La dodicesima notte o quel che vorrete/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA I.
La costa del mare.
Entrano Antonio e Sebastiano.
Ant. Voi non volete più rimanere, nè volete che vi accompagni?
Seb. No, ve ne prego; la mia stella getta sopra di me un sinistro chiarore: l’influenza maligna del mio destino potrebbe ottenebrare il vostro. Vi chiederò dunque per grazia di lasciarmi portar solo tutto il carico de’ miei dolori, avvegnachè sarebbe un male ricompensarvi il rovesciarne sopra di voi una parte.
Ant. Vogliate almeno dirmi in qual luogo intendete di andare.
Seb. No, no: il mio viaggio, sebben pensato, è una vera stravaganza. Pure avendo osservato in voi tanta discrezione cortese, e tanta compiacenza, m’indurrò a dirvene qualche cosa. Bisogna dunque che sappiate, Antonio, che il mio nome (che ora ho mutato in quello di Rodrigo) è Sebastiano; e che mio padre era quel Sebastiano di Messalina, di cui avrete certamente inteso parlare. Egli ha lasciato dopo di sè due figli, io e mia sorella nati entrambi nella medesima ora; e che se fosse piaciuto al Cielo, avremmo dovuto finir del pari la nostra vita. Ma voi cambiaste i miei destini ritraendomi da quelle onde dove mia sorella erasi annegata.
Ant. Oimè, funesto giorno!
Seb. Una fanciulla, signore, che sebbene si dicesse che moltissimo mi somigliava, era avuta per bella da tutti. Non si addice a me l’aver di lei l’idea che ne avevano gli altri: ma posso almeno arditamente affermare che ella aveva un’anima che l’invidia stessa sarebbe stata costretta a trovar bella. Ora però è morta, signore, ed ecco che al solo pensarvi i pianti scorrono a torrenti per le mie gote.
Ant. Perdonatemi, signore, per la ruvidezza con cui vi avrò trattato.
Seb. Ah! buon Antonio: scusate me invece per tutte le brighe che vi causai.
Ant. Se per prezzo della mia amicizia, non volete darmi un dispiacere, lasciatemi seguirvi e servirvi.
Seb. Se non volete distrugger l’opera vostra facendo morir quello che salvaste, non esigete ciò da me. Addio; il mio cuore è pieno di riconoscenza, ma mi sento sì debole, che male potrei esprimervela. Vi valga il mio silenzio. Addio; vado alla Corte del conte Orsino. (esce)
Ant. Il favore e la bontà di tutti gli Dei accompagnino i tuoi passi: ho molti nemici a quella Corte, senza di questo non tarderei a raggiungerviti... ma avvenga quello che si vuole, io ti amo tanto che per te tutti i pericoli mi sembrano un giuoco; e ti verrò dietro. (esce)
SCENA II.
Una strada.
Entra Viola; Malvolio la segue.
Mal. Non eravate voi dianzi con la contessa Olivia?
Viol. Sì, signore, e qui venni a lento passo.
Mal. Ella vi rimanda quest’anello, signore, che risparmiandomi la fatica di corrervi dietro, avreste potuto prendere voi stesso. Dice che dovete assicurare il signor vostro, ch’essa non lo ama, nè lo amerà mai, e vi proibisce di tornare a negoziare per lui, a meno che non sia per raccontarle in qual modo egli ha intesa la sua condanna: ora riprendete l’anello.
Viol. Essa lo ebbe da me, e nol ripiglierò.
