La dodicesima notte o quel che vorrete/Atto quarto

Atto quarto

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William Shakespeare - La dodicesima notte (1600)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto quarto
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ATTO QUARTO


SCENA I.

Una strada dinanzi alla casa di Olivia.

Entrano Sebastiano e il Villico.

Vil. Vorreste voi farmi credere di non avermi mandato a cercare?

Seb. Vattene; sei un imbelle: liberami dalla tua presenza.

Vil. Molto bene, in fede! No, non è vero ch’io vi conosca, e che sia stato mandato dalla mia signora per dirvi di venirle a parlare, e vero non è che vi chiamiate Cesario. Tutto ciò è menzogna.

Seb. Vattene a dar sfogo altrove alla tua pazzia: tu non mi conosci.

Vil. Dar sfogo alla mia pazzia? Egli ha udito proferir questa parola da qualche grand’uomo, ed ora l’applica a un demente. Dar sfogo alla mia pazzia? Molto temo che questo rustico mondo non si faccia a poco a poco civile. — Ve ne prego, abbandonate quell’aria di sorpresa e quella simulata ignoranza, e ditemi che cosa debbo rispondere alla mia signora? Le dirò che verrete?

Seb. Te ne scongiuro, lasciami, pazzo, eccoti denaro: se di più resti, ti pagherò con un’altra moneta che ti piacerà meno.

Vil. Sull’onor mio tu hai una mano facile ad aprirsi. — Gli uomini che danno denaro ai pazzi, sanno procurarsi sentenze propizie in ogni litigio. (entrano ser Andrea, ser Tobia e Fabiano)

And. Ora che vi trovo di nuovo, prendetevi questa. (battendo Seb.)

Seb. E voi questa, e questa ancora. (battendo And.) Son tutti folli costoro?

Tob. Fermatevi, signore, o vi spezzerò la spada.

Vil. Andrò a dir ciò alla mia signora tosto: non vorrei essere nelle saccoccie vostre per due mezzi soldi. (esce)

Tob. Fermatevi, fermatevi. (trattenendo Seb.)

And. No, lasciatelo andare, e l’acconcierò in altra guisa: gli [p. 114 modifica]farò un processo, se vi sono leggi in Illiria: sebbene io lo abbia battuto primo, ciò a nulla vale.

Seb. Togliete via quella mano.

Tob. No signore, non vi lascierò a meno che non riponiate il vostro ferro: siete troppo rinfocolato: su via, calmatevi.

Seb. Mi sottrarrò alle tue mani: che vuoi tu da me? Se osi provocarmi, sguaina tu pure la spada.

Tob. Che, che? Converrà dunque ch’io ti cavi una o due goccie di quell’insolente sangue. (sguainando la spada; entra Olivia)

Ol. Fermatevi, Tobia: sulla vostra vita, fermatevi.

Tob. Signora?

Ol. Vi manterrete sempre lo stesso? Uomo rozzo e scortese, degno d’abitar le rupi, o le caverne selvaggie, dove mai non si apparò il vivere civile, esci dal mio cospetto. — Non essere sdeguato, caro Cesario. — Uomo brutale, esci, (escono ser Tobia, ser Andrea e Fabiano) Te ne prego, mio dolce amico, lascia che la prudenza, e non la collera ti governi in questa circostanza. Entra con me nella mia casa, e dopo che ti avrò raccontato quante scene stravaganti e bizzarre ha fatte colui, tu riderai soltanto di questa. Vieni: non essermi avverso; sia egli maledetto; egli atterrì il mio povero cuore contendendo teco.

Seb. A che accenna ciò? Da qual parte va il ruscello? O io sono impazzito, o questo è un sogno. — La mia imaginazione sepellisca pure così i miei sensi nei flutti di Lete, e se un inganno è questo, possa io essere sempre così ingannato.

Ol. Vieni, te ne prego: vuoi lasciarti condurre da me?

Seb. Di buon grado, signora.

Ol. Oh, rìspondi sempre in questo modo! (escono)

SCENA II.

Una stanza nella casa di Olivia.

Entrano Maria e il Villico.

