La buona famiglia/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Costanza, poi Lisetta.
Costanza. Povera me! povera me! che giornata è questa per me! Non so s’io viva; mi sento una smania al cuore, che mi pare di essere, il ciel mi perdoni, all’inferno. Ah, mi fossero cadute in terra le pupille degli occhi, pria di vedere quel che ho veduto. Perchè venir di soppiatto colei a ritrovar mio marito? E di più ancora, Nardo venirmi a dire ch’ella ha desiderato ch’io non ci fossi! Per bene non ci può essere venuta. Ma! non potrebbono essere questi miei temerari giudizi? Non potrebbe ella essere qua tornata per ragione delle gioje sue?.. E se per questo fosse venuta, perchè sottrarsi dagli occhi miei? perchè desiderare ch’io non ci fossi? E di più poi, perchè rimpiattarla nello studiolo, dove non riceve che persone del l’ultima confidenza? Potrebbe averlo fatto, perchè veduta non fosse da suo marito... Ma se la venuta sua fosse stata innocente, importato a lei non avrebbe l’esser veduta; e mio marito perchè nasconderla, se non ci fosse... Ma che mai ci ha da essere? E avrò coraggio di pensar male di mio marito? dell’unico bene che ho al mondo, dell’unica mia consolazione che tante prove d’amor mi ha dato, che tanto bene disse ognora volermi? E me ne ha voluto, sì, del bene me ne ha voluto, e me ne vorrà, spero, me ne vorrà; e se non me ne ha più da volere, colle mani alzate al cielo domando la morte per carità. (con qualche lacrima) Lisetta. (asciugandosi gli occhi)
Lisetta. Signora.
Costanza. È ritornato il signor Fabrizio?
Lisetta. Non ancora.
Costanza. E il signor suocero?
Lisetta. Non si è veduto nemmeno lui. E sì l’ora è avanzata.
Costanza. Mio marito si tratterrà per gli affari suoi. Stupisco del signor suocero, che a quest’ora non manca mai.
Lisetta. Egli è uscito per andar dal maestro di Franceschino: ma poc’anzi, nel ritornare a casa che’gli faceva, è stato riscontrato per la via dal signor Fabrizio; si sono posti a discorrere, e non la finiscono ancora.
Costanza. (Non ha seguitato la donna dunque). (da sè) Convien credere che abbiano degl’interessi che premano.
Lisetta. Eh signora padrona, non si ha da mormorare, nè da pensare male di nessuno: ma le cose chiare e patenti che cogli occhi si vedono, e colle orecchie si sentono, sono poi quel che sono, e non si può dir che non sieno.
Costanza. Non sarebbe gran cosa, che l’occhio e l’orecchio ingannassero qualche volta.
Lisetta. La signor’Angiola non è una paglia che si possa prendere in iscambio.
Costanza. Sì, la signor’Angiola è venuta poc’anzi a discorrere con mio marito. E per questo? Sarà la prima femmina che avrà seco lui trattato, per vendere, per comprare, per raccomandarsi?
Lisetta. È vero, signora; ma le femmine che vengono solamente per questo, non cercano, pare a me, di parlar al marito di nascosto della consorte.
Costanza. Quello sciocco di Nardo non ha inteso bene. Ha detto ella, e lo so di certo, che bastavagli rappresentare le premure sue al padrone, senza incomodar la padrona.
Lisetta. Ma perchè serrarla nello studiolo?
Costanza. Chi ha detto a voi, che l’ha serrata nello studiolo? Non può essere entrata ella là dentro per sottoscrivere un qualche foglio; per far qualche ricevuta, qualche ordine di pagamento? Lisetta, a quel ch’io vedo, voi siete stanca di viver meco. Cento volte v’ho detto, che mi ristuccano ragionamenti simili fatti così all’impazzata; e poi ve ne fo scrupolo grande, grandissimo, che quando non si san di certo le cose, non si dicono e non si credono. Mio marito non ha mai dato uno scandalo, e non è capace di darlo. La signor’Angiola è persona onesta; e se voi non castigherete la lingua, se non regolerete il pensare, non solo escirete di questa casa, ma non farete mai bene; poichè, figliuola mia, la riputazione che in un momento si toglie, in mille anni non si restituisce più intera.
Lisetta. Ma io diceva questo perchè...
Costanza. Già mi avete capito, e non occorre mi replichiate.
Lisetta. Compatisca per questa volta; non dirò più, signora.
Costanza. Mi pare abbiano picchiato all’uscio di strada.
Lisetta. Andrò a vedere. (Con tutto questo non credo niente io. Può ben dir che non dica, ma che non pensi poi! Bisognerebbe che mi facesse cambiar la testa). (da sè, e parte)
SCENA II.
Costanza, poi Lisetta che torna.
Costanza. Pagherei la metà del mio sangue, che non si potesse dir da costoro quello che pur troppo ragionevolmente si dice. In questo mondo non si può godere felicità. Finora ho avuto lo spasimo de’ figliuoli; ora che sono allevati, e grazie al cielo in istato di darmi qualche consolazione, pare che voglia affliggermi la condotta di mio marito. Ma giusto cielo! potrà egli cambiar il cuore? Un uomo di tanta bontà è possibile che si lasci sedurre, che si stanchi di volermi bene?