Mal. Voi glielo deste per forza, ed ella vuole che vi sia reso. Se vale il pregio che vi chiniate, eccovelo ai piedi: se no, lo prenda chi vuole. (esce)
Viol. Io non mai le lasciai questo anello: qual è dunque la sua intenzione? Il destino nol voglia, si sarebbe ella invaghita di me! Certo mi guardava molto attentamente, e pareva che i suoi occhi esprimessero cose diverse da quelle che proferiva la sua lingua; poi non parlava che con voci interrotte, e in modo distratto. Ella mi ama certamente, e codesta è un’astuzia con cui m’invita a ritornare da lei. Un anello non è questo del mio signore; esso non gliene ha mandato alcuno, ed è a me che ella lo indirizza. Se ciò è, come è, povera infelice meglio sarebbe per lei di essersi innamorata d’un fantasima! Travestimento tu sei, lo veggo, un artifizio funesto dal quale il nemico del genere umano sa trar gran profitto. Quanto è facile a quegli che ha qualche vezzo per ingannare il cattivarsi il molle cuore delle femmine! Oimè è colpa della nostra fragilità, e non di noi: perchè, se noi siamo tali, è che tali fummo create. Come si svolgerà quest’intreccio? Il mio signore l’ama appassionatamente, ed io, povera fanciulla, sotto metamorfosi tanto strana, son del pari appassionatamente innamorata di lui. Ella, credendomi un uomo, di me s’invaghisce: a che riescirà ciò? Finchè offrirò le sembianze d’un uomo, mi è forza il disperare di poter ottenere l’amore del signor mio; ed essendo donna, oimè, quanti inutili sospiri esalerà la sfortunata Olivia! Oh tempo, tocca a te, e non a me lo sciogliere questo nodo: esso è troppo tenace pel mio ingegno. (esce)
SCENA III.
Una stanza nella casa di Olivia.
Entrano ser Tobia Belch e ser Andrea Maldigota.
Tob. Avvicinatevi, ser Andrea. Non essere a letto dopo mezzanotte è un esser levato per tempo, e diluculo surgere... tu sai il resto.
And. No, in verità, nol so: ma so che alzarsi tardi, val non alzarsi presto.
Tob. Falsa conchiusione: io l’abborro come un fiasco vuoto. Esser su dopo mezzanotte, e andar a letto allora, è un coricarsi per tempo: cosicchè l’andar a letto dopo mezzanotte, è un andar a letto di buon’ora. La nostra vita non è forse composta di quattro elementi?
And. In fede, lo dicono; ma io credo piuttosto che sia composta di mangiare e bere.
Tob. Tu se’ un dotto; mangiam dunque, e beviamo. — Olà, Marianna!.... Portaci un barile. (entra il Villico)
And. Viene il pazzo, in fede.
Vil. Come va, cuori miei? Vedeste mai il ritratto di noi tre?
Tob. Ben giunto, ciuco. Fanne udire il tuo raglio.
And. In fede, il pazzo ha buona voce. Vorrei per quaranta scellini posseder le tue gambe e la tua voce. In verità, tu fosti molto grazioso la scorsa notte, parlando di Pigrogromitus, del Vapiani, dell’Equinozio, di Quenbus, ecc. ecc.: fu bello, fu bello. Io ti mandai dodici soldi col ministero della tua amante: li avesti?
Vil. Ne investii la gonna della mia amorosità, che ha la mano bianca più delle gote del crepuscolo. La casa dei Mirmidoni però non è una taverna.
And. Ottima sentenza. Ora canta.
Tob. Canta, eccoti altri dodici soldi.
And. Ed eccoti altre mie monete ancora: se un cavaliere dà...
Vil. Volete una canzon d’amore, o una canzone di vita spensierata?
Tob. Una canzon d’amore, una canzon di amore.
And. Sì, sì; io pure abborro la vita senza pensieri.
Canzone.
Vil. «Oh amante mia, dove sei tu vagante? Fermati ed ascolta: il tuo sincero amatore si avanza, il tuo amatore che sa cantare in tutti i tuoni. Non andar più lungo mio bene; amanti che viaggiano s’incontrano presto, ed è ciò che sa il figliuolo di ogni uomo saggio».
And. Eccellente, ottimo, in fede!
Tob. Buono, buono!