Mar. Te ne scongiuro, mettiti questa veste e questa barba: fagli credere di essere messer Topas il curato; fa subito; intanto andrò a cercare ser Tobia. (esce)

Vil. Bene, mi travestirò, e vorrei essere il prìmo che indossata avesse una somigliante zimarra. Non sono abbastanza pingue per ben compiere questa parte, nè magro abbastanza per essere riputato sagace teologo: ma il dire di un uomo che è [p. 115 modifica]onesto ed economo, val quanto dire che è zelante e religioso. Ecco i confederati. (entrano ser Tobia Belch e Maria)

Tob. Giove ti benedica, ottimo parroco!

Vil. Bonus dies, ser Tobia; poichè come il vecchio eremita di Praga, che non aveva mai veduto nè penne nè inchiostro, disse con tanto spirito alla nipote del re Gorboduco, quello che è è, così io sendo parroco, son parroco: altrimenti cosa sarei? E che cosa è l’essere?

Tob. Quanta sapienza!

Vil. Olà, dico... Sia pace in questa prigione.

Tob. Questo furfante lo contraffà a meraviglia; un ben arguto diavolo!

Mal. (da una camera interna) Chi chiama?

Vil. Messer Topas il curato, che viene a visitare il delirante Malvolio.

Mal. Messer Topas, messer Topas, buon messer Topas, andate da madonna.

Vil. Esci, iperbolico demone! Perchè cruci quell’uomo? Non parli tu mai che di femmine?

Tob. Ben detto, messer parroco.

Mal. Messer Topas, non vi fu mai uomo più oltraggiato: buon messer Topas, non crediate ch’io sia pazzo; essi mi han qui racchiuso fra tenebre spaventose.

Vil. Via, maledetto Satana! Io ti chiamo coi termini più modesti, perchè sono uomo tanto mansueto, che mi comporto cortesemente anche col diavolo. Tu dici che quella stanza è tenebrosa?

Mal. Come l’inferno, messer Topas.

Vil. Essa ha finestre che sono trasparenti come la paglia; e le pietre poste al sud-nord son luminose come l’ebano: di che dunque ti lagni?

Mal. Non son pazzo, messer Topas; io vi dico che non vi si vede.

Vil. Pazzo, tu erri: non vi sono altre tenebre che l’ignoranza in cui sei più avvolto, che non lo siano gli Egiziani nelle loro nebbie.

Mal. Io dico che questa casa è scura come l’ignoranza, quando anche l’ignoranza fosse scura come l’inferno; e dico che non vi fu mai uomo più indegnamente trattato: io non sono matto più che voi nol siate; ponetemi alla prova con qualche importante interrogazione.

Vil. Qual è l’opinione di Pitagora sulla specie volatile? [p. 116 modifica]

Mal. Che l’anìma di nostra nonna possa abitare nel corpo di un uccello.

Vil. Che pensi tu di tale opinione?

Mal. Penso più nobilmente dell’anima, e non accetto sì fatta credenza.

Vil. Addio; rimanti fra le tenebre: ta sosterrai le opinioni di Pitagora, prima che io ti creda rinsanito, e temerai di uccidere una beccaccia per paura di non fare oltraggio all’anima della nonna tua. Addio.

Mal. Ser Topas, ser Topas.....

Tob. Eccellentissimo messer Topas.

Mar. Avresti potuto compiere questa parte anche senza barba e senza veste; egli non ti vede.

Tob. Vagli a parlare colla tua voce naturale, e vienmi a dire cosa ti ha risposto: vorrei che ci ritirassimo dopo la mariuoleria che gli abbiam fatta. Se gli si può rendere la libertà senza danno, lo si faccia tosto, perch’io sono già abbastanza in mala vista a mia nipote, e non posso senza gravi rischi condurre questa celia più oltre. Ti aspetto nella mia stanza. (esce con Mar.)

Vil. (cantando) Robin, vago Robin, dimmi, come sta la tua signora?

Mal. Pazzo.....

Vil. La mia signora è scortese affè.

Mal. Pazzo.....

Vil. Oimè, perchè è tale?

Mal. Pazzo, dico.....

Vil. Ella ama un altro. — Chi chiama?

Mal. Buon pazzo, se mai avesti in cale il favor mio, fammi avere un lume, una penna, un calamaio e un po’ di carta: da gentiluomo come sono io te ne sarò riconoscente per tutta la vita.

Vil. Messer Malvolio?

Mal. Sì, mio buon pazzo.