Lisetta. È domandata, signora.
Costanza. Da chi mai?
Lisetta. Dal signor Raimondo.
Costanza. Dal marito della signor’Angiola?
Lisetta. Per l’appunto.
Costanza. Domanda egli di mio consorte?
Lisetta. Non signora, domanda di lei.
Costanza. Che cosa vuole da me?
Lisetta. Questo non me l’ha detto, e non me lo vorrà dire.
Costanza. Ditegli che compatisca, che non c’è ne mio suocero, nè mio marito... e ch’io sono impedita ora.
Lisetta. Vedete? Così si fa, e non come quello...
Costanza. Come chi volete voi dire?
Lisetta. E non come quello che riceve le donne, senza che lo sappia la moglie.
Costanza. Frasca.
Lisetta. Non parlo di qua io; parlo de’ mariti del paese mio. (parte, poi ritorna)
Costanza. Eppure non sarebbe fuor di proposito ch’io lo ricevessi, per sentir, così di lontano, se qualche cosa mi riuscisse di ricavare... Ma no, è meglio superarla questa curiosità; alle volte, cercando di voler sapere, si sanno di quelle cose che non si vorrebbono aver sapute. Io so per altro anche troppo, e potrei forse dalle parole del signor Raimondo raccogliere qualche cosa che mi recasse consolazione; e io medesima potrei contenermi seco in modo, che senza offendere la riputazione sua, valesse a farlo vegliare un poco più attento sulla condotta di sua consorte. Ma non vorrei far peggio, e che mio marito trovasse un nuovo motivo per mortificarmi.
Lisetta. Signora, non posso dispensarmi dal dirle, che il signor Raimondo si offende moltissimo ch’ella non lo voglia ricevere; disse essere un galantuomo, che viene per un affare di premura grande, e che in due parole la spiccia subito.
Costanza. Viene per un affare di premura grande?
Lisetta. Sentirlo lui, è una cosa che preme all’eccesso.
Costanza. (Volesse dirmi qualche cosa di mio marito?) (da sè) E mi spiccia presto, dice?
Lisetta. In due parole.
Costanza. Non saprei... che passi.
Lisetta. Benissimo.
Costanza. È tornato il signor Fabrizio?
Lisetta. Non signora. Se torna, che non gli dica niente del signor Raimondo?
Costanza. Anzi gliel’hai da dire. E che venga subito: sei pure sciocca.
Lisetta. Ma io, quanto più mi studio far bene, fo sempre peggio. (parte)
SCENA III.
Costanza, poi Raimondo.
Costanza. Può anche darsi ch’egli venga da me per le gioje sue, che con i cento scudi alla mano voglia ricuperarle.
Raimondo. Permette la signora Costanza...
Costanza. Scusi di grazia, se l’ho fatta un po’ trattenere. A quest’ora, chi è alla direzione della casa, ha sempre qualche cosa che fare. I figliuoli non sanno stare senza di me; ciò non ostante, sentendo ch’ella ha qualche cosa da comandarmi, non ho voluto mancare.
Raimondo. Nè io son qui per incomodarvi. Favoritemi, in grazia. È egli vero dunque che mia moglie ha dato a voi in ipoteca un paio di pendenti e un anello, per l’imprestito di cento scudi?
Costanza. Verissimo.
Raimondo. Potrei aver io il piacere di vederle coteste gioje?
Costanza. Signore, se vi basta vederle, non ho difficoltà di rendervi soddisfatto.
Raimondo. Siccome la moglie mia si è fatto lecito d’impegnarle, posso ancora temer di peggio. Desidero per quiete mia di vederle.
Costanza. Vi servo subito. (parte)
Raimondo. (Va a prenderle; dunque ci sono. Dubitavo di qualche inganno, benchè sappia che sono gente dabbene, e specialmente la signora Costanza è di buonissimo cuore. Chi sa che con un poco di buona maniera non mi riuscisse riaverle senza il danaro ancora!)
Costanza. Ecco qui, signore, i pendenti e l’anello. Li riconoscete voi? Sono dessi? (da sè)
Raimondo. Verissimo, sono dessi. Ecco la bell’azione di mia consorte. Se voi andaste ad impegnare la roba di casa vostra senza parteciparlo al marito, che direbbe egli di voi?
Costanza. So che volete dirmi. Mi condannate per averle fatto piacere; pazienza, questo è il merito ch’io ne ho; ma sappiate che non mi sarei indotta a farlo, se ella non mi avesse svelate le piaghe di casa sua.
Raimondo. Da chi derivano queste piaghe?
Costanza. Non lo so, signore, e non mi curo saperlo.
Raimondo. Ella lo fa per i capricci suoi; nè io ho bisogno per il mantenimento di casa mia, che s’impegnino le gioje mie.
