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che danno le stesse parole accoppiate, cioè del pensiero che esprimono, ¿Cosa infatti avrebbe valso ripètere a que’ bacalari per la millèsima volta, che la lingua naque prima della scrittura e l’una e l’altra innanzi la règola? ¿che l’Italia stette benìssimo senza gramàtiche tre sècoli buoni e ci sarebbe potuta star sempre? ¿che quelle clàssiche eleganze da essi additate a modello, capestrerie come chiamàvanle con vocàbolo affatto degno della loro parlata, non èrano, il più delle volte, che solecismi solenni (nè noi ce ne scandolezziamo) maggiori assài di quelli che possa creare un originale stilista? E, ancora: ¿che avrebbe giovato ricantar loro sul motivo di Orazio (ut sylva foliis ecc.), che un idioma, come qualsiasi altro mortale frutto, è destinato, se non spègnesi in germe, a percòrrere l’intero suo ciclo fino alla maturanza completa, fino alla conchiusiva caduta dall’àlbero della vita, e che l’ùnico mezzo di evitargli una ràpida morte, è di trasfòndergli continuamente umore, imitando Dante, che colla falce del giudizio mieteva da ogni sottolingua italiana ed anche non itahana le spighe della nazionale favella? ¿che avrebbe, infine, servito provare loro statisticamente che non è tanto la qualità della materia impiegata quanto l’ingegno di chi la foggia e coòrdina che fà l’eccellenza di un’òpera d’arte, cosicchè