Vil. «Che cos’è l’amore? Esso non è fatto per l’avvenire: la gioia presente dà a ridere nel presente, quello che accader deve è incerto: messe non vi è che si possa raccogliere dagli indugi! Vieni dunque e porgimi venti baci, perchè la giovinezza è una stoffa che poco dura».
And. Una voce melliflua, quant’è vero che son cavaliere.
Tob. Un alito contagioso.
And. Dolcissimo e contagioso, in fede.
Tob. Ripetiamo la sua canzone in tre per sentire come riesce. (cantano; entra Maria)
Mar. Qual concerto bestiale è questo? Se la mia padrona non ha chiamato Malvolio, ordinandovi di cacciarvi fuori di casa, non mi credete mai più.
Tob. La vostra padrona è una scipita, Malvolio una bestia, e noi tre uomini allegri. Non le sono io consanguineo? Non son del suo sangue? Vergogna! Eravi un uomo in Babilonia, ecc. ecc. (cantando)
Vil. Per la mia morte, il cavaliere è d’un umore ammirabile.
And. Sì; ha molto spirito quand’è in buona vena, ed io pure: egli recita da pazzo con maggior grazia di me, ma io mostro maggior verità.
Tob. Oh! Il dodicesimo giorno di dicembre. (cantando)
Mar. Per l’amor di Dio, tacete. (entra Malvolio)
Mal. Miei signori, siete matti, o cosa siete? Non avete nè ingegno, nè modi, nè gentilezza per starvene a far tanto strepito di notte? Volete convertire in taverna la casa di madonna, gridando con voci impudenti procaci canzoni? Non sentite dunque nessun rispetto pel luogo, per le persone e pei tempi?
Tob. Conservammo il tempo, messere, cantando. Andate ad appiccarvi.
Mar. Ser Tobia, bisogna ch’io vi parli schietto. La mia signora mi impose di dirvi, che sebbene ella vi ricevette come suo parente, non è però imparentata per nulla coi vostri disordini. Se potete comportarvi onestamente sarete sempre il benvenuto in questa casa; se no, volendo voi accomiatarvene, ella non si ristarrà dal dirvi addio.
Tob. Addio, caro cuore, dappoichè convien ch’io parta.
Mar. No, buon ser Tobia.
Vil. I suoi occhi dimostrano che i suoi giorni son quasi trascorsi.
Mal. È proprio vero?
Tob. Ma io non morirò.
Vil. Ser Tobia, voi in ciò mentite.
Mal. Ed io son disposto a credervi.
Tob. Gli debbo io dire d’andarsene? (cantando)
Vil. E se voi lo faceste?
Tob. Gli debbo dire d’andarsene, senza altri riguardi?
Vil. Oh no, no, no, voi non l’osereste.
Tob. Dunque mentite, signore. Siete forse qualche cosa di più che un intendente? Credete che per fare il divoto si conquida il mondo? Itevene in vostra malora, e tu, Maria, recaci vino.
Mal. Fanciulla Maria, se voi faceste qualche caso del favore della nostra signora, non vi prestereste a servir costoro; ma la mia signora ne sarà istrutta, ve ne assicuro. (esce)
And. Sfidarlo a duello, e poi mancargli di parola, e farsi beffe di lui, sarebbe opera tanto buona, quanto il ber birra, allorchè si ha fame.
Tob. Fatelo, cavaliere; io stenderò il cartello, e gli farò conoscere a viva voce il vostro sdegno.
Mar. Buon ser Tobia, siate paziente per questa notte, perchè dall’istante in cui è venuto il giovine paggio dalla padrona infino ad ora ella si è mantenuta di un umore pessimo. Rispetto a Malvolio, lasciatelo acconciare da me: se non me ne farò giuoco in guisa da renderlo di proverbio, di pubblico riso, credete ch’io non ho neppur tanto spirito, quanto ce ne occorre per andar a letto: so bene di poterlo fare.
Tob. Ditecene, ditecene qualche cosa.
Mar. Veramente, signore, egli è qualche volta una specie di puritano.
