La Regaldina/XI
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XI.
Maltilde inaugurò la sua vita di sposa come se lo fosse già da dieci anni. Prese subito il suo posto nel salotto bigio, vicino all’uscio che dava sulla corte; vi collocò una poltroncina che fece discendere dalle camere superiori e volle che Rodolfo le comperasse una pelle d’agnello nero per appoggiarvi sopra i piedi; così il suo dominio si trovò stabilito.
Sdraiata sulla poltroncina ella ricamava qualche volta, qualche volta leggeva, più spesso non faceva nulla o arrotolava fra le dita una sigaretta, canticchiando, lontana col pensiero da quella modestissima camera. Con Daria e colla Tatta aveva un contegno educato, ma indifferente; con suo marito tentava la dominazione, ora per via di blandizie, ora minacciandolo audacemente.
Quando furono palesi i sintomi esterni della sua gravidanza ella ne parlò con disinvoltura, si fece servire, si fece compiangere, posò a donnina delicata e sofferente; ebbe mille capricci, i nervi, l'isterismo, i vapori. Rodolfo sulle prime fu paziente, poi incominciò a stancarsi ed avendo assistito a due o tre scene di convulsioni, prese il partito di farsi vedere di rado.
Allora Matilde si lagnò di isolamento, di trascuratezza, parlò di illusioni svanite, di aspirazioni incomprese. Disse che la sua salute soffriva in quella monotonia continua e fece quattro o cinque gite a Milano.
Quando tornava dalla città era sempre animata e per parecchi giorni la casa se ne risentiva. Ella cambiava posto ad ogni cosa, faceva una quantità di innovazioni ardite, bizzarre, provocando i sarcasmi della Tatta e gli ooh! meravigliati e dubbiosi della signora Luigina.
Una volta portò da Milano un corredino elegantissimo per neonato; delle camicioline di batista, delle cuffiette di trina, una coperta di velo con trasparente di seta rosa... Daria e la Tatta non poterono tacere, che quelle cose le si sarebbero fatte in famiglia con molta maggiore economia.
In quel giorno la signora Luigina, vergognosa davanti a tante meraviglie, nascose un giubbettino all’uncinetto, ch’ella stava lavorando di nascosto.
Matilde dichiarò che le cose brutte non le piacevano.
Sul finire della primavera ella era diventata molto grossa e passava le giornate semicoricata, ravvolta in un lungo accappatoio celeste, coi capelli sciolti rattenuti appena sulla nuca da un nastro di velluto. Tutti aspettavano il parto con impazienza e stanchezza infinita; Rodolfo desiderava un maschio bello e robusto come lui, da farne un buon cacciatore.
La signora Ernesta, che aveva fermato una domenica Matilde all’uscire di messa, le preconizzò, coll’occhio divinatore dell’esperienza, che avrebbe una bambina.
Matilde si stringeva nelle spalle, informandosi con premura se è proprio vero che nel parto si perdono i capelli. E anche qui la signora Ernesta, sempre in base all’esperienza, le disse di sì, ma soggiunse per confortarla che c’era un rimedio infallibile nella pelle di anguilla appena scorticata.
Il trentuno di luglio finalmente nacque una bimba, lunga come una mano, meschina meschina, con sommo dispetto di Rodolfo, che si sentiva offeso nel suo amor proprio di genitore.
Corse subito la voce che era una settimina, naturalmente, e allora parve anche giusto che fosse così grama.
Matilde si riebbe presto e, per rifarsi di tutti i mesi passati in veste da camera, si fece mandare da Milano una corazza nera, detta Jersey, aderente al corpo come una maglia. Ma questa volta Rodolfo si risentì un poco; aveva già avute le spese del battesimo, così non si poteva andare avanti; nessuno guadagnava in famiglia e le rendite erano più che modeste.
— Una volta — disse Matilde, ironica — non mi parlavi delle tue rendite e parlavi invece molto delle mie corazze.
— È naturale — rispose Rodolfo brutalmente — allora non le pagavo io.