Costanza. Via, signor Raimondo, sono cose queste da accomodarsi fra di voi due, senza far scene fuori di casa. L’affar delle gioje è diviso con giusta distribuzione: cento alla moglie, dugento al marito; e poi non occorre diciate altro. Chi mi porterà i cento scudi, avrà i pendenti e l’anello. Un’altra cosa mi preme un poco più di sapere: che altri interessi può avere la signor’Angiola con mio marito? Non ardisco già pensar male: sarei una donna indegna, se volessi adombrare col pensiero soltanto il di lei onore; ma non vorrei ch’ella si prendesse qualche altro arbitrio; che mio marito, che è di buon cuore, le prestasse degli altri denari, e voi aveste da lamentarvene, e forse forse concepiste voi quel sospetto di vostra moglie, ch’io non ardisco formare di mio marito.
Raimondo. Non saprei; ma mia moglie è una pazzarella. Non ha avuto giudizio mai, e dubito sia difficile che averlo voglia per l’avvenire.
Costanza. Se voi parlate di lei con sì poco rispetto, che volete dunque ne dican gli altri?
Raimondo. Povero me, che mi è toccata in sorte una moglie sì dolorosa!
Costanza. Signore, sia di uno, sia dell’altro il difetto, mi duole delle discordie vostre, ma è inutile che meco ve ne lagniate.
Raimondo. Ah, se mi fosse toccato in sorte una donna amabile qual siete voi!
Costanza. Mi prendete in iscambio, signore.
Raimondo. La vostra bontà congiunta alla bellezza vostra...
Costanza. Lisetta. (chiama)
SCENA IV.
Lisetta e detti.
Lisetta. Eccomi.
Raimondo. Stava costei coll’orecchia all’uscio.1
Costanza. Con sua licenza. Ho un affar di premura.
Raimondo. Ma non abbiamo concluso niente circa l’affare dei cento scudi.
Costanza. Quel che è vostro, è vostro; parlatene con mio marito. (parte)
SCENA V.
Raimondo e Lisetta.
Lisetta. Sì signore, quel che è vostro, è vostro. Qui non si gabba nessuno.
Raimondo. Di che cosa v’intendete voi di parlare?
Lisetta. Dei pendenti, dell’anello e dei cento scudi.
Raimondo. Vi ha ella dunque confidato il segreto?
Lisetta. Oh signor no; non ha detto niente.
Raimondo. Come lo sapete dunque?
Lisetta. Mi hanno comandato di ritirarmi, non mi hanno proibito di stare a sentire.
Raimondo. Ecco qui la mia riputazione in pericolo.
Lisetta. Per quel che so io, eh? Felice voi, se non si sapesse di peggio. Bisogna sentire quel che dicesi di voi e di vostra moglie dal vicinato.
Raimondo. Come! che cosa si può dire di noi?
Lisetta. Orsù, in questa casa comandano che non si dica male di nessuno, ed io li voglio obbedire; e non vogliono nemmeno che siamo curiosi de’ fatti d’altri, e non ne voglio saper di più. (parte)
Raimondo. Mi hanno piantato qui arrossito e mortificato. Sperava con questa donna, che ha de’ denari, insinuarmi con buona grazia per averla amica ne’ miei bisogni; ma è selvatica al maggior segno. Spiacemi dei pendenti, spiacemi dell’anello; in qualche maniera converrà certo ricuperarli; se mia moglie li ha impegnati per cento, posso ricavarne dugento. (parte)
SCENA VI.
Anselmo e Fabrizio.
Anselmo. Non può essere, vi dico, non può essere. Costanza non è donna capace...
Fabrizio. Ma se l’ho trovata io da sola a solo col signor Raimondo, e appena mi ha veduto, si è ritirata.
Anselmo. Ma che cose mai, caro figlio, vi passeggiano pel capo? Parlerò con mia nuora. Mi comprometto di sapere la verità.
Fabrizio. Siete voi certo, che la voglia dire?
Anselmo. Se non ha mai detto una bugia in tutto il tempo che è in casa nostra.
Fabrizio. È vero, nemmeno per ischerzo si è mai sentita a dire bugia.
Anselmo. Eh, io vo vedendo da che procede il male. Quelle gioje! quelle gioje! Tanto ella che voi, compatitemi, non dovevate impacciarvi con gente cattiva. Portano costoro la peste col fiato dove essi vanno. Andiamo a desinare, che ormai non mi posso reggere in piedi. Vi prego, a tavola dissimulate, sospendete ogni dubbio fin ch’io le parli; vedrete che la cosa sarà come dico io...
Fabrizio. Chi viene?
Anselmo. Nardo forse.
Fabrizio. Altro che Nardo! il signor Raimondo? Che stato sia da mia moglie?
Anselmo. Pensate se vostra moglie vuol ricevere il signor Raimondo. Non ve lo sognate nemmeno.
Fabrizio. Lo sapremo ora.
SCENA VII.
Raimondo e detti.
Raimondo. Servo di lor signori.
Fabrizio. Che cosa avete da comandarmi, signore?
Raimondo. Niente, per ora, se non che dirvi che potevate risparmiare di svelar altrui la confidenza da me fattavi delle gioje.
Fabrizio. Io so di non averlo detto a nessuno.
