

Tob. Andiamo dov’è, andiamo. (escono)

SCENA III.

Una strada.

Entrano Antonio e Sebastiano.

Seb. Io non vorrei avervi causato il più lieve fastidio, ma poichè voi trovate piacere nell’essermi cortese, non vi farò più alcuna rimostranza.

Ant. Non potei starmi dietro a voi; un desiderio più penetrante dell’acciaio aguzzo mi punse e mi costrinse a seguirvi. Il bisogno di vedervi, e l’amicizia che per voi sento, oltre al timore che qualche male non vi accaggia, in questo paese a voi sconosciuto, mi spinsero ardentemente a venir qui. Vogliate compatirmi.

Seb. Mio caro Antonio, non posso che rispondervi con nuovi e eterni ringraziamenti. Spesso i servigii dell’amistà si comprano, [p. 103 modifica]e si pagano con questa moneta che non è in corso. Ma se il mio potere eguagliasse i miei affetti e il mio desiderio, voi sareste meglio ricompensato. — Che farem noi? Andremo a vedere insieme gli avanzi degli antichi monumenti di questa città?

Ant. Dimani, amico. Intanto andate a vedere il vostro alloggio.

Seb. Non sono stanco, e molto vi è ancora di qui a notte: ve ne prego, andiamo a ricreare i nostri occhi, colla vista di quelle antichità che dan tanta rinomanza a questo paese.

Ant. Vi chieggo di scusarmi: non potrei passeggiare senza pericolo per queste strade. Una volta in un combattimento di mare, prestai qualche servigio contro le galere del Duca, e se fossi preso, non saprei trarmi d’impaccio.

Seb. Forsechè voi gli uccideste molti sudditi?

Ant. L’offesa mia non è di natura sì grave sebbene le circostanze e il litigio ne ponessero in diritto di venire a quell’estremità. Si sarebbe potuto ripararla poscia, restituendo quello che avevam catturato, ed è ciò che fecero molti abitanti del nostro paese: ma io rifiutai ogni composizione, e se quindi venissi arrestato, la pagherei cara.

Seb. Non vi mostrate allora per le vie.

Ant. Sarei imprudente facendolo. Or dunque tenete, mio amico, eccovi la mia borsa: il miglior albergo che possiate trovare è l’Elefante nel sobborgo del mezzodì. Andrò a darvi gli ordini opportuni intorno al modo con cui vogliamo essere trattati, intantochè voi vi divertirete a percorrer la città, che offre pascolo alla curiosità ed alla scienza.

Seb. Ma perchè la vostra borsa?

Ant. Forse vedrete qualche balocco che desidererete di acquistare; e i vostri denari, da quel che imagino non devono essere destinati a frivoli acquisti.

Seb. Ebbene, sarò il vostro portaborsa, e vi lascierò per un’ora.

Ant. All’Elefante...

Seb. Me ne rammento. (escono)

SCENA IV.

Il giardino di Olivia.

Entrano Olivia e Maria.

Ol. L’ho mandato a chiamare, e dice che verrà: ma come lo accoglierò io? Che cosa gli donerò, perocchè la gioventù ama più [p. 104 modifica]spesso di farsi comprare che di darsi alle preghiere della tenerezza. — Parlo troppo forte... dov’è Malvolio?... Egli è grave austero, e ben si conforma alla mia situazione. — Dov’è egli?

Mar. Viene, signora, ma stranamente abbigliato: certo ha qualche cosa in testa.

Ol. Che vuoi tu dire? Sarebb’egli impazzato?

Mar. No, ma sorride continuamente. Sarebbe bene, signora che aveste qualcuno con voi, per vostra sicurezza, quand’egli giunge, perchè quell’uomo si è mutato alquanto.

Ol. Fallo entrare. Io sarò insensata al par di lui, se la pazzia gaia e la pazzia malinconica sono eguali. — (entra Malvolio) Ebbene, Malvolio?

Mal. Dolce signora, oh, oh. (sorride bizzarramente)

Ol. Tu sorridi, io ti mandai a chiedere per un oggetto grave e tristo.