And. Oh! s’io l’avessi creduto, l’avrei battuto come un mastino.
Tob. Che? Per essere un puritano? La tua sublime ragione, caro cavaliere?
And. Non ho ragioni sublimi per ciò, ma ne ho buone abbastanza.
Mar. È un demonio di puritano, o una specie d’uomo che sa molto bene adattarsi alle circostanze: uno sciocco pieno d’affettazione che ha appresi a memoria gli affari dello Stato e se ne fa bello come cosa imparata sui libri: un uomo che ha la più alta opinione di sè, e che si reputa sì pieno di celesti doti, che è divenuto per lui di fede, che non si possa vederlo senza amarlo: è per quest’ultima presunzione ch’io lo punirò.
Tob. Che farai?
Mar. Porrò sulla sua via qualche epistola d’amore in istile oscuro ed incerto, ma nella quale al colore della sua barba, alla forma delle sue gambe, al suo portamento, all’espressione dei suoi occhi, alla sua tinta, alla sua fronte, egli crederà di riconoscere se stesso. So scrivere come fa vostra nipote, e sarebbe difficile anche a noi il distinguere il nostro carattere in una lettera che avessimo vergato e della quale non ci ricordassimo più.
Tob. Ottimamente! Intravvedo la frode.
And. Io pur la fiuto.
Tob. Egli crederà dalla vostra lettera che mia nipote sia innamorata di lui.
Mar. Tale è il mio divisamente.
And. E diverrà un ciuco.
Mar. Ciuco non ne dubito.
And. Cosa ammirabile.
Mar. Sollazzo regio, ve ne assicuro: la mia medicina opererà sopra di esso. Vi metterò entrambi in imboscata, e il pazzo farà il terzo, dove troverà la lettera: osserverete allora come egli l’interpreterà. Per questa notte andiamo a riposarci e a vagheggiare il nostro disegno. Addio.
Tob. Buona notte, Pentalisea. (Mar. esce)
And. È una cara giovine in fede.
Tob. Un’eccellente fanciulla, e che mi adora. Che ne dite?
And. Io pure sono stato adorato.
Tob. Andiamo a letto, cavaliere. — Tu avrai bisogno di mandar a chiedere di nuovo denaro.
And. Se non posso ottenere vostra nipote, verso in un mar di guai.
Tob. Manda a prender denaro, cavaliere, e se non giungerai alfine a possederla, chiamami cane.
And. Se non lo fo, non credermi mai più.
Tob. Andiamo; vuo’ bruciare alcuni bicchieri di rum; è omai troppo tardi per coricarci. Andiamo. (escono)
SCENA V.
Una stanza nel palazzo del duca.
Entrano il Duca, Viola, Curio ed altri.
Duc. Fateci udire un po’ di musica. — Buon giorno, miei amici. — Buon Cesario, canta quell’aria patetica che udimmo la sera scorsa. Mi sembrò che essa alleggerisce molto i miei mali, assai più che nol fanno quelle canzoni scipite che soglionsi per lo più intendere. Cantane almeno una strofa.
Cur. Col permesso di Vostra Altezza, qui non vi è quello che potrebbe cantarla.
Duc. Chi è questi?
Cur. Festo il buffone, signore: un pazzo che ricreava molto il padre di Olivia: ei dev’esser poco lontano.
Duc. Cercalo, e intanto udiamo la musica. (Curio esce; la musica incomincia) Avvicinati, garzone, e se mai tu ami, nei dolci impeti della tua passione ricordati di me, perchè tutti i veri amanti sono come io, mutabili e cangianti in ogni cosa, fuorchè nella costanza della memoria dell’oggetto amato. — Come ti sembra quell’aria?
Viol. Essa risuona come un’eco nei cuore che serve di trono all’amore.
Duc. Ben dici, e quantunque tanto giovine, scommetterei che tu hai già amato. È egli vero?
Viol. Un poco.
Duc. Qual donna era.
