La desinenza in A (1884)/Margine alla Desinenza in A
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MARGINE ALLA “DESINENZA IN A„
¿Da qual caminetto di letterato o banco di drogherìa, da qual latrina di gazzettiere o biblioteca in saccheggio bonghiano, hai tù, mio temerario editore, saputo salvarmi questa copia rarìssima della prima edizione della «Desinenza in A», che t’intestasti di ristampare?
¡Vedi quanto è làcera e unta! ¡quanto è macchiata e scorbiata!
Nelle sue pàgine, come in suola alpinìstica irta di chiodi, scorgi e fiuti la traccia del lunghissimo giro che ha fatto per ritornare a mè. Serba essa il meretricio profumo del boudoir della dama e il tanfo carcerario della caserma; e cèneri dell’ozio elegante (la sigaretta) e il pelime del dotto. Io vi ritrovo il baffo de’ polpastrelli della cuoca che se la leggeva a voce alta e tenèndola stretta, per non lasciarsi almeno sfuggire il suono d’idèe che non arrivava a comprèndere, e lo sgraffio furioso della padrona di lei che le avèa fin troppo comprese; io v’incontro la tabaccosa goccia, caduta insieme agli occhiali dal naso del mio vecchio maestro di belle lèttere che blandamente ci si appisolava compassionàndomi, e la gualcitura del criticuccio novello che la scagliava lontano da sè al primo dubbio che l’autore fosse men bestia di quanto ei sperava.
Nè solamente indovino ma leggo. Segni in matita di tutti i colori, pudiche cancellature effetto d’impudicizia, punti esclamativi, e, più ancora, d’interrogazione, postille e paraffi adulatorii e ingiuriosi, stèndono sulle pàgine della rèduce copia una ragnaja d’interpretazioni e di note che più grottesca e contraddicèntesi non èbbero Dante e il Burchiello.
¿Chi siete voi, mièi inèditi crìtici? In questo ripescato esemplare, nè il frontespizio nè i màrgini han mantenuto le vostre riveritìssime firme. Ogni suo ùltimo possessore - imitando quanto si tenta ora di fare nella genealogìa letteraria, a differenza della gentilizia in cui i nipoti gènerano i nonni - raschiò diligentemente il nome dell’antecessore. Senonchè tutti io ringrazio e miti e spietati, perocchè a me giova tanto la lìrica di chi mi ama quanto la sàtira di chi m’odia. Per pensare, per scrivere, per vivere intellettualmente mi è indispensàbile che le molècole, ora pigre, del mio cervello, riaquistino la primitiva rapidità e combustibilità. Venga la spinta dall’applàuso, venga dall’oltraggio, a mè basta che non difetti. Ad un morso di cane, Gerolamo Cardano, bizzarramente grande, dovette (com’egli narra) il suo ingegno; a quello dei crìtici dèbbono il loro non pochi scrittori. Un vento infatti è la crìtica, che, se i mòccoli spegne, ingagliarda i falò.
Non se ne offendano, tuttavia, i miei postillatori benèvoli; tù Cletto Arrighi, tù Primo Levi, tù Perelli, tù Paolo Mantegazza, tù Cameroni, tù Capuana, tù Màyor. Oltre la riconoscenza del letterato, vi ha quella pure dell’uomo e questa è tutta per voi. Se la frusta ed il pùngolo instìgano il sangue e più spedito lo rèndono a’ suòi uffici, lo plutonizza ancor meglio il bacio, senapismo d’affetto. E ciò dico, mentre rammèmoro in special modo coloro che hanno e saputo lodarmi senza l’ingiuria dell’adulazione e fatto spiccare il mio disadorno pensiero nella cornice del proprio. Vorrèi anzi ammirare le loro felici pensate, colle mie fuse, nella presente edizione; mi ci provài; ma ¡mi perdònino! la soluzione era sàtura già, nè più c’entrava una sola mica di sale. Prometto loro però di saccheggiarli alla prima occasione. Di memoria non manco nè di audacia.
Mi ajùtino intanto a discùter coi loro e miei avversari, i postillatori scontenti. Nè a questi risponderèi per le stampe se sapessi dove stan tutti di casa. Contrariamente al costituzionale principio della pubblicità ne’ giudizi, io preferisco trattare le letterarie mie càuse a porte chiuse. Qui però, del nemico, non si scorge che l’arme. Sono quindi costretto, per farmi udire da alcuni, a suonare, quale campana, per tutti.