Raimondo. L’avete detto alla vostra moglie. Ella me l’ha confessato ora colla sua bocca. Manco male che eravamo soli, e che nessuno l’ha intesa. Si vede, compatitemi, che ella ha più prudenza di voi: non è capace ella di far sapere altrui gli interessi che passano fra di noi. Basta; custodite le gioje. Verrò a riprenderle uno di questi giorni. Vi riverisco. (parte) (Fabrizio ed Anselmo rimangono un qualche tempo guardandosi, senza parlare; poi Fabrizio parte agitato, senza dir niente, ed Anselmo lo seguita.)
SCENA VIII.
Nardo e Lisetta che s’incontrano.
Lisetta. Nardo, ho saputo ogni cosa.
Nardo. Anch’io tutto.
Lisetta. Ho tanto fatto, che ho voluto sapere.
Nardo. E io, quando mi metto in campo di voler sapere, so certo.
Lisetta. Possono ben dire, eh, della curiosità? Non c’è rimedio.
Nardo. Ma se quando ho curiosità di sapere, pare m’abbia morsicato la tarantola, non istò fermo un momento.
Lisetta. Dal mormorare si può facilmente astenersi, ma dall’ansietà di sapere, è difficilissimo.
Nardo. Certo, perchè la curiosità è cosa che dipende dalla natura; ma la mormorazione è un cattivo abito della volontà.
Lisetta. Ora che si sa la cosa com’è, non si pensa più come si pensava.
Nardo. Aveva una pietra da molino sopra dello stomaco; ora mi pare di essere sollevato.
Lisetta. Tutto il male proviene dunque dalla gelosia.
Nardo. Sospetti che hanno l’uno dell’altro.
Lisetta. Fa male il padrone a coltivare un’amicizia che può essere scandalosa.
Nardo. E la padrona fa peggio a ricever gli uomini di quella sorte, in tempo che suo marito è fuori di casa.
Lisetta. Non credo che ci sia male.
Nardo. Non ci può esser gran bene, per altro.
Lisetta. Certo che si principia così, e poi si passa a degli impegni maggiori.
Nardo. Dicano quel che vogliono, siamo tutti di carne.
Lisetta. Il padrone pare effeminato un poco; e se si stufa della moglie...
Nardo. Ed ella, colla sua bontà, chi l’assicura di non cadere?
Lisetta. Ehi, Nardo, la mormorazione...
Nardo. Diavolo! ci son caduto senz’avvedermene.
Lisetta. Che fanno ora, che non domandano in tavola?
Nardo. Non lo so certo. Il desinare è all’ordine, e le vivande patiscono.
Lisetta. Ci giuoco io, che fra marito e moglie vi è qualche nuovo taroccamento.
Nardo. Andiamo a sentire?
Lisetta. Se sapessi con qual pretesto!
Nardo. Ci anderò io, col pretesto di domandare se vogliono in tavola.
Lisetta. Sì, e sappiatemi dire.
Nardo. Vi dirò tutto; fra di noi si ha da passare d’accordo.
Lisetta. Ci predicano l’armonia i padroni; non potranno dire che non si vada fra di noi di concerto.
Nardo. Aspettatemi, che ora torno. (parte)
SCENA IX.
Lisetta, poi Isabella e Franceschino.
Lisetta. Nardo è un buonissimo ragazzo; se mi volessi maritare, non lascierei lui per un altro, ma in questo seguito volentieri le insinuazioni della padrona. Non ho mai fatto all’amore, e non mi curo di farlo. Può essere però che un giorno ci pensi per prender stato, e non ridurmi vecchia senza nessuno dal cuore. In tal caso Nardo sarebbe secondo lui il genio mio, ma quando poi mi fosse marito, vorrei per assoluto ch’egli lasciasse il vizio della curiosità.
Isabella. Lisetta, che vuol dire che oggi non si va a desinare?
Franceschino. Per verità, ho fame io pure; e poi, se ho d’andare alla scuola, poco tempo mi resta per desinare.
Lisetta. Ora è andato Nardo a sentire che cosa dicono. Cioè, che cosa dicono intorno al desinare; non già che ei voglia sentire quello che fra essi parlano.
Isabella. Il signor nonno ci porterà i versi.
Franceschino. Io li copierò subito, e darò a voi la parte che vi toccherà dire.
Lisetta. Li sentirò anch’io, non è egli vero?
Isabella. Li diremo a tutti; e chi li vorrà sentire, ci donerà qualche cosa.
Lisetta. Fatemi un piacere, ditemi la bella canzone della colazione.
Franceschino. Non si dice più.
Lisetta. Perchè non la dite più?
Isabella. Non vuole il signor nonno che si dica più.
Lisetta. Io non so capire il perchè.
Franceschino. Lo saprà egli il perchè; io non ve lo so dire.
Lisetta. Già ora il signor nonno non c’è; ditemela su presto presto.
Franceschino. Oh, questo poi no. Mi ricordo quello che mi ha insegnato il maestro, che bisogna essere obbedienti, e che l’obbedienza non basta usarla alla presenza di chi comanda, ma in distanza ancora; e bisogna ricordarsi quello che ci è comandato, e farlo sempre, sebbene ci costi del dispiacere,
Lisetta. (Questo ragazzo mi fa vergognare). (da sè)
Isabella. Mi ricordo anch’io, che la signora madre m’ha comandato che non mi lasciassi vedere alle finestre che guardano sulla strada, e d’allora in qua non mi ci sono affacciata mai più.