Viol. Somigliava a voi.
Duc. Essa non era degna di te. Di quale età?
Viol. Della vostra, signore.
Duc. Troppo vecchia, pel Cielo! La donna deve eleggere un uomo che abbia più anni di lei, se vuole conservar sempre un posto nel suo cuore. Perocchè mio caro, noi abbiamo un bel vantare il nostro sesso; siamo più leggieri e più volubili delle femmine, e l’amore cessa più presto in noi che in loro.
Viol. Io pur lo penso.
Duc. Abbi dunque cara che la tua amante sia più giovine di te, o l’affezione tua non potrà durar molto. Le donne son come le rose, fiorite una volta, appassiscono, e cadono sparpagliate.
Viol. Oimè, pur troppo è così. (rientra Curio col Villico)
Duc. Mio amico, ripetine la canzone che ne facesti intendere la sera scorsa. Sta attento, Cesario: ella è antica e semplice. Le filatrici e le fanciulle sogliono cantarla, ed essa dipinge bene l’innocenza dell’amore nella semplicità delle età prime.
Vil. Siete parato, messere?
Duc. Sì, canta. (musica)
Canzone.
Vil. «Vieni, morte, vieni e ch’io sia adagiato sotto un funebre cipresso: estinguiti soffio della mia vita. Una bellezza crudele mi ha ucciso: spargete di foglie il mio drappo mortuario: non mai fu mortale più infelice di me. Non fiori, non un dolce fiore sul mio tristo cataletto. Non un amico, non un solo amico che visiti la mia tomba sfortunata. Per risparmiare mille e mille sospiri, oh ponetemi in un lungo sconosciuto, dove l’amante fedele e malinconico, non trovi mai il mio sepolcro per annaffiarlo colle sue lagrime».
Duc. Eccoti, per le tue fatiche.
Vil. Non fatiche, signore, ho piacere a cantare.
Duc. Compenserò dunque il tuo piacere.
Vil. È un altro modo sebbene riesca allo stesso.
Duc. Ora vattene.
Vil. Il Dio dalla malinconia ti protegga, e il sartore ti faccia un abito di taffetà cangiante, avvegnachè l’anima tua è un vero opalo. Addio. (esce)
Duc. Voi altri escite. (escono tutti tranne Viola) Anche una volta, Cesario. Va da quella beltà sovrana e crudele, e dille che il mio amore più nobile che i tesori dell’universo, non pone alcun prezzo a un’estensione di terra e di fango: dille ch’io non fo alcun caso dei doni di cui la fortuna l’ha colmata, ma che è verso di lei sola che è attirata l’anima mia.
Viol. Ma, signore, se ella non può amarvi?
Duc. Così non debbo rispondermi.
Viol. Ma se così vi rispondesse cosa direste? Imaginate che una qualche dama, come ve n’ha forse, soffra per amor vostro tutti quei tormenti che voi soffrite per Olivia; non potendo riamarla, perchè non glielo dichiarereste? E perchè non dovrebbe ella sopportare il vostro rifiuto?
Duc. Non vi è cuore di donna, che possa sostenere i palpiti di una passione così forte come quella da cui io sono tormentato. Non vi è cuore di donna abbastanza vasto per contenere tanto amore: esse mancano delle necessarie facoltà ad una così grande passione. Oimè! il loro amore non è che un appetito dei sensi; non è che uno stimolo al loro palato che illeso lascia il loro cuore; tal amore si estingue nella sazietà, finisce coll’avversione. Ma il mio, ampio come il mare, è come il mare inesauribile. Non fare alcun paragone fra l’amore che una donna può concepire per me, e quello che io nutro per Olivia.
Viol. Sì, ma io so...
Duc. Che cosa?
Viol. Conosco troppo bene l’amore che le donne provano per gli uomini. Vi do fede che esse hanno un cuor sincero come il nostro. Mio padre aveva una figlia che amava un uomo, com’io amerei Vostra Altezza se fossi una donna.