Mal. Tristo, signora? Io pure allora potrei divenirlo, perchè queste giarrettiere dorate cagionano sempre qualche ostruzione nella circolazione del sangue: ma che importa ciò? Se esse piacciono all’occhio di una sola donna, io son nel caso del sonetto che dice: se piaccio ad una sola, a tutti piaccio.

Ol. Che cosa vuoi dire? che cosa intendi?

Mal. Non vi è nero nella mia anima, sebbene vi sia giallo nelle mie gambe. — Ella cade fra le sue mani, e gli ordini saranno eseguiti. Io credo di ben conoscere il dolce carattere romano.

Ol. Vuoi tu andare a letto, Malvolio?

Mal. A letto? Sì, dolce cuore: ma con te.

Ol. Iddio ti conforti! Perchè sorridi così e ti baci la mano tanto spesso?

Mar. Che fate Malvolio?

Mal. Rispondere alle vostre dimande? Sì, come i rossignoli rispondono alle cornacchie.

Mar. Perchè vi mostrate con sì ridicola baldanza dinanzi a madonna?

Mal. Non lasciarti atterrire dalle grandezze, codesto era scritto.

Ol. Che vuoi tu dire, Malvolio?

Mal. Alcuni nascono grandi...

Ol. Ah!

Mal. Alcuni comprano la grandezza.

Ol. Che dice?

Mal. E ad alcuni la grandezza va incontro...

Ol. Il Cielo ti ritorni il senno. [p. 105 modifica]

Mal. Ricordati di quella che lodò le tue calze.

Ol. Le tue calze?

Mal. E che desiderò di vederti colle giarrettiere dorate...

Ol. Colle giarrettiere dorate?

Mal. Va, la tua fortuna è fatta, se tu lo vuoi...

Ol. Si beffa egli di me?

Mal. Se no, io non vedrò altro in te che uno de’ miei servitori.

Ol. Questa si chiama veramente pazzia. (entra un domestico)

Dom. Signora, il giovine gentiluomo del conte Orsino è ritornato, e a fatica potei indurlo a ciò: egli aspetta i comandi di Vostra Signoria.

Ol. Verrò da lui. (esce il Dom.) Cara Maria, abbi cura di quest’uomo. Dov’è mio zio? Tenetelo di vista, perchè non vorrei che gli accadesse qualche disgrazia. (esce con Mar.)

Mal. Oh, oh, mi vengano vicino ora: ser Tobia starà con me: ciò s’accorda perfettamente colla lettera: essa me lo manda coll’intenzione ch’io lo tratti cavallerescamente: seguirò i precetti del suo foglio: scuoti la tua umile polvere, mi disse ella, comportati alteramente coi miei domestici, e con mio zio: la tua lingua s’intrattenga dei più alti negozii di Stato, e assuma interamente a contegno di un uomo al disopra del vulgo. E poscia ella mi accenna che mostrar debbo un viso grave, un portamento angusto, una pronunzia lenta e solenne, come tutti gli uomini di polso. L’ho presa nelle mie fila, ma fu opera di Giove, ed è Giove che mi ispira la riconoscenza! Dianzi ancora, quando mi lasciò abbi cura di quest’uomo, disse ella. Uomo, non Malvolio, perchè difatto solo adesso son divenuto uomo. Così dunque tutto concorre, tutto si lega, e non vi è più nulla che possa lasciarmi in incertitudine. Che dire a ciò? Qual ostacolo possibile fra me e le mie fulgide speranze? Ma fu Giove, non io, l’autore della mia fortuna, ed io debbo ringraziarlo. (rientra Maria con ser Tobia Belch e Fabiano)

Tob. In nome della santità, che strada ha egli presa? Se anche tutti i diavoli dell’inferno si fossero fatti piccini per entrar nel suo corpo, e posseduto ei fosse da un’intera legione di loro, io gli parlerei.

Fab. Eccolo, eccolo. — Come va, signore? come va, amico?

Mal. Allontanatevi, io vi ripudio, lasciatemi godere i miei pensieri.

Mar. Udite come lo spirito maligno parla al di dentro di esso con voce sepolcrale. Non ve l’avevo io detto? Ser Tobia, madonna vi prega ad aver cura di lui. [p. 106 modifica]

Mal. Aah! è egli vero?