Marito e moglie non s’incontravano nei gusti; lui campagnuolo nato un po’ rozzo, affatto materiale, come lo erano del resto tutti i suoi amici e compaesani, come li faceva il genere di vita bestiale, le tradizioni, l’esempio, l’ozio, la mancanza assoluta di un ideale; lei sensibile, nervosa, corrotta nell’immaginazione, sensuale essa pure ma di un sensualismo elegante e raffinato.
Aveva un sorriso sprezzante quando egli tornando dalla caccia, stanco e inzaccherato, la incaricava di cucirgli il carniere e di rimettere il tirante alle sue uose coperte di mota — e lui non vedeva il sorriso, non comprendeva lo sprezzo; se ne sarebbe meravigliato altamente, poichè le donne in genere e le mogli in ispecie sono fatte appunto per questo. Credeva anzi di darle una prova di tenerezza rivolgendosi a lei, piuttosto che a Daria. Nel suo semplice criterio gli pareva che Matilde dovesse stimarsi fortunata; non era egli stato galantuomo? non l'aveva sposata? le mancava nulla? Allattasse dunque in pace la sua marmocchietta e imparasse una buona volta a cucinare le anitre, come piacevano a lui!
Matilde allattò quindici giorni, poi non ebbe più latte, la bambina piangeva sempre, balie non se ne trovavano; venne in iscena il poppatoio, e allora tutte erano nutrici. Daria per la prima, la Tatta e fin anco la signora Luigina che, posandosi in grembo la bimba con tutte le precauzioni immaginabili, sentiva fondere la sua rigida durezza di zitellona in una calda ondata di amor materno.
La piccina crebbe così piuttosto bene che male, stentatina, ma vispa e intelligente. Di lì a qualche mese Matilde accusò delle forti emicranie, per cui il pianto della bimba le riusciva molesto, sopratutto la notte; e Daria se la portò nella sua cameretta, incaricandosi di tutte le cure che esigeva quella personcina.
Sul principio d’inverno ammalò; ebbe febbri acutissime, tosse, minacciò due o tre volte di morire; Daria vegliò le notti intere colla sua calma serena di donna forte e, quando l’ebbe risanata, le parve che un vincolo di più l’unisse alla innocente creatura; già la piccina la riconosceva in mezzo a tutti, le faceva festa sorridendo e tendendo verso lei le manine, e in quei teneri amplessi Dara dimenticava ogni pena avuta.
— Lei ama molto i bambini a quel che si vede.
— Sì: rispose Daria semplicemente.
Queste parole venivano scambiate colla moglie del dottore che si trovava in visita di gala per i1 capo d’anno. Già da un po’ di tempo le visite di questa signora spesseggiavano avendo di mira Daria specialmente. In quel giorno si trovavano appunto sole.
— L’amore per i ragazzi è una buona disposizione al matrimonio.
Qui Daria non si credette obbligata a rispondere, per cui l’altra soggiunse:
— Lei è troppo bellina per fare la mamma ai figli degli altri. Conosco qualcuno che sarebbe ben felice di metterla a capo di una famiglia sua.
— Io non penso a maritarmi.
— Già una brava ragazza come lei non ci pensa mai, ma quando vi pensano gli altri, e questo altri è un buon giovine...
— In tal caso sarei dolente per la persona che mi onora della sua preferenza...
— Come sarebbe a dire?
— Che non ho intenzione di prendere marito.
— Sul serio?
— Sul serio.
Un’ombra di dispetto passò negli occhi della signora:
— Chiunque fosse il cercatore? — domandò con malizia.
— Chiunque... per ora.
Questo discorso faceva male a Daria; ella era pallida e cercava invano di nascondere la sua contrarietà, accarezzando la bambina che teneva in collo.
— Mi lasci darle un consiglio, sa, non si lasci sfuggire le buone occasioni; se ne troverà pentita.
— Non credo.
— Gli sposatori in giornata sono rari — continuò la signora accalorandosi — il mondo è pieno di giovani senza cuore, che si divertono a pigliare a gabbo le ragazze per ridere poi alle loro spalle.
— La cosa non mi riguarda — disse Daria con dignità.
E si levò in piedi per far muovere la bambina.
