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lito il proto-risotto ed impastato il capo-stipite dei panettoni, Milano era tenuta di abolir senza più quelle sue antiche ghiottonerie non previste dalle edizioni «dal miglior fior ne coglie» per non mèttersi a rischio di nominarle, salvochè non si fosse addattata a sostituirvi i più leggittimi nomi di «riso giallo» e di «pan balestrone.» Così, se c’era scrittore che ancora trovasse in isbaglio, qualche efficace metàfora la quale non fosse catalogata tra «gli impacci del Rosso» e «gli avanzi del grosso Cattani o del Cibacca;» tra «il regno di Cornovaglia» e i viaggi «a Lodi, a Piacenza, a Carpi, in Picardia, a Calcinaja, a Volterra; «tra il «mangiar spinaci» e «l’arruffar matasse» e tutto il resto della ciurma galeotta del vocabolario toscano, ¡guài se l’avesse pur tollerata! dovèa immediatamente cacciarla; pena la Crusca negli occhi ed il Frullone sul capiro, irati di non potere, per lui, russare di sèguito la governativa prebenda.
Che io molto non fossi nelle grazie di simili egrege persone (uòmini meno di lèttere che di parole) è più chiaro della loro «chiarissimità» ora buja. Non vi ha scrittore, sempre s’intende, al saggio della loro pietra di paragone, che era poi una mola mugnaja, più di mè impuro. Nè io davvero, mi sono mai incomodato a cercare, per le parole che adopro, maggiori difese di quelle