Lisetta. (Quante se ne ritrovano di queste buone fanciulle?) (da sè)
SCENA X.
Nardo e detti.
Lisetta. E così? (a Nardo, con curiosità)
Nardo. (Zitto. Vi dirò poi, che non sentano i ragazzi.2) Ha detto il padrone vecchio, che si dia da desinare ai figliuoli; che essi hanno un affar di premura, e mangieranno più tardi. (forte)
Lisetta. (Ho inteso). (da sè)
Franceschino. Oh io, se non ci sono anch’essi, non mangio certo.
Isabella. Nemmeno io, se non viene la signora madre, non desino.
Lisetta. Patirete voi altri, a star così senza niente. Andate, che Nardo vi darà qualche cosa.
Nardo. Io bisogna che vada fuori ora; dategliene voi da desinare. (a Lisetta)
Lisetta. (Dove vi mandano?) (piano a Nardo)
Nardo. (Il vecchio mi manda in fretta a cercare del signor Raimondo e della signor’Angiola, e per obbligarli a venire, vuole ch’io loro dica, che se non vengono subito, perderanno le gioje). (piano a Lisetta)
Lisetta. (Come la possono credere questa baia?) (piano a Nardo)
Nardo. (Mi ha anche detto, che li faccia dubitare di qualche sequestro). (come sopra)
Lisetta. (Eh, la sa lunga il vecchio. Ma perchè vuol egli che tutte due qui si trovino? Per fare una piazzata, non crederei). (piano a Nardo)
Nardo. (Non crederei; sentiremo). (piano a Lisetta)
Lisetta. (Oh, qui sì abbiamo da sentir tutto). (piano a Nardo)
Nardo. (Se credessi di cacciarmi sotto d’un tavolino). (piano a Lisetta)
Lisetta. (Ed io se credessi di bucare il solaio). (piano a Nardo)
Nardo. (Vado, vado. Oh, questa poi me la voglio godere), (parte)
SCENA XI.
Franceschino, Isabella e Lisetta.
Franceschino. Lisetta, che sia accaduto niente di male?
Lisetta. Oibò; niente.
Isabella. Questo discorrer piano fra voi e Nardo, tiene me ancora in qualche sospetto. Voglio andare dalla signora madre.
Lisetta. No, no, lasciate, che ci anderò io. Sapete che quando trattano d’interessi, non vogliono che i ragazzi ci sieno.
Isabella. Ditele ch’io non mangio senza di lei.
Franceschino. Anch’io dite loro che piuttosto mi contento di andare alla scuola così.
Lisetta. (Poveri ragazzi, sono d’una gran bontà). (da sè, e parte)
SCENA XII.
Franceschino ed Isabella.
Isabella. Mi dispiace che l’arcolaio è nella camera mia, e si passa per quella della signora madre. Se l’avessi, vorrei dipanare.
Franceschino. In quel cassettino ci suol essere qualche libro. Voglio vedere, che ci divertiremo un poco. (va al cassettino di un tavolino)
Isabella. Fossevi almeno qualque libro bello. Il Fior di virtù mi piace.
Franceschino. Oh, sapete che c’è nel cassettino?
Isabella. Che cosa?
Franceschino. Delle ciambelle, dei zuccherini e dei frutti.
Isabella. Chi le ha messe mai costì quelle buone cose?
Franceschino. Il signor nonno, cred’io.
Isabella. Che le abbia messe per noi?
Franceschino. Può essere: ne ha sempre di queste galanterie.
Isabella. Ora che ho fame, me le mangierei tutte.
Franceschino. Anch’io, ma senza licenza non si toccano.
Isabella. No certo; mi ricordo ancora una volta, che la signora madre, per aver preso una pera, mi ha dato uno schiaffo.
Franceschino. Io morirei di fame, più tosto che pigliare da me senza domandare.
Isabella. Ma vorrei che si andasse a tavola. È passata l’ora e di là dell’ora.
Franceschino. Lisetta torna. Ci saprà dire.
SCENA XIII.
Lisetta e detti.
Isabella. E bene, Lisetta, che cosa dicono?
Lisetta. Dicono, che per obbedienza venghiate tutti due subito a desinare.
Franceschino. Soli?
Lisetta. Soli.
Franceschino. Pazienza. (parte)
Isabella. Non viene la signora madre?
Lisetta. Per ora non può venire.
Isabella. (Sì mette il grembiule agli occhi singhiozzando, e parte.)
Lisetta. Povera figliuola amorosa! Pur troppo ci son dei guai; ma tutto tutto non ho potuto sentire. (parte)
SCENA XIV.
Anselmo e Costanza.
Anselmo. Fatemi il piacere, consegnate a me quei pendenti e quell’anello che vi ha dato la signor’Angiola.
Costanza. Subito, signore, li vado a prendere. Voleva darli a mio marito, e non li ha voluti.
Anselmo. Recateli a me, e non pensate altro.