Tob. Ite, ite, convien che trattiam seco dolcemente; lasciateci soli. — Come va, Malvolio? Come state? Su via, sfidate il diavolo, e ricordatevi ch’egli è il nemico del genere umano.

Mal. Sapete voi quello che esprimete?

Mar. Se gli parlate male del diavolo, se ne sdegnerà. Preghiamo Dio ch’ei non sia stregato.

Fab. Convien portar la sua urina a qualche comare.

Mar. È quello che farò dimattina se sono al mondo; madonna dorrebbesi assai di perderlo.

Mal. Che dite, fanciulla?

Mar. Oh signore!

Tob. Te ne prego, taci, questo non è il modo: vedi come lo turbi? Lasciami solo con lui.

Fab. Non c’è altra via che la gentilezza: gentilmente, gentilmente: il demonio è rozzo, e non vuol esser trattato con rozzezza.

Tob. Ebbene, mio bel gallo, come va?

Mal. Signore?

Tob. Vieni con me, te ne prego. Coraggio. Non si addice a un uomo grave come te, il celiare col diavolo; manda all’inferno quel carbonaio.

Mar. Cercate d’indurlo a dir le sue orazioni; buon ser Tobia, esortatelo a pregare.

Mal. A pregare, furfantella?

Mar. Ah! pur troppo, non vorrà udir discorrere di nessuna cosa sacra.

Mal. Andate tutti al demonio, teste vuote e leggere: io non son composto dei vostri elementi, e ve ne convincerete in seguito. (esce)

Tob. È egli possibile?

Fab. Se si recitasse tal commedia in teatro, potrebbe venir condannata come una funzione inverosimile.

Tob. Egli si è lasciato interamente avvolgere nel laccio che gli fu teso.

Mar. Seguitatelo ora, per tema che il nostro disegno non ci fallisca.

Fab. Ma lo faremo impazzire.

Mar. La casa diventerà con ciò più tranquilla.

Tob. Venite, lo chiuderemo legato in una camera scura. Mia nipote è già persuasa ch’ei sia pazzo. Noi possiam tirare in lungo questo diporto, per diletto nostro e per suo castigo, fino a che [p. 107 modifica]saziatine, ci sentiamo disposti ad aver pietà di lui. Allora assoggetteremo il tuo disegno a un tribunale di spiriti vivaci, e ti incoroneremo come la più gioviale delle femmine. Ma, mirate, mirate. (entra ser Andrea Maldigota)

Fab. Nuova materia per un dì di festa.

And. Ecco la sfida, leggetela; vi assicuro che vi è aceto e pepe dentro.

Fab. Vi è tanta salsa?

And. Sì, ve ne fo fede; leggetela, e ve ne convincerete.

Tob. Date qua (legge) Giovine, chiunque tu sia, sei un essere abbietto.

Fab. Ottimamente.

Tob. Non meravigliarti; non istupire s’io così ti chiamo, perchè di ciò non ti darò alcuna ragione.

Fab. Buona nota, che vi sottrae agli artigli della legge.

Tob. Tu andasti da madonna Olivia, che al mio cospetto ti trattò gentilmente; ma mentiresti per la gola se dicessi che questo è il motivo per cui ti sfido.

Fab. Molto breve e insensato.

Tob. Ti sorprenderò quando ritorni a casa, dove se per avventura mi uccidi....

Fab. Bene.

Tob. Mi ucciderai da vil malandrino.

Fab. Sempre vi ponete al disopra della legge; a meraviglia.

Tob. Addio, e il Signore abbia misericordia all’una delle nostre due anime; ei potrebbe aver pietà di me, ma nutro una speranza migliore, e pensa perciò ad esser cauto. Il tuo amico secondo che tu lo tratterai, o il tuo giurato nemico. Andrea Maladigota. — Se questa lettera non lo muove, le sue gambe certo nol potranno: io andrò a consegnargliene.

Mar. Voi avete ora una bella occasione, egli è in colloquio con Madonna, e partirà fra poco.

Tob. Va, ser Andrea, va ad osservare quando esce all’imboccatura del versiere da vero prevosto, e allorchè lo discernerai, snuda la spada, proferendo orribili giuramenti, perchè accade spesso che un giuramento pronunziato con vigore offra prova maggiore di coraggio, che offrirla non sapesse il più avventuroso fatto. Va.

