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ATTO TERZO
SCENA I.
Il giardino di Olivia.
Entrano Viola e il Villico con un tamburino.
Viol. Col tuo permesso, amico, e quello della tua musica: vivi tu col sussidio del tuo tamburo?
Vil. No, signore, vivo per la chiesa.
Viol. Sei un ecclesiastico?
Vil. No, ma la mia casa è posta presso alla chiesa.
Viol. Potresti dir del pari, che il re vive mercè un mendico, se il mendico abitasse presso di lui: o che la chiesa vive del tamburo, se il tuo tamburo fosse presso alla chiesa.
Vil. Voi l’avete detto, signore: che cosa è mai questo secolo! Una buona massima, non è che un guanto di pelle di capriuolo fra le mani di un uomo di spirito: ei lo svolge da tutti i lati.
Viol. Sì, ciò è sicuro; quelli che celiano ingegnosamente sulle parole, possono renderle libertine a loro volontà.
Vil. Vorrei perciò che mia sorella non avesse avuto nome, signore.
Viol. Perchè?
Vil. Perchè, signore, il suo nome non è che una parola, e celiando su tal parola, si potrebbe render mia sorella libertina; per verità le parole sono una razza corrotta, dacchè le polizze di cambio le han disonorate.
Viol. La ragione?
Vil. Non posso, signore, darvene alcuna senza parole, e le parole appaiono tanto bugiarde, che son stanco di convalidar le ragioni col loro aiuto.
Viol. Sei davvero gioviale e spensierato.
Vil. No, non sono spensierato, quantunque non pensi a voi.
Viol. Non sei tu il buffone di Olivia?
Vil. Errate, signore, madonna Olivia non vuole buffonerie, e non terrà buffone che quando sarà maritata, perchè i buffoni somigliano ai mariti, come le sardelle alle aringhe. Il marito è il più grosso. Io non son dunque il buffone di madonna Olivia.
Viol. Ma io ti vidi, non ha molto, dal conte Orsino?
V. VII. — 7 | Shakspeare. Teatro completo. |