Chiamando dunque in soccorso la scienza di Rosellini e di Champollion per decifrare la scarabocchiatura, a penna, a matita, ad unghia, che copre i lembi di questa bandiera stracciata, e cercando di sgarbugliare, coll’arcolajo della riflessione, tanta matassa di segni, sembrami che, come lavoro preliminare, la si potrebbe partire in due grandi gomitoli - quello cioè che s’avvolge sul generale pensiero del libro e quello sulla sua forma, che è quanto dire sulla idèa al minuto.
E, cominciando dall’ùltimo, e facendogli sopportare una seconda chirùrgica operazione, io mi arbitrerò anzitutto di collocare l’ Opposizione della mia nessuna Maestà, come la conquistatrice acies romana, in trè file - una dei saggiatori della purezza delle parole, l’altra degli investigatori della castità della frase, la terza de’ stimatori della qualità dello stile. Come vedete, per spartizioni e per tagli io non la cedo a un beccajo... nè ad un metafisico.
I nemici non sono pochi. Ma, ¡su le màniche! e avanti. Non ho coraggio bastante per aver paura.
Si affaccia prima la pigmèa e sparuta (perchè cibata di pura crusca) fanteria de’ gramàtici, la penna in resta, la brachetta fuori. Prèndersela con costoro — ùltimo avanzo di un’oste già debellata — gli è come azzuffarsi colle ombre del cardinal Bembo e di Benedetto Varchi. Non me ne òccupo quindi che come di partita pro-memoria in un bilancio. Questa schiera è composta, o, a dir meglio, era or fà qualche anno, di tutti coloro che possedèvano fede accadèmica di miserabilità intellettuale, di coloro che, non sapendo far libri, facèvano dizionari e s’inquietàvano per la corrotta italianità e pei dialettismi non trattenuti da alcuna forca e per le stesse nuove scoperte apportatrici di vocàboli nuovi. Pur di non dire «vagone» avrèbbero sempre viaggiato in vettura. Èrano, in gergo scientifico, chiamati cultori della istruzione, forse perchè incaricàvansi di strappare le pianticine novelle per vedere se mèttean bene radice. Rondàvano in avvisaglia, con passo di sùghero, e quando accorgèvansi che qualche scrittore cercava introdurre nei gramaticali confini da essi riputati propri, merce non nominata nelle loro tariffe, lo attorniàvano, assaltàvanlo, arrestàvanlo schiamazzando quali oche.
E: «quella è di legge», «questa è di contrabbando», affannàvansi, que’ gabellieri, a sfilare e palpare ogni parola di un libro, a stemperare, entro i lor stacci, i periodi di un pòvero autore finchè ne colasse una broda completamente sciapa, incolora, inodora. Nè, per essi, serviva la scusa della analogìa, la raccomandazione del buon senso, l’invito della necessità. Permettendo, ad esempio, l’onomatopèico «cricch» perchè si leggèa a pàgina tale, linea tal’altra del lor ricettario, proibivano irremissibilmente il suo stretto parente «cracch», non trovàndosi esso in nessuna parte del mastro del loro sapere. L’òttimo autore, secondo tali notài spacciàntisi per legislatori, non dovèa aver orecchio che pei rumori e pei suoni protocollati, udir quindi eternamente la zampogna e il liuto, non il pianoforte mai. Fuor di Toscana, anzi di Firenze, anzi di Palazzo Riccardi, non era letteraria salute. Poichè Arno non diede l’aqua con cui fu bollito il proto-risotto ed impastato il capo-stipite dei panettoni, Milano era tenuta di abolir senza più quelle sue antiche ghiottonerie non previste dalle edizioni «dal miglior fior ne coglie» per non mèttersi a rischio di nominarle, salvochè non si fosse addattata a sostituirvi i più leggittimi nomi di «riso giallo» e di «pan balestrone.» Così, se c’era scrittore che ancora trovasse in isbaglio, qualche efficace metàfora la quale non fosse catalogata tra «gli impacci del Rosso» e «gli avanzi del grosso Cattani o del Cibacca;» tra «il regno di Cornovaglia» e i viaggi «a Lodi, a Piacenza, a Carpi, in Picardia, a Calcinaja, a Volterra; «tra il «mangiar spinaci» e «l’arruffar matasse» e tutto il resto della ciurma galeotta del vocabolario toscano, ¡guài se l’avesse pur tollerata! dovèa immediatamente cacciarla; pena la Crusca negli occhi ed il Frullone sul capiro, irati di non potere, per lui, russare di sèguito la governativa prebenda.