And. Oh lasciate a me la cura di giurare come è dicevole. (esce)

Tob. Io non consegnerò questa lettera: la condotta di quel giovine annunzia ch’egli ha un’ottima educazione, e il negoziato [p. 108 modifica]a cui s’adopera fra il suo signore e mia nipote lo conferma: per conseguenza questa lettera, capolavoro d’ignoranza, non gl’ispirerebbe alcun terrore, ed egli si avvedrebbe tosto ch’essa fu scritta da uno stupido ignorante. Io gli farò dunque la sfida a voce; gli dirò che ser Andrea gode un’ottima fama, e darò al giovine (cui l’età deve render credulo) l’idea più terribile della sua scienza, della sua foga impetuosa. Con tale stratagemma rimarranno tanto spaventati l’uno dell’altro che scambievolmente si uccideranno cogli sguardi da veri basilischi (entrano Olivia e Viola)

Fab. Egli vien qui con vostra nipote; lasciateli insieme finchè s’accomiati da lei, e poscia seguitelo.

Tob. Intanto mediterò alle terribili parole con cui gli esporrò la sfida. (esce con Fab. e Mar.)

Ol. Troppo anche dissi a un cuore di pietra, e a troppo buon prezzo posi il mio onore. V’è in me una voce segreta, che mi rimprovera il mio fallo, sebbene il sentimento che mi trascina sia tanto forte da farmi disprezzare ogni considerazione.

Viol. La passione del mio signore, procede del pari da una inclinazione invincibile.

Ol. Prendete, e portate questo pegno in memoria di me; è il mio ritratto, non lo rifiutate; egli non ha lingua che possa esservi importuna, e ve ne scongiuro, ritornate dimani. Che potreste voi dimandarmi ch’io vi rifiutassi di tutto ciò che l’onore può concedere senza compromettersi?

Viol. Altra grazia non vi dimando che una corrispondenza di affetti col mio signore.

Ol. Come poss’io, senza lordare il mio onore, dargli quella che ho di già dato a voi?

Viol. Vi sdebiterò d’ogni carico.

Ol. Via, ritornate dimani, addio: un demonio simile a voi potrebbe trasportare la mia anima all’inferno. (esce: rientrano ser Tobia Belch e Fabiano)

Tob. Gentiluomo, Iddio ti salvi.

Viol. E voi anche, signore.

Tob. Pensa a valerti in tua difesa di quanto coraggio hai: di qual natura siansi gli oltraggi che tu gli hai fatti, non so: ma il tuo nemico pieno di collera, assetato di sangue come un cacciatore, ti aspetta al termine dell’orto. Snuda la tua spada; apprestati alla battaglia perchè il tuo assalitore è ardito e tremendo.

Viol. Prendete un equivoco, signore, io son sicuro che niuno ha contese con me, e la mia coscienza mi guarentisce che non feci mai male ad alcuno. [p. 109 modifica]

Tob. Vi avvedrete del contrario, ve ne assicuro; perciò se ponete un qualche prezzo alla vostra vita, pensate a ben difendervi; perchè il vostro avversario ha in sè tutto ciò che la gioventù, la forza, l’ardire e la collera possono dare ad un uomo.

Viol. Ve ne prego, signore, chi è?

Tob. È un cavaliere creato sul tappeto, e non sul campo, ma un demonio nelle private contese: egli ha già divise tre anime da tre corpi, e il suo furore in questo momento è così acceso, che altra soddisfazione non accetta che la morte e il sepolcro: a tutto sangue, quest’è la sua parola.

Viol. Rientrerò in casa per chiedere a madonna qualche suggerimento in questa bisogna. Non sono un duellista. Ho inteso parlare d’una specie d’uomini, che suscitano contese solo per esperimentare l’altrui valore: pare che questi sia un uomo di quella specie.

Tob. No, signore. Il suo sdegno deriva da più recondita sorgente, e perciò preparatevi a dargli soddisfazione. Voi non rientrerete in casa, a meno che non vogliate battervi prima con me, locchè farete con sicurezza eguale a quella con cui vi battereste seco. Non me ne dite altro, e sguainate la spada: è indispensabile per voi tale duello, se pure non rinunziate per sempre a portare quell’arma al vostro fianco.

