La Fata Morgana (1797)

Ippolito Pindemonte

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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. XI


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LA FATA MORGANA

POEMETTO

DI

IPPOLITO PINDEMONTE

Temira, udisti mai la meraviglia,
Che nel Siculo mare a i giorni estivi
Tra il lito di Messina e quel di Reggio
Il fortunato passeggier consola?
5Su la cetra io l’ho posta; odila: quando
L’ora, e il loco al cantar ne invita, e quando,
Come tutto è quaggiù mutabil cosa,
Più di me non ti piace ormai che il canto.
     Nella stagion che di mature spighe
10Ondeggia il campo, e susurrando il curvo
Ferro del mietitor par che richieda,
Io pien corra de le memorie antiche
L’onda Sicana, or con Ulisse, Ulisse
Cui cinsi il piè d’Italian coturno,
15Giovane audace, or con Enea varcando,

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E qui le grotte di Calipso, e i boschi
Là di Circe io chiedeva, e il roseo prato
Delle Sirene, ed or volea col dito
Il bruno antro mostrar di quel Ciclope,
20Cui seppe ingentilir Ninfa marina:
Dolci menzogne, inganni dolci, e sogni,
Voi la delizia, di me tolto io grido,
Foste degli anni primi, e voi sarete
Degli estremi il conforto. Allor voltaro
25La prora, ed ecco incontro a me l’antica
Venir città della Calabria, assisa
A i piè dell’Appennin fatto collina,
E all’Italo confin da Nereo imposta,
La bella Reggio. E qui piegar le vele,
30E dar ne’ remi, ed afferrar la sponda,
E l’ancore andar giù, fu quasi un’opra.
Pera chi dirne osò: nulla giammai
Mostrar di peregrino, e di gentile
Quei Cittadin: falso n’è il grido, e in loro
35Greche faville ardono pur, cui soffio
Di malvagio destin non tutte ammorza:
Stanco il giorno languiva: io scendo: ed ecco
Cortese abitator giunge, e m’invita
A la cena ospital. Gli ornava i Lari,
40Qual suol vergine rosa ornar giardino,
Una tenera figlia, e tal, che s’era
Del buon Zeusi a l’età, sola fra tutte

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Fanciulle Calabresi avria bastato.
Io la vidi, e nel cor sì dolce un moto
45Sorse, che ricordar gli feo del tempo
De’ nostri amor, Temira, e nel suo volto
L’antico io ravvisai poter dell’avo.
Vidila, e tacqui; e il periglioso ospizio
D’un moto non offesi, e non d’un guardo.
     50Tolte le mense, e giù dal ciel la notte
Precipitando, a spiar l’aure uscimmo;
E l’uom cortese: o ch’io m’inganno, o pago
Sarà tosto il desio. Ma la Fanciulla
Gìa con la Madre a ritrovar le piume,
55E parve il ciel più brun, l’aura men cheta.
Intanto io era ad un balcon col Padre
Del parlar vario a i cadenti occhi inganno
Facendo; e in me, ver la sorgente Aurora,
Tu se’ desta, io dicea, ma qui, nè il sai,
60Qui più bella di te dorme un’Aurora.
E già nato era il Sol: quand’ecco in fretta
Donne e fanciulli, ogni uom correre al mare
Veggio, e gridar Morgana odo, Morgana,
E Morgana iterar gli scogli e l’onde.
65Precipitiam le scale, e in erto loco
Su l’orme del mio duce i passi affretto.
     Qui l’alto a gli occhi miei prodigio nuovo
S’offerse: fiato non movea di vento,
E quale specchio era il mar terso e immoto.

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70Oh cara vista! un lungo in prima io vidi
E sul mare e ne l’aria ordin fuggente
Di colonne con archi, e dense torri,
E castella, e palagi a cento, e cento,
L’uno appo all’altro e l’uno all’altro imposto.
75Poi, la scena mutando, ecco sfilarsi
Mille viali di ben culte piante,
E fiorir sotto a innumerevol greggia
Mille colline: indi mutando ancora,
Schiere di Fanti e di Cavalli armate
80Muover come ad assalto, e le faville
Di vicina battaglia in cor volgendo:
Ed altre varie forme e pinti aspetti,
Che vengono e che van, tornan, dan loco
A pinti aspetti e ad altre varie forme,
85Qual fosse pe i deserti ampli del cielo
Un rapido varcar di mondo in mondo.
Spettacol solo! e in faccia a cui son nulla
Quanti ornare il Sebeto, ornar la Senna
Ludi scenici udiam, nulla fur quanti
90Brillar di Scauro e di Perícle a i giorni
Vider, classiche terre, Atene e Roma.
Nè appo lui vanterò quei che Natura,
Quei ch’Arte, od ambe congiurando insieme
Sanno in parco e in giardin conforti offrire
95De’ non lieti Monarchi al ciglio oscuro:
Che Idelfonso, Marlì, Scombrun, Versaglia