Duc. E quale è la di lei storia?
Viol. Non è per anche scritta, signore. Non mai ella le dichiarò il suo amore, ma lo lasciò nascosto come il verme nella boccia a divorarle le rose delle guance: ella languiva nel suo abbandono, e pallida e melanconica trascorreva i dì e gli anni. Non è questo amore, signore? Noi altri uomini possiamo dirne di più, giurare di più, ma le nostre dimostrazioni sorpassano il nostro volere, e proviamo molto coi giuramenti, poco colle opere.
Duc. Ma tua sorella è morta di passione forse?
Viol. Son tutto quello che rimane di fanciulle, nella casa di mio padre, e di fratelli anche, e nondimeno non so... Debbo andare, signore, da quella dama?
Duc. Sì, va, vola, offrile questo gioiello, e dille che il mio affetto non può venir meno, nè tollerare alcun rifiuto. (escono)
SCENA VI.
Il giardino di Olivia.
Entrano ser Tobia Belch, ser Andrea Maldigota e Fabiano.
Tob. Va per la tua via, signor Fabiano...
Fab. V’andrò, e se perdo un solo scrupolo di questo sollazzo vuo’ essere corroso, fino a morir di malinconia.
Tob. Non saresti lieto di vedere quel furfante a patire qualche grave cruccio?
Fab. Ne salterei di gioia: voi sapete che ei mi fece perdere il favore della mia signora nell’occasione di quel combattimento di orsi.
Tob. Per metterlo in furore, riporremo gli orsi in campo, e lo vedremo per ira divenire di tutti i colori: non è vero che faremo così, ser Andrea?
And. Se nol facessimo, meriteremmo la morte.
Tob. S’avanza il piccolo serpe. (entra Maria) Come va, mia ortica d’India?
Mar. Nascondetevi fra quei cespugli; Malvolio sta per venire; lo trovai al sole mentre notava il proprio portamento nella ombra che disegnava: nascondetevi ed osservatelo, se volete ridere, perchè son sicura che questa lettera farà di lui un vero idiota. Andate. (gli uomini si nascondono) Tu sta qui (gettando per terra la lettera) perchè veggo venir la trota che dobbiamo prendere col solletico. (esce; entra Malvolio)
Mal. Tutto è caso: non vi è che fortuna e sfortuna in questo mondo. Maria mi disse una volta che la sua signora aveva qual che inclinazione per me, ed ella stessa mi soggiunse, che se mai avesse dovuto innamorarsi, invaghita solo si sarebbe di un uomo del mio aspetto. Di più, la prima mi usa molti riguardi, che oramai non so come interpretare.
Tob. Quel furfante è presuntuoso.
Fab. I suoi orgogliosi pensieri lo rendono alquanto ridicolo. Com’ei fa pompa della sua vana piuma!
And. Per questa luce, darò la mala notte a quel malandrino.
Tob. Tacete.
Mal. Essere il conte Malvolio...
Tob. Ah maledetto!
And. Un colpo di pistola nella gola.
Tob. Tacciamo, tacciamo!
Mal. Ve ne sono altri esempi: la dama di Strachy sposò il suo cameriere.
And. Per Jezabel, omai scoppio.
Fab. Oh egli vi si immerge con tutto il corpo: l’imaginazione l’ha già portato via.
Mal. Dopo essere stato tre mesi suo sposo nella grandezza...
Tob. Oh avessi una fionda, per lanciargli una pietra in un occhio!
Mal. Chiamando i miei uffiziali intorno a me vestito di splendita zimarra, escito dal letto in cui avrei lasciata Olivia addormentata...
Tob. Fuoco e zolfo.
Fab. Tacciamo.
Mal. Assumerei il carattere del mio grado cospicuo, e dopo aver vibrato sopra di essi uno sguardo sprezzante, direi loro, che conosco il mio posto, e che vorrei ch’essi del pari conoscessero il loro. Manderei quindi a cercare il mio parente Tobia...