Viol. Ma ciò è strano e scortese. Io vi scongiuro di dirmi in che offesi quel cavaliere? Fatto non l’avrò che inavvedutamente, non per mala volontà.

Tob. Ebbene, vi compiacerò. Signor Fabiano, restate con questo gentiluomo sinch’io ritorno. (esce)

Viol. Pregovi, signore, sapete il motivo di questo litigio?

Fab. So che il cavaliere è molto infellonito contro di voi, e che egli vuol venire ad un giudizio di morte; ma ignoro il perchè.

Viol. Di grazia, ditemi, che razza d’uomo è egli?

Fab. Il suo aspetto non promette nulla, e vedendolo non si direbbe mai che possegga tanto valore. Ma è lo schermitore più destro, più sicuro e più fatale che possa trovarsi in Illiria. Volete che gli andiamo incontro? Mi sforzerò di riporvi in pace con lui.

Viol. Ve ne avrò le più grandi obbligazioni; sono un uomo che più mi piaccio nella compagnia de’ preti, che in quella de’ cavalieri: io non desidero di far sapere al mondo fin dove giunga il mio valore. (escono; rientra ser Tobia con ser Andrea)

Tob. Ah! in verità, è proprio un demonio; non vidi mai egual campione. Mi provai seco, ma lama, fodero, e tutto il resto andò per aria, ed ei mi colpi con tanta rapidità, che impossibile è l’evitarlo. Si dice che sia stato maestro di scherma del sofì. [p. 110 modifica]

And. La peste lo colga: non vuo’ entrare in litigii seco.

Tob. Ma egli non vorrà far pace: Fabiano lo trattiene a stento.

And. Il malanno se lo porti: se avessi creduto che fosse così prode e così destro, l’avrei volato veder dannato prima di mandargli un cartello. Se vuol lasciar finir le cose in pace gli farò dono del mio cavallo, il grigio Capileto.

Tob. Gliene farò la proposta: statevi qui, mostratevi impavido; tutto ciò terminerà senza la perdizione d’alcun’anima. — Davvero, (a parte) ch’io monterò vostro cavallo, come voi ora monto. (rientrano Fabiano e Viola) Posso disporre del suo cavallo (a Fab.) per pacificar la contesa; gli ho fatto credere che quel giovine sia un demonio.

Fab. E il giovine ha di lui un’idea parimente orribile, ed è divenuto pallido e anelante, come se un orso gli stesse alle calcagna.

Tob. Non vi è rimedio, signore; egli vuol duellare con voi per mantenere il suo giuramento, perchè rispetto alla contesa, egli la trova ora appena degna che se ne parli. Ma l’onore della sua parola vuol esser salvo, onde sguainate la spada; egli protesta che non vi ferirà.

Viol. (a parte) Prego Iddio che mi difenda! Oramai dico loro che non sono un uomo.

Fab. Cedetegli il terreno se lo vedete furioso.

Tob. Venite, ser Andrea, non vi è riparo; il gentiluomo incrocierà la spada con voi, perchè a ciò l’induceste: egli non può dispensarsene; ma mi ha promesso da gentiluomo, che non vi farà male. Venite.

And. Prego Iddio perchè mantenga il suo giuramento! (sguaina la spada) Io vi assicuro che è contro il mio volere. (entra Antonio)

Ant. Riponete la vostra spada: se questo giovine vi ha offeso, io combatterò per lui: se voi l’offendeste, io vi sfido a suo nome. (sguainando la spada)

Tob. Voi, signore? Perchè? Chi siete voi?

Ant. Un uomo, che per amore di questo giovine, farà anche di più di quello che l’avete udito vantarsi di voler fiire.

Tob. Se cercate le risse, esse non vi mancheranno. (ponendo la mano sull’elsa; entano due uffiziali)

Fab. Ah! buon ser Tobia, fermatevi; vengono gli uffiziali.

Tob. (a Ant.) Ci parleremo fra poco.

Viol. (a And.) Ve ne prego, signore, riponete la spada, se ciò vi piace. [p. 111 modifica]

And. Lo farò di buon grado; e quanto a quello che vi ho promesso, lo manterrò: egli vi porterà comodamente, e con moto placidissimo.