Costanza. (Va prender le gioje.)
Anselmo. Ma! gli animi delicati si conturbano per poco. L’irascibile è un appetito che, o molto o poco, da tutti gli uomini si fa sentire. Mi ricordo ancora aver letto che undici sono le passioni che si attribuiscono all’anima: sei appartenenti alla parte concupiscibile, e cinque all’irascibile, le quali sono... se la memoria non mi tradisce, la collera, l’ardire, il timore, la speranza, la disperazione. E quelle della concupiscibile quali sono? Mi pare... sì, queste sono: il piacere, il dolore, il desiderio, l’avversione, l’amore e l’odio. Grazie al cielo, in quest’età posso gloriarmi della mia memoria; e che cosa mi ha condotto ad una buona vecchiaia? Il non dar retta a questi appetiti; io studio di moderare queste tali passioni; poca3 irascibile, e quasi niente, quasi niente di concupiscibile.
Costanza. Ecco le gioje, signore.
Anselmo. Non dubitate, che l’animo mi dice che tutto anderà bene, e che con vostro marito tornerete ad essere quella che foste il primo dì che vi prese.
Costanza. Sarebbe poco, se non ci amassimo per l’avvenire se non coll’amore del primo giorno. Noi allora appena ci conoscevamo, e l’amor nostro era più una virtuosa obbedienza, che una tenera inclinazione. Andò crescendo l’affetto nostro di giorno in giorno. Conoscendoci bene, ci credemmo degni d’amore, e questi era giunto4 al sommo della contentezza. Ma il cielo non vuol felici in terra; e quando le cose umane sono giunte all’estremo del male o del bene, vuole il destino che si rallentino, forse perchè il cuor nostro non è capace di più, e non ha forza per trattenere fra i limiti il corso delle sue passioni.
Anselmo. Nuora mia carissima, voi parlate assai saggiamente, e pare impossibile che con tali principi possiate poi lasciarvi abbattere sino a tal segno.
Costanza. Tutto soffrirò, signore, ma non la disistima di mio marito. Ch’ei mi rimproveri d’avere arbitrato dei cento scudi, d’avermi arrogato la libertà di fare un’opera, creduta buona, senza il di lui consiglio, gli do ragione, mi pento d’averlo fatto, e non cesserò mai di domandargli perdono; ma che l’aver io ad onesto fine ricevuta nella mia camera la visita d’un uomo, possa farlo sospettare della delicatezza dell’onor mio, è un’offesa grandissima ch’egli mi fa, è un torto che fa a se medesimo, dopo l’essersi chiamato per tanti anni della mia compagnia contentissimo; ed è un sospetto di tal conseguenza, che terrà lui sempre inquieto, e produrrà nell’animo mio la più dolorosa disperazione.
Anselmo. No, signora Costanza, non dite così, che così non ha da essere, e così non sarà. Mio figlio potrebbe dire lo stesso di voi, che avete sospettato della sua buona fede, per aver egli ricevuto nella sua camera quella donna. Vi siete ambidue innanzi di me chiariti. L’ha egli ricevuta per civiltà, l’avete fatto voi per una spezie di convenienza. Anzi, per dirvela qui fra voi e me, che nessuno ci sente, dal discorso vostro sincero e leale si raccoglie che voi vi siete lasciata persuadere a ricevere il signor Raimondo per un poco di curiosità, prevenuta da un falso sospetto che la di lui moglie vi dovesse dar ombra, e voi per questa parte, scusatemi, siete stata la prima ad offendere il caro vostro marito, che non è capace, no, di scordarsi di voi, del dover suo, della sua coscienza, per le frascherie del mondo. Orsù, tutto dee essere terminato. Voi avete depositato nelle mie mani le gioje. Farà lo stesso Fabrizio, che mi ha promesso di farlo, e qui me le recherà egli medesimo... Eccolo, che lo vedo venire. Rasserenatevi, nuora, rasserenatevi per carità.
Costanza. Signore, che mi si tolga la vita, ma non l’amore di mio marito. (piangendo)
Anselmo. Via, per amore del cielo, non vi fate scorgere; non date ombra ai vostri figliuoli.
Costanza. Non mi ricordo d’aver figliuoli ora; mi preme dell’amore di mio marito.
Anselmo. (Oh amor coniugale, sei pur invidiabile, quando sei di quel buono!) (da sè)
SCENA XV.
Fabrizio colle gioje, e detti.
Fabrizio. Eccovi servito, signore. Queste sono le gioje datemi dal signor Raimondo.
Anselmo. Mi avete portato altro?
Fabrizio. Che altro vi doveva portare?
Anselmo. Che altro? Quello che voi solo dar mi potete; e nell’età in cui sono, mi abbisogna assai più del pane. Caro figlio, la pace, la tranquillità, l’amore.
Fabrizio. Cose tutte, che dal canto mio ho procurato sempre di custodire in casa gelosamente; e la mia mala fortuna me le rapisce.
Anselmo. No, non è vero...
Costanza. Se son io la mala vostra fortuna, spero che il cielo ve ne libererà quanto prima.