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Non pur, ma gli orti, onde la gran Reina
Babilonese, infamia e onor del sesso,
Inghirlandò le temerarie mura,
100Su cui, sdegnoso invan, spinse l’Eufrate
Alto qual di Marlì lo spruzzo ascende,
Spettacol men gradito: e men gradito
Spettacol fora la gran festa, quando
Sul Cidno apparve la Niliaca Donna.
105Vele d’ostro, aurea poppa, e argentei remi,
Mossi al tenor di flauti e sistri e cetre,
E il padiglion trapunto, ov’era all’ombra,
E d’abito e beltà lucenti intorno
Donne e Garzon, tutto parer la feo
110Tra le Grazie e gli Amor Venere Diva
Sorta di nuovo fuor dell’onda; ed ecco
Ch’offre al Drudo Latin la bella cena,
Pendean d’alto ben mille e mille faci,
Per cui quell’onda, in raddoppiarle, ardea,
115E sue ragion notte usurpava al giorno.
E Antonio intanto a così allegre mense
Bevea quel venen dolce, onde poi stando
Qui due begli occhi ed un accorto labbro,
Là Roma, Italia, Europa e il gran Senato,
120E i grandi Iddii, vinsero gli occhi e il labbro.
     Svanito era l’incanto, e mare e cielo
Tornati il cielo e il mar di prima, e gli occhi
Pur larghi e fissi io per veder tenea;

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Quando a la voce di mia fida scorta
125Mi scossi e risensai: lungo il marino
Lito prendemmo allora, e tai parole
Fea la scorta fedel volar dal petto.
     Fra queste, che or ti vedi al destro fianco
Sorger colline, ha una gran Fata albergo.
130Morgana è il nome; e chi la dice in Colco,
E chi nata in Tessaglia. Un giovinetto
Figlio di questa terra, ed il più bello
Ch’occhio vibrasse mai, sciogliesse chioma,
Qui vide, e sì cocente amor ne trasse,
135Che a null’altro pensò: rapillo, e in chiusa
Grotta il ripose tra que’ monti; e gli anni
L’arte gli accrebbe, e infuse a i nervi e a l’ossa
Lungo vigor di giovinezza. È antico,
Ma non ritien men di sua forza il grido.
140Non resse al duol l’antica Madre; e quante
Vergini ha qui non immature, e ancora
Qualche straniera Vergine le tronche
Speranze lacrimò di sì bel letto.
Ma la Maga infiammata il Garzon caro
145Tiensi e la notte e il dì presso, con pari
A tal foco d’amor ghiaccio di tema;
E sol fuor de la grotta un cotal poco
Gire il lascia a diporto: i pastor nostri
Giuran che l’han talora inverso sera
150Visto passar tra bianche spoglie avvolto,

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E sventolante i bei crin d’oro a l’aura.
Ma perchè alfin le crude noje, e prole
Delle noje inquieta i desir nuovi
Non guidi al Vago la conforme vita,
155E i giorni d’un color sempre ritinti,
Tai moltiplici viste e care scene
L’illustre Maga immaginò, che furo
Da noi pur colte, e che pel suo Filino
(Tale ha nome il Garzon) sol finge e addita.
160E però quando il vede sazio e lasso
Dal ripetuto careggiar, da i lunghi
Abbracciamenti giacer freddo e muto,
Gli offre il vago spettacolo, ed il volto
Rallegra giovanil. Come ciò s’opri,
165Chi più vanta d’ingegno in queste piagge
Narra che tal n’è il magistero e l’uso.
     Sparse da pria l’accorta Maga in questa
Riva di mar tale una sua d’ignote
Materie, che antimonio, e quarzo, e dirle
170Selenite ascoltai, tessuta arena,
E sue terre anco per que’ monti ed erbe
Pose, le braccia, e il piè vagando ignuda,
E i carmi aggiunse, onde travolti andaro
Dal corso i rivi, e impallidisti, o Luna.
175E tal de’ carmi sacri è il suono arcano,
Che le parti minor d’essa mistura,
Sol che raggio Febèo le punga alquanto,