Tob. Catene e ceppi!
Fab. Silenzio.
Mal. E sette dei miei servi obbedendo tosto andrebbero a lui. Aspettandolo io mi mostrerei austero, e passerei forse il tempo, caricando l’orologio, o ricreandomi con qualche gioiello, Tobia poi s’avanzerebbe, e allora quanti inchini non mi verria facendo?
Tob. Lascieremo vivere costui?
Fab. Sebbene sia difficile contenersi, sforziamoci di farlo.
Mal. Io gli stenderei la mano con contegno di protezione, correggendo il mio sorriso familiare con uno sguardo rigido e imperioso.....
Tob. Non andrò a dargli una gotata?
Mal. E gli direi: Cugino Tobia, poichè la fortuna ha gettata su di me vostra nipote, datemi il permesso di parlarvi.
Tob. Che, che?
Mal. Voi dovete emendarvi da quelle ubbriachezze.
Tob. Scabbia infernale!
Fab. Silenzio, o romperem le fila della nostra tela.
Mal. Oltre ciò, voi scipate i tesori del vostro tempo con un imbelle cavaliere.
And. Questo tocca a me, ve l’assicuro.
Mal. Un ser Andrea.....
And. Lo sapevo che ero io, perchè molti mi chiamano imbelle.
Mal. Ma che è questo? (vedendo la lettera)
Fab. Ora la beccaccia sta per essere accalappiata.
Tob. Oh silenzio, e il genio dell’allegria gli faccia leggere ad alta voce quello scritto.
Mal. Per la mia vita, è la mano di madonna: questi sono i suoi c, i suoi u e i suoi t; e così ella fa il P grande. È senza dubbio la di lei mano.
And. I suoi c, i suoi u, i suoi t: che diavolo dice?
Mal. (leggendo) Allo sconosciuto mio amore questa lettera, e i miei teneri voti. Son le sue frasi!... Col tuo permesso, cera, (disuggellando) l’impronta che tu porti è quella con cui ella suole suggellar le sue lettere: è madonna, non v’ha dubbio: a chi scriverà?
Fab. Egli è già in estasi.
Mal. (leggendo) Giove sa ch’io amo: ma chi? Labbra, tacetevi, niuno uomo debbe conoscerlo. Niuno uomo debbe conoscerlo? Che cosa segue? La misura è cangiata! Niun uomo debbe conoscerlo? E se quest’uomo fossi tu, Malvolio?
Tob. Appiccati, disgraziato.
Mal. (leggendo) Potrei comandare a quegli che adoro: ma il silenzio, aguzzo come il pugnale di Lucrezia, squarcia il mio petto senza insanguinarlo. M. O A. I. governa i miei destini.
Fab. È un bell’enigma!
Tob. È un’eccellente fanciulla colei.
Mal. M. O. A. I. governa i miei destini? Vediamo il resto, vediamo il resto.
Fab. Che piatto di veleno essa le ha imbandito!
Tob. E con quale avidità costui se ne sfama!
Mal. Potrei comandare a quegli che adoro, infatti ella può comandarmi; io la servo, ella è la mia signora. Ciò è chiaro ad ogni intelletto, e qui non può essere equivoco. Ma che significano queste lettere alfabetiche? Se potessi trovare qualche allusione al mio nome..... Proviamoci: M. O. A. I....
Tob. Sì, sì, cerca di spiegare l’indovinello.
Fab. È cosa da far ridere un cane.
Mal. M... Malvolio; M... così comincia il mio nome.
Fab. Nol dissi ch’ei verrebbe a capo anche di quelle lettere? Peccato non sia archeologo.
Mal. M... Ma quale attinenza col resto? Dovrebbe essere un A dopo, e invece è un O.
Fab. E l’O terminerà la cosa, io spero1.
Tob. Oh! io lo bastonerò tanto, che glielo farò gridare molte volte.
Mal. Segno poscia un I.
Fab. E quello è un grande impaccio!
