Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XII.djvu/418

412 ATTO SECONDO


Costanza. Son certa però, che il mio cuore non ha niente da rimproverarmi.

Anselmo. Verissimo, che tu sia benedetta.

Fabrizio. Nè vi sarà chi possa imputare a me un pensiero d’infedeltà.

Anselmo. Metterei per te le mani nel fuoco.

Costanza. I miei difetti meritano molto peggio.

Anselmo. Quai difetti?

Fabrizio. Per i miei, per i miei si patisce.

Anselmo. Agnello. (a Fabrizio) Colomba. (a Costanza) Anime belle, innocenti, non vi affliggete più!

Costanza. Ah! (sospirando)

Fabrizio. Pazienza! (sospirando)

Anselmo. Non mi fate piangere, per carità.

SCENA XVI.

Nardo e detti.

Nardo. Li ho trovati.

Anselmo. Dove sono eglino?

Nardo. Saliscono ora le scale. Li ho trovati in casa loro, che quasi venivano alle mani; e quando mi hanno sentito dir delle gioje, facevano a gara ciaschedun di loro per venir primo. Il marito prese la scala più presto; la moglie, per timore la prevenisse, gli tirò dietro uno scanno; lo fe’ cadere, si fece male, e intanto avanzò ella il passo. Zoppicando però ci la raggiunse, e sono qui tutt’e due colla miglior pace di questo mondo.

Anselmo. Che vengano innanzi. (Nardo parte)

Costanza. Chi, signore? (ad Anselmo)

Anselmo. La signor’Angiola e il signor Raimondo.

Costanza. Da noi?

Anselmo. Zitto, zitto, lasciate operare a me.