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Ciascuna si risente, anima, e come
Sciolta da lungo sonno, o messe l’ale,
180Si muove, in alto vola, e su pell’onde
S’aggira; e un viver morto, un nido angusto
Muta in libero albergo, e in nobil vita.
Sì disposte le cose, attende il punto,
Che su quel mare il Sol, che nasce, obliquo
185Ferisca; ed ogni vento allora, ogni aura
O ne l’ingrato ozio incatena, o manda
A increspar le vicine onde Tirrene.
Allor, qual se di noi pendesse a fronte
Gran tela di cristallo, ecco riflessi
190Veggiam d’esta riviera in lei gli obbietti,
Però che il Sol ne sorge a tergo, e addensa
Umida notte que’ vapor, cui dietro
S’ergono di Messina i monti opachi,
Che, se lice affrontar col meno il sommo,
195Son pur del vaporoso aereo specchio
Gli argenti o i piombi, artefice Natura.
Ma qual fu quello, cui su l’altra riva
Levò per acciecar l’Augel Latino
Il gran Siracusano, o quel cui drizza
200Ne gli erbosi eruditi orti reali
Il Gallico pittor della natura,
Tale il pendolo specchio è in mille specchj
Partito; e sì pini ben cento un pino
Produce, ed in cento archi un arco solo

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205Meravigliando si raddoppia, come
S’uom divenisse un Briareo. Poi sia
Del mobile cristallo uso nativo,
O che dietro la Maga industre il mova
Come più vuol, sì che il vibrato raggio
210Con tenor vario in lui fera e rimbalzi,
Qual noi veggiam da gli aurei palchi a un fischio,
Tale anche muta quella scena, ed ove
Città sedea, frondeggian selve: queste
Fuggono, e move ampio di Marte un campo.
     215Così nell’aria appar l’incanto: appare
Spesso ad un tempo ancor nell’onda, come
Vedemmo a questa volta; e tal n’è il caso.
La notte, che il prodigio alto precede,
Va sotto il mar la Fata, e con Nettuno
220Si ristringe, ed or priega, ora minaccia.
Nettuno ver Messina il mar rigonfia,
E a se nel trae ver Reggio, e sì lo agguaglia,
Che a Reggio, d’esto vagheggiarsi altera,
Novello acquoso specchio offre ed assesta.
225Ciò innanzi avvien de i matutin reflussi,
Le cui prime acque dal meriggio all’Orsa
Lente lente movendo, ecco partirsi
Pur quello in cento specchj, e i cento in mille,
E versatile anch’ei vantar la scena;
230Fin chè l’acque seconde urtin le prime,
E temendo via fuggano gli obbietti

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Al cruccio, e al mormorio dell’onda in moto.
Ma il fondo d’esso mar, che del cristallo
È la foglia, o la polve, a far ben nero,
235Proteo là sotto il gregge muto aduna,
Mosso a tal da la Maga. E allor vegg’io,
Quanto è in ciel, pur nell’onda, e sol che un legno
Ancorato sia qui, scorgo un’Armata,
E non mi bastan gli occhi, e invidio un Argo,
240E col pensier volo a quei dì che Roma
Questo medesmo mar contro una sola
Dell’Isola città cuoprio di vele,
Che non conobber del ritorno i venti;
E a quei, tepidi ancor di civil sangue,
245Quando il giovin Pompeo quest’onda corse
Furioso così, che furioso
Men vola su quest’onda il suo tiranno,
Euro, superbo de i cavalli eoi.
     Qui tacque, e in se pensoso alquanto e fosco
250Stette; e da noi richiesto, in mente, ei disse,
Mi luce il foco marzial, ch’or arde
Tra l’Indo, ed il Britanno in altri mari,
Ma che sul nostro mar tal manda infesto
Reverbero e stridor, che impaurito
255Da i porti vuoti, e da i tacenti scanni
Con l’oro in grembo, e l’arti magre a tergo
Fugge il Commercio, alma de’ regni e vita,
Anzi vero motor del mondo tutto.