Anselmo. Non occorre che così diciate... (a Costanza)
Fabrizio. Avreste voi cuore d’abbandonarmi?
Anselmo. No, non è possibile. (a Fabrizio)
Costanza. Farà ch’io vi abbandoni la morte, che non mi pare da me lontana.
Anselmo. Via, dico.
Fabrizio. Può essere ch’io vi prevenga.
Anselmo. Sei pazzo?
Costanza. Son certa però, che il mio cuore non ha niente da rimproverarmi.
Anselmo. Verissimo, che tu sia benedetta.
Fabrizio. Nè vi sarà chi possa imputare a me un pensiero d’infedeltà.
Anselmo. Metterei per te le mani nel fuoco.
Costanza. I miei difetti meritano molto peggio.
Anselmo. Quai difetti?
Fabrizio. Per i miei, per i miei si patisce.
Anselmo. Agnello. (a Fabrizio) Colomba. (a Costanza) Anime belle, innocenti, non vi affliggete più!
Costanza. Ah! (sospirando)
Fabrizio. Pazienza! (sospirando)
Anselmo. Non mi fate piangere, per carità.
SCENA XVI.
Nardo e detti.
Nardo. Li ho trovati.
Anselmo. Dove sono eglino?
Nardo. Saliscono ora le scale. Li ho trovati in casa loro, che quasi venivano alle mani; e quando mi hanno sentito dir delle gioje, facevano a gara ciaschedun di loro per venir primo. Il marito prese la scala più presto; la moglie, per timore la prevenisse, gli tirò dietro uno scanno; lo fe’ cadere, si fece male, e intanto avanzò ella il passo. Zoppicando però ci la raggiunse, e sono qui tutt’e due colla miglior pace di questo mondo.
Anselmo. Che vengano innanzi. (Nardo parte)
Costanza. Chi, signore? (ad Anselmo)
Anselmo. La signor’Angiola e il signor Raimondo.
Costanza. Da noi?
Anselmo. Zitto, zitto, lasciate operare a me.
SCENA XVII.
Angiola, Raimondo e detti.
Angiola. Che novità c’è della roba mia?
Raimondo. Signore, io sono il padrone di casa, e spetta a me il dominio delle cose...
Anselmo. Favorite acchetarvi, signori miei, che qui non siete venuti per mettere a soqquadro la casa nostra. Ecco le gioje, che voi e voi date avete in ipoteca a mio figlio, a mia nuora. Presso di loro non devono e non possono rimaner più. Sono passate nelle mie mani, e dalle mie, salvate le debite convenienze, passeranno alle vostre. Quali esser devono le convenienze che da noi si esigono? I cento scudi? I dugento scudi? No, no, e poi no. Queste maledette gioje hanno seco la mala peste, portatele vosco, non le vogliamo più.
Angiola. | (Allungano tutti e due le mani per prendere le gioje.) | |
Raimondo. |
Anselmo. Adagio un poco: il contagio vi fa poca paura, per quel ch’io vedo. La prima convenienza. A chi di voi s’avrebbono a consegnare?
Angiola. Sono di ragione della mia dote.
Raimondo. Io sono marito. Il padrone son io.
Angiola. Non s’è mai sentito, che possa il marito disporre delle gioje della consorte.
Raimondo. Sì signora, si è sentito e si sentirà.
Angiola. Spettano a me, dico.
Raimondo. A me sostengo io che spettano.
Anselmo. Non aspetteranno a nessuno, se fra di voi non vi accomodate.
Angiola. Mi neghereste i pendenti e l’anello da me in questa casa portati?
Raimondo. E non avrò io il gioiello? Non averò i spilloni?
Anselmo. Tutto averete, accomodati che siate fra di voi due.
Raimondo. Per me mi contento della parte mia.
Angioina. E io sarò cheta colla mia porzione.
Anselmo. Sia ringraziato il cielo. A ciascheduno la quota sua. Eccovi soddisfatti. (mostra le gioje)
Angiola. ) | (Allungano le mani come sopra.) | |
Raimondo. |
Anselmo. Adagio, che non sono terminate le convenienze. Ove sono i cento scudi? ove sono i dugento?
Raimondo. Che occorreva che ci mandaste a chiamare?
Angiola. Ci avete fatto venir qui per vederle?
Costanza. Caro signor suocero, liberatemi da un tal fastidio.
Fabrizio. Io non ne posso più, signore. (ad Anselmo)
Anselmo. Flemma anche un poco. (a Costanza e Fabrizio) Non si chiedono da voi nè i cento, nè i dugento scudi: ma cosa che a voi costa meno, e per noi può valere assai più. Volete le gioje vostre? (ad Angiola)
Angiola. Se me le darete, le prenderò.
Anselmo. Voi le volete? (a Raimondo)
Raimondo. Perchè no, signore, nello stato in cui sono?..
Anselmo. Rispondetemi a tuono. La vostra sincerità può essere il prezzo del ricupero delle gioje vostre. Signor’Angiola, che faceste, che diceste voi nella camera di mio figliuolo?