— Dunque rifiuta assolutamente?
— Sì.
— Senza conoscere il nome della persona?
— È affatto inutile.
La moglie del dottore si accomiatò su queste parole. Daria la condusse fuori dell’uscio che metteva in corte e, proprio in quel momento vide Ippolito, che dal cancello interno del giardino veniva alla sua volta.
Non aveva tempo di ricomporsi; il suo volto, i suoi sguardi, un leggero tremito che l’agitava tutta, colpirono subito il giovine che le chiese con premura se si sentisse male.
Daria rispose di no, poi avrebbe voluto dire di sì, perchè sarebbe stato il modo più spiccio di troncare le interrogazioni; ma era troppo commossa. Rientrò nel salottino e si pose a ravviare la cuffietta della bimba dicendo: Eh! Lena saluta lo zio, dà un bacio allo zio Ippolito.
Ippolito avvicinò il volto a quello della piccina, ma non era tanto lontano dal volto di Daria, che non sentisse il calore febbrile della sua pelle. Il giovine si ritrasse con un brivido; tornò a guardare la giovinetta e disse:
— Ma davvero lei ha qualche cosa; è uscita adesso la moglie del dottore... che le disse? che avvenne?
— Nulla. — Pronunziando questa parola la voce di Daria era colma di pianto.
— Daria — diss’egli tanto teneramente, che nessuna dichiarazione d’amore avrebbe potuto superare la dolcezza di quel nome in bocca sua — io ho pur versato il mio dolore nel suo cuore quand’ella me ne richiese... Ora chiedo la mia parte nel dolore che la affligge.
Colla testa china ella continuava ad accarezzare la Lena, baciandola lieve lieve sui capelli e sulle manine, cullandola insensibilmente.
— Un presentimento mi disse che io c’entro per qualche cosa nel suo affanno; forse la moglie del dottore... non so veramente cosa possa dire di me, ma infine...
— No, non mi ha parlato di lei.
— E allora?
Ippolito era incalzante, guardandola ansioso coll’interesse che dà il vero affetto.
— Proprio nulla — fece Daria tentando di mostrarsi disinvolta — quella signora voleva... voleva niente insomma; voleva maritarmi.
La fronte di Ippolito si contrasse dolorosamente.
— Ma io le dissi che non voglio — soggiunse Daria con prontezza — ed ecco.
Si guardarono. Il bel sorriso di Ippolito spuntò sui suoi labbri mentre mormorava:
— È vero che io non c'entro per nulla.
Fu un raggio celeste quel sorriso.
Ella gli stese una mano mentre coll'altra teneva la bambina. Ippolito la strinse ardentemente, avvicinandosi a lei con uno slancio d'ebbrezza; ma furono forti tutti e due. Daria rizzò in piedi la piccina tendendogliela tutta tremante. Egli, senza levare gli sguardi dalla sua diletta, baciò e ribaciò intensamente la testina dell'angelo che stava in mezzo a loro.
Ippolito voleva parlare quando entrò Rodolfo in cerca del suo fucile per pulirlo; ma il cane non giuocava bene e pensò che era meglio mandarlo dall'armaiuolo; allora si buttò a traverso del divano dicendo a Daria di fargli vedere le prodezze di quella bambolina; egli era meravigliato che non camminasse ancora.
Dopo una notte di insonnia affannosa Ippolito scrisse a Daria:
«L’amico che ha tanta stima di lei e che desidera la sua felicità, la prega di ponderare seriamente il rifiuto dato, e, se ha un po’ d’affetto per lui, in nome di questo affetto medesimo la supplica di pensare al suo avvenire.»
Daria rispose:
«Grazie; sono immutabile.»
Intanto il rifiuto di Daria portato in giro dalla dottoressa circolò nel paese e tutte le signore Erneste e tutti i Rossetti del circondario vi lavoravano attorno di punta e di taglio, concludendo che a questi lumi di luna non si rifiutano così leggermente i mariti senza avere qualche cosa di meglio in serbo.
E grande fu lo scandalo dei bigotti lascivi, grandissimo quello delle caste matrone.