Che io molto non fossi nelle grazie di simili egrege persone (uòmini meno di lèttere che di parole) è più chiaro della loro «chiarissimità» ora buja. Non vi ha scrittore, sempre s’intende, al saggio della loro pietra di paragone, che era poi una mola mugnaja, più di mè impuro. Nè io davvero, mi sono mai incomodato a cercare, per le parole che adopro, maggiori difese di quelle che danno le stesse parole accoppiate, cioè del pensiero che esprimono, ¿Cosa infatti avrebbe valso ripètere a que’ bacalari per la millèsima volta, che la lingua naque prima della scrittura e l’una e l’altra innanzi la règola? ¿che l’Italia stette benìssimo senza gramàtiche tre sècoli buoni e ci sarebbe potuta star sempre? ¿che quelle clàssiche eleganze da essi additate a modello, capestrerie come chiamàvanle con vocàbolo affatto degno della loro parlata, non èrano, il più delle volte, che solecismi solenni (nè noi ce ne scandolezziamo) maggiori assài di quelli che possa creare un originale stilista? E, ancora: ¿che avrebbe giovato ricantar loro sul motivo di Orazio (ut sylva foliis ecc.), che un idioma, come qualsiasi altro mortale frutto, è destinato, se non spègnesi in germe, a percòrrere l’intero suo ciclo fino alla maturanza completa, fino alla conchiusiva caduta dall’àlbero della vita, e che l’ùnico mezzo di evitargli una ràpida morte, è di trasfòndergli continuamente umore, imitando Dante, che colla falce del giudizio mieteva da ogni sottolingua italiana ed anche non itahana le spighe della nazionale favella? ¿che avrebbe, infine, servito provare loro statisticamente che non è tanto la qualità della materia impiegata quanto l’ingegno di chi la foggia e coòrdina che fà l’eccellenza di un’òpera d’arte, cosicchè alla domanda - qual sia la miglior lingua - si può sempre rispòndere: leggete Shakspeare, è l’inglese; leggete Richter, è il tedesco: è l’italiano con Fòscolo; è il milanese con Porta. -?
Ripeto: non avrebbe giovato ricordar loro tanto, poichè era vano sperare che gente la quale non s’impensieriva che dei mattoni linguistici, si accorgesse che, tutti insieme, tendèvano a rappresentar qualche idèa, a formare un letterario edificio. Interamente quindi perduto, per essi, sarebbe stato quanto ho già detto e quanto sto qui per soggiùngere a titolo di buona misura.
E il contentino è questo. Pochi tra i grandi autori, gloria dell’umanità, hanno schivato le ire dei critici loro contemporanei tentanti di impor la cavezza al genio, e quasi tutti si vendicàrono, dannando i lor zoiletti all’eterno ridicolo. Ora, stà il curiosissimo fatto, che quelli autori siano appunto i più spesso mostrati ad esempio dai successori dei berteggiati, a volta loro da berteggiarsi. E, davvero, quel venosino col quale la falsa critica fà tanto chiasso, volteggiàndolo minacciosa intorno alla testa dei novellini scrittori, la ha già bastonata senza misericordia; quel fiero ghibellino cui essa domanda, per ogni suo pasto da orco, e zanne e ventricolo, l’ha fatta più volte tremare colla maestosa sua voce, come quando disse «òpera naturale è che uom favella, - ma, così o così, natura lascia - poi fare a voi secondo che v’abbella.» Volendo quindi scoprir la radice di tale stranezza nè potèndosi crèdere che il ricordo de’ buffetti e de’ calci sia amàbile a’ critici, com’era a Rousseau quel del castigo di mademoiselle Lambercier, bisognerà ricercarla e la troveremo fra le astuzie stratègiche. A guisa infatti degli àrabi che coi cadàveri inqulnan le fonti dei loro nemici, mirano i crìtici, cogli autori morti, a spègnere i vivi.
Pur non rièscono. La treggia non caccierà più il carro dal mondo nè il carro la diligenza nè la diligenza il ferroviario convoglio. Il progresso che essi combàttono col tardo archibugio a pietra, loro risponde coi cèleri Vètterli, come lor rispondeva mediante quel rudimentale fucile quand’essi ostinàvansi a maneggiar l’arco e la freccia, e coll’arco quando ancora loro arme era il selcio. La umanità procedette sempre a dispetto d’ogni accademia, d’ogni senato, d’ogni governo. ¡Guài se il passato avesse più forza dell’avvenire! Saremmo tuttora alla lingua dei lupi e degli orsi e ad uno stadio di civiltà affatto corrispondente.