Mal. M. O. A. I., ciò mi turba e nondimeno tirando la cosa potrebbe riferirsi a me, perchè ognuna di queste lettere entra nel mio nome. Leggiamo il resto della prosa. — Se questa lettera cade nelle tue mani, meditala. Per ricchezze io son posta al disopra di te: ma non tremare di questa disuguaglianza. Alcuni nascono grandi, altri, mercè lunghi sforzi, giungono alla grandezza, e ve n’ha a cui la grandezza di per sè si offre. Il tuo destino ti apre le braccia; la tua audacia e il tuo coraggio ti facciano slanciare in esse. E per avvezzarti a quello che probabilmente diverrai, sollevati al disopra della tua umile oscurità, e mostrati altero. Sii aspro con mio zio, superbo coi miei domestici: favella dei più alti negozii dello Stato, e mostrati in tutto uomo di distinta progenie. Quella che ti dà questi consigli sospira per te. Rimembrati di colei che lodò le tue calze gialle, e desiderò di vederle cinte da una splendida giarrettiera. Pensa a ciò ch’io dico. Va oltre; la tua fortuna è fatta, se vuoi; se nol vuoi, rimanti semplice maggiordomo, ed erra confuso fra la schiera dei valletti. Addio. Quella che vorrebbe mutare il suo stato col tuo, e servirti. La fortunata infelice. — La luce del dì non è più chiara: questo è palpabile. Diverrò superbo; leggerò gli scrittori di politica, domerò Tobia, e non riguardando mai più ai miei antichi conoscenti, farò di me un uomo perfetto. Non vi ha dubbio; tutto concorre a provarmi che la mia signora, è invaghita di me: ella lodava non ha molto le mie calze; celebrava le mie gambe, e con questa lettera mi appalesa il suo amore, imponendomi d’uniformarmi ai suoi sentimenti. Ringrazio la mia stella; sono felice. Farò pompa di me fra poco con giarrettiere fulgidissime. Lode a Giove e alla mia stella. Ma vi è un’altra proscritta: leggiamola. È impossibile che tu non indovini chi sono. Ora se corrispondi al mio amore, mostramelo col tuo sorriso, con quel sorriso che ti si addice a meraviglia; sorridi perpetuamente al mio cospetto, mio dolce amico, te ne scongiuro. Giove, ti ringrazio. — Sorriderò, farò ogni cosa che tu voglia ch’io faccia. (esce)
Fab. Non darei la mia parte di tal scena, per una pensione di qualche milione che mi dovesse pagare il sofì.
Tob. Sposerei quella fanciulla, solo per questo stratagemma.
And. Ed io pure.
Tob. E non le chiederei altra dote, che una seconda beffa simile.
And. Nè di più le dimanderei io. (entra Maria)
Fab. Ecco la nostra esperta deluditrice degli stolti.
Tob. Vuoi tu pormi i piedi sul collo?
And. O piuttosto sul mio?
Tob. Debbo giuocare la mia libertà a pari o caffo, e divenirti schiavo?
And. O il debbo far io?
Tob. Tu l’hai posto in tali imaginazioni, che quando esse lo abbandoneranno, egli ne impazzirà.
Mar. Dite il vero, fu grazioso l’effetto? Operò su di lui il farmaco?
Tob. Come l’acquavita in una comare.
Mar. Se volete vedere i frutti di tal trovato siate presenti al suo primo incontro colla mia signora. Ei le anderà dinanzi in calze gialle, colore ch’essa abborre, e in giarrettiere dorate, moda che detesta, e le farà sorrisi, che si adatteranno così male al di lei stato di tristezza, che impossibile è che non ne risulti per costui il maggior disprezzo. Se siete vaghi di tale scena seguitemi.
Tob. Fino alle porte del tartaro, graziosissimo diavoletto.
And. Nè io mi perderò a zoppicare. (escono)
Note
- ↑ Alludente all’interiezione del dolore.