Vil. Oimè, signore, come perdeste voi l’uso dei vostri cinque sensi?

Mal. Pazzo, non vi fu mai uomo di più insultato: io godo dei miei sensi al par di te, pazzo.

Vil. Al par di me? Dunque siete matto davvero se i vostri sensi somigliano a quelli di un demente.

Mal. Essi mi hanno racchiuso in queste tenebre come un insensato, e mi mandano curati ciuchi, e fanno tutto quello che possono per farmi smarrir l’intelletto. [p. 117 modifica]

Vil. Badate a quello che dite; il curato è anche qui. — (contraffacendone la voce) Malvolio, Malvolio; il Cielo ti renda l’uso della ragione! Procura di dormire, e lascia le tue vane ciance.

Mal. Messer Topas.....

Vil. Non parlate altro con lui, mio buon amico. (fingendo che sia il parroco che gli parli e rispondendogli) Chi, io, signore? Non io, signore. Dio sia con voi, buon messer Topas. — Amen. — Così farò, signore, così farò.

Mar. Pazzo, pazzo, pazzo, dico...

Vil. Oimè, signore, siate paziente. Che dite? Sono bistrattato perchè parlo con voi?

Mal. Buon pazzo, fammi avere quello che occorre per scrivere; ti dico che sono in senno come ogni altr’uomo d’Illiria.

Vil. Oimè, così fosse vero, signore.

Mal. Per questa mano, è vero. Caro pazzo, un poco d’inchiostro e di luce; e reca a madonna quel che io le scriverò. Tal messaggio ti sarà più fruttuoso di ogni altro che mai recassi.

Vil. Vi compiacerò. Ma ditemi il vero, non siete voi realmente insensato come sembrate essere? o fingete forse?

Mal. Credimi, non lo sono, il vero ti dico.

Vil. Non presterò fede ad un demente, finchè non gli abbia veduto il cervello. Vado a prender quello che chiedete.

Mal. Ne sarai altamente ricompensato: te ne supplico, va.

Vil. (cantando) «Esco, e fra un istante vi raggiungerò. Come l’antico Arlecchino, che con una spada di legno grida nella sua collera, ah, ah; come il figlio insensato dice al padre, forbisciti le unghie, così io per servirvi mi comporterò da folle. Addio, compare intenebrato». (esce)

SCENA III.

Il giardino di Olivia.

Entra Sebastiano.

Seb. Questa è ben aria ch’io respiro, e quello è pure il sole che mi rischiara. Ecco la perla che essa mi ha data; io la veggo, e quantunque circondato di maraviglie, provo stupore, ma non delirio. Dove sarà Antonio? Non ho potuto trovarlo all’albergo dell’Elefante, e solo vi ho appreso ch’egli ha percorsa tutta la città per venirmi a cercare. I suoi consigli potrebbero ora essere un tesoro per me; perocchè, sebbene la mia ragione d’accordo coi miei sensi possa conchiudere che qui vi è un equivoco, ma [p. 118 modifica]non pazzia, nondimeno le stranezze di quest’avventura soverchiano tanto ogni altro esempio, che sto quasi per dubitare dei miei occhi, e per ismentire la mia ragione che m’induce a riputar tutto possibile fuorchè una cosa, che noi siamo folli, io, o la signora. Però se essa lo fosse, non potrebbe reggere, come fa, la sua casa, trattare i suoi negozii, operare in tutto con tanta prudenza: qui vi è certo qualche enigma ch’io non so sciogliere; ma ecco lei stessa. (entra Olivia con un Prete)

Ol. Non censurate questa mia soverchia sollecitudine. Se le vostre intenzioni sono oneste, seguitemi tosto e venite con questo santo ministro alla cappella vicina: là alla presenza sua, ai piedi di un’immagine sacra, datemi la vostra fede, onde la mia anima inquieta possa trovar pace. Questo sacerdote terrà celata la nostra unione fino al momento in cui stimerete conveniente di renderla pubblica; e allora celebreremo le nostre nozze, con una solennità degna della mia nascita. — Che rispondete?

Seb. Acconsento a seguire questo santo ministro e ad accompagnarvi, e quando vi avrò impegnata la mia fede, essa sarà eterna.

Ol. Venite dunque, venerando ecclesiastico, e il Cielo rischiari di una luce propizia l’atto che sto per compiere. (escono)