Uff. Questo è il nostro uomo; adempite il vostro ufficio.

Uff. Antonio, io vi arresto in nome del conte Orsino.

Ant. Mi prendete in fallo, signore.

Uff. No, no; ben conosco i vostri lineamenti, quantunque non abbiate ora il berretto da marinaio sulla testa. Conducetelo via, egli sa bene ch’io lo conosco.

Ant. Debbo obbedire. — Quest’è quel che mi accade per avervi voluto cercare. (a Viol.) Ma ora è inutile. Saprò affrontare la mia sorte. La necessità mi costringe a ridimandarvi la mia borsa: e anche in questa strettezza mi è più grave l’idea di non poter far più nulla per voi, che quella della sventura che mi incoglie. Voi rimanete confuso; rassicuratevi.

Uff. Venite, signore, andiamo.

Ant. Sono costretto a richiedervi una parte di quel denaro.

Viol. Di qual denaro, signore? Vuo’ bene in contemplazione dell’interesse che vi prendeste per me, e tocco dall’accidente che vi accade, dividere con voi quello che io posseggo: ma è assai piccola cosa questa ch’io vi accordo.

Ant. Così mi rispondete? Possibile che i miei servigi passati non ottengano da voi più di ciò? Non insultate al mio infortunio per tema che il risentimento non mi spinga all’inconseguenza di rimproverarvi quello che ho fatto per voi.

Viol. Non so che voi abbiate fatto nulla, e non vi riconosco, nè al suono della voce, nè al vostro aspetto. Abborro più in un uomo l’ingratitudine che la menzogna, l’ebbrezza, ed ogni altro vizio vergognoso di cui possiamo deturparci.

Ant. Oh Cielo!

Uff. Venite, signore, ve ne prego, venite.

Ant. Lasciatemi dire anche una parola. Quel giovine che là vedete, io l’ho strappato dalle braccia della morte; l’ho salvato collo zelo più puro e generoso, e tutto avrei fatto per lui, sedotto dal candore del suo volto che mi faceva credere alla sua virtù.

Uff. Che cale a noi di ciò? Venite una volta.

Ant. Ma in qual vile idolo si è mutato quel Dio... Sebastiano, tu hai disonorato quel tuo bel volto... Non vi sono nella natura altre vere deformità che quello dell’anima, e non vi è che l’ingrato che possa veramente dirsi laido. La bellezza sincera è data dalla virtù? il vizio che cuopre un bel sembiante è una mostra diabolica fatta per sedurre i miseri mortali. [p. 112 modifica]

Uff. Quest’uomo impazzisce, andiamo una volta, andiamo.

Ant. Guidatemi dove volete. (esce fra gli uffiziali)

Viol. Credo che le sue parole gli sian dettate da qualche forte passione. Egli crede ad una cosa, a cui io non credo più. Oh, così potessi avverarti, dolce illusione, ond’io fossi preso di nuovo pel mio amato fratello!

Tob. Avvicinati, cavaliere; avvicinati, Fabiano; noi ci susurreremo all’orecchio alcune saggie sentenze.

Viol. Egli ha nominato Sebastiano! So che mio fratello vive ancora nella mia imagine: io in tutto gli rassomiglio. Ed egli pure vestiva in questa guisa cogli stessi colori, colla pettinatura medesima, perch’io in tutto lo imito. Oh! se tal congettura riescisse alla realità, la tempesta sarebbe compassionevole, e i flutti potrebbero intenerirsi. (esce)

Tob. Quegli è un garzone senza onore, e più codardo di un cervo: la sua disonestà si appalesa nel lasciare un amico in bisogno senza soccorrerlo: quanto alla sua vigliaccheria basta interrogarne Fabiano.

Fab. È un codardo, uno dei maggiori codardi.

And. Affè, vuo’ corrergli dietro per batterlo.

Tob. Sì, fatelo, ma senza sguainare la spada.

And. Così farò. (esce)

Fab. Andiamo a vedere come finisce.

Tob. Scommetterei che non accadrà nulla. (escono)




Note

  1. Letto che conteneva quaranta persone.