Angiola. So che volete dire. Perdonatemi, signor Fabrizio, se trasportata dalla miseria, ho usato con voi dell’arte per ricuperar le mie gioje. Consolatevi voi, signora Costanza, d’aver un marito il più savio, il più amoroso del mondo; e perdonatemi, se per un po’ di spirito di vendetta, per aver voi manifestato lo sborso fattomi dei cento scudi, ho tentato l’animo dello sposo vostro: cosa che ora m’empie di confusione, e mi sarà di perpetuo rimorso al cuore.
Costanza. Credetemi, l’ho palesato senza intenzione di farlo.
Fabrizio. E voi. Costanza mia, avete potuto di me pensare?...
Costanza. E voi, caro consorte, avete giudicato che il signor Raimondo...
Raimondo. No, amico, non fate così gran torto alla moglie vostra. Ella mi ha ricevuto per la insistenza mia di voler seco discorrere sulle gioje affidatele da mia consorte. Confesso aver fatto un po’ di esperienza, così per semplice curiosità, sul carattere del di lei cuore; e l’ho trovata onesta a tal segno, che a una parola sola equivoca e sospettosa partì sollecita, e si scordò fino la civiltà per la delicatezza d’onore.
Fabrizio. Queste curiosità non si cavano nelle case de’ galantuommi... (a Raimondo)
Anselmo. Basta così. Siete voi persuaso della probità illibatissima di vostra moglie? (a Fabrizio)
Fabrizio. Ah sì, signore, mi pento de’ miei temerari sospetti.
Anselmo. E voi siete contenta del marito vostro? (a Costanza)
Costanza. Così egli perdoni le debolezze mie, com’io son certa dell’amor suo.
Anselmo. Lode al cielo. Amici, ecco il tempo di ricuperare le gioje. (fa mostra di volerle dare)
Angiola. | (Allungano le mani per pigliarle.) | |
Raimondo. |
Anselmo. Piano ancora, che terminate non sono le convenienze. Quello che detto ci avete, è il prezzo della ricupera. Ci vuol l’interesse ancora: e l’interesse sia una promissione fortissima di favorirci per grazia di non venire nè l’uno, nè l’altro, mai più da noi.
Angiola. Sì signore, vi servirò.
Raimondo. Giustamente; ve lo prometto.
Anselmo. Capisco che le indigenze vostre v’inducono a sperare d’averle senza il contante; e qualche merito si è acquistata la confessione vostra e la vostra rassegnazione. Fabrizio, lasciatemi spender bene dugento scudi. Costanza, cento scudi li avanzate da me. Amici, eccovi le gioje vostre. (dà i pendenti e l’anello ad Angiola, e le altre gioje a Raimondo, quali se le prendono avidamente) Se qualche piacere vi reca un atto prodotto dall’amor mio verso la mia famiglia, il quale torna in profitto vostro, vi chiedo ora una grazia. (ad Angiola e Raimondo)
Raimondo. Comandate, signore.
Angiola. Che non farei per un uomo della vostra bontà?
Anselmo. Prima di escire di questa casa, pacificatevi fra di voi; trattatevi con amore; e fatemi sperare che l’esempio nostro vi faccia un po’ più conoscere i doveri dello stato coniugale, e della vita onesta e civile.
Angiola. Caro marito, imparate dal signor Anselmo, dal signor Fabrizio.
Raimondo. Cercate voi d’imitare la signora Costanza.
Anselmo. A voi, cari, non ci sarà bisogno d’insinuare... (a Costanza e Fabrizio)
Costanza. Caro marito, compatitemi.
Fabrizio. Consorte mia, vi domando perdono, (s’abbracciano piangendo)
Anselmo. Fate lo stesso voi altri ancora. (ad Angiola e Raimondo)
Raimondo. Prendete, sposa, un abbraccio. (ad Angiola)
Angiola. Sì, marito; con tutto il cuore. (Son tanti mesi che non è passato fra noi un simile complimento). (da sè)
Anselmo. Oimè! non posso più. A desinare. Chi è di là?
SCENA ULTIMA.
Nardo e Lisetta subito, da due portiere.
Lisetta. | Signore. | |
Nardo. |
Anselmo. Ah disgraziati, dietro la portiera, eh? Moderate la vostra curiosità, altrimenti sarete cacciati via.
Lisetta. Mai più, signore.
Nardo. Mai più.
Anselmo. Andate in pace voi altri, che il cielo ve la conceda. (ad Angiola e Raimondo) E noi andiamoci a reficiare più colla quiete d’animo che col cibo. Andiamoci a consolare coi cari nostri figliuoli.
Costanza. Sia ringraziato il cielo, che tanto bene ci dona. Parmi esser rinata; torno da morte a vita. E voi, spettatori, fate plauso al buon esempio che vi si porge con una Buona Famiglia.
Fine della Commedia.
Note
- ↑ Forse queste parole si devono chiudere tra parentesi.
- ↑ Le parole che non sentano i ragazzi sono stampate in corsivo nelle edizioni del Settecento, come non pronunciate.
- ↑ Così tutte le edizioni.
- ↑ Nelle edd. Guibert - Orgeas, Zatta ecc.: Andò crescendo l’affetto nostro di giorno in giorno, e questi era giunto ecc.