Ma, seppelliti questi morti di hastati, ecco i prìncipes qui consùrgunt ad arma, pùntano il loro schioppetto e fan cecca. Sono essi gli incettatori della nazionale moralità, una compagnia in lamentazione perpetua - di cui fanno parte i violacei predicatori che ventilàbran dal pùlpito i vituperi più concupiscenti contro la concupiscenza e le ascoltatrici loro ammiranti, le baldracche, che han messo insieme bastèvoli soldi per comprarsi il rossetto della castità; fanno parte i loschi compilatori di virtù per il pòpolo a dieci centesimi la dispensa e i gazzettieri che colla sifilide cristallina alle labbra sermònano di pudicizia e le mamme affannate a difèndere le orecchie premaritali delle loro figliuole da ogni sussurro impudico, salvo a lasciarvi precipitar dentro un mondezzajo di roba, non appena quelle figliuole sien giunte al leggittimo stato di comporre adulteri; fanno insomma parte tutti coloro, i quali veri stradini della nettezza pùbblica, pel sudiciume - girano, sollevando, per cosi dire, la casta frasca di vite alle statue per poi urlare «¡ allo scàndalo!»
Il realismo in arte è il bersaglio contro il quale scagliano essi i lor giavellotti ed è insieme lo scudo con cui sen ripàrano i loro contrari. Perocchè, in questo balordo argomento, una guerra s’è accesa che più fiera non suscitarono le due secchie rapite, la bolognese e la greca, una guerra a cui paragone sembrò quasi scusata quella di buffa memoria dei clàssici e dei romàntici. Vuolsi che essa scoppiasse al primo apparire in commercio delle fotografie colorate di Zola. La gàrrula turba de’ letterati si partì allora in due campi — diciàmoli meglio, stàbuli — e gli uni si buttàrono tosto a ginocchi ed accèsero i lumi dinanzi a quella forma di arte perchè imaginàronsi che fosse nuova, gli altri si pòsero a tirar sassate contro di essa e a fischiare, principalmente istizziti da quella riputazione di novità. Il realismo, intanto, stava a guardare dal libro di Omero.
Ma il bello è, che, a confòndere maggiormente le idèe, e fautori e avversari, stroppiando il senso di quel frasone empibocca, incapàronsi di fargli significare, là a titolo d’onore, quà di disdoro, quella parte soltanto di letteratura che studia e descrive le voluttà della carne e le turpitùdini umane. A chi si debba tale spilorcia interpretazione non sappiamo. Sappiamo solo, che, nella realtà, se c’è il male colle sue innùmeri fronti, c’è pure il bene in tutti i sorrisi suòi. Al realismo o verismo possono quindi appartenere con pari diritto tanto le dipinture di una cloaca, di un ubbriaco che rece, di cani che s’accòppiano in piazza, quanto quelle di un fragrante roseto, di un eròe che Pagina:La desinenza in A.djvu/23 Pagina:La desinenza in A.djvu/24 Pagina:La desinenza in A.djvu/25 Pagina:La desinenza in A.djvu/26 Pagina:La desinenza in A.djvu/27 Pagina:La desinenza in A.djvu/28 Pagina:La desinenza in A.djvu/29 Pagina:La desinenza in A.djvu/30 Pagina:La desinenza in A.djvu/31 Pagina:La desinenza in A.djvu/32 Pagina:La desinenza in A.djvu/33 Pagina:La desinenza in A.djvu/34 Pagina:La desinenza in A.djvu/35 Pagina:La desinenza in A.djvu/36 Pagina:La desinenza in A.djvu/37 Pagina:La desinenza in A.djvu/38 Pagina:La desinenza in A.djvu/39 Pagina:La desinenza in A.djvu/40 Pagina:La desinenza in A.djvu/41 Pagina:La desinenza in A.djvu/42 Pagina:La desinenza in A.djvu/43 Pagina:La desinenza in A.djvu/44 Pagina:La desinenza in A.djvu/45 Pagina:La desinenza in A.djvu/46 Pagina:La desinenza in A.djvu/47 Pagina:La desinenza in A.djvu/48 Pagina:La desinenza in A.djvu/49