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Ed io: l’uom sempre è uomo, e indarno ir vuole
260Più felice de gli Avi. A che mi vanti
Quel che le nazion varie e remote
Vincolo unì? Piomba di tutte in capo
Il mal sol d’una, e per quel nodo inoltra,
Come fulmine va sul fil che il mena.
265Ed egli ancor: nè spero io pace; il Gallo
Felice or già troppo sovrasta, e troppo
Fermo ne’ fati avversi è l’Anglo. Ed io:
Non temer no ch’ei non risorga; come
D’in su l’Etna vicin, padre fecondo,
270Cresce del potator sotto alla scure
Gran selva, tale questa nobil gente
Vivace torna quando appar più trista,
E vigor trae sin dalle piaghe. Verga
Ferrea, cui torcer vuoi, più la costringi,
275Più sua forza natia desti, e più ardita,
Sol che cedi un momento, ancor s’innalza.
E già Vittoria sulle stanche poppe
Volare, e alfin vegg’io la Dea superba
Militar co i Britanni: allor di cielo
280Scenderà l’alma Pace, allor fia pago
L’American, già nuovi patti unendo,
E qual gli detta in sen del nido avito
E de l’Anglico nome amor risorto,
Cui l’ira solo a sopir giunse, o Febo,
285M’inganna, o ancora un popol sol di due

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Veggio contra il comun nemico antico
Formarsi, e ancor sù i trionfati mari
Del fier Tridente armar sola una destra.
     E già quegli seguìa più lieto in viso:
290Quanto io parlai sinor, vedesti, e tua
Fu ben ventura; ma più bello ancora
Cotal volta è il teatro: i varj oggetti
Pinti mostran talora i lor dintorni
De’ colori almi, onde la bella Nuncia
295Tesse l’arco piovoso, e il ciel rallegra.
E allor, più torni l’aria inerte e spessa,
Opra la Maga, che a que’ monti affida
Le magich’erbe, ond’escon gli olj e i sali,
Ch’osan trattare i campi aurei del cielo
300Furtivi, e da l’amica aria coperti;
E questa, a i caldi rai del Sol che monta,
S’agita, si dissolve, e rugiadosa
Venuta e luccicante, orna e ricinge,
Come brillanti gemme opra d’intaglio,
305Quanti oggetti appresenta, invidia e duolo,
Bella Nuncia di Giuno, in te destando,
Che accrescesti talor, se vero è il grido,
Di alquante lagrimette il tuo dolce arco.
E quello è il grande, e da non dirsi, o invano
310Dirsi, spettacol è; ma rado incontra,
E sol quando languente oltra l’usato
Mira e scontento il Vago suo l’Amica,

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E maggior quindi è l’uopo: il giovinetto
Semplice e rozzo a quel più raro incanto
315Pensier non è di libertà che serbi,
Gode, festeggia, i morti spirti avviva,
E d’un Titone un Cefalo ritorna,
Come ha desìo l’innamorata Maga.
     Tai cose ragionava il dolce Amico,
320E tai cose, o Temira, io strinsi in metro.
Indi tolse commiato, e all’ospitale
Cena invitommi nuovamente. Io mossi
A rintegrar de la mia veglia il danno,
E sognai mare, e sognai viste e incanti,
325E i penati sognai del caro Amico,
E la mensa, e colei che sì l’ornava.
Sorto, per la cittade a diportarmi
Io trassi, che più grande e men raggiante
Stava il Sol già cadendo: e il loco, e gli usi
330De gli abitanti io gìa spiando, e l’arti,
E la viva nell’uopo industria; ed ecco
Bianco vestita, e di fior cinta il capo,
La Verginetta a me venir sognata;
E pria sentii battermi in volto un’aura
335Dolce, qual è la nunzia aura dell’Alba.
Vagar tra un coro di fanciulle amiche
La vidi, e vidi allor quanto era bella.
Giunti all’albergo, e rivestito il desco,
Due ben nati Garzon figli del loco

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Vennero, sì ch'io sedei sesto. Fuma
La mensa, e porporeggia il terso vetro.
Nè la Murena, de i Roman conviti
Già delizia, mancò, né l'aurea a gli occhi
Siracusana Panacèa, che tosto
Destò i motti leggiadri, e il riso arguto.
Paga la natural voglia de' cibi,
Fu più annodato il ragionar: ma come
Non dir mai di Morgana? o incanto, o aspetto
Sia casual, certo, io parlai, non rado
E tra monti e su laghi appar tal sorta
Di vaghi mostri, e quel tra gli altri è bello,
Che fu d'in cima a Nordica montagna
Visto, a la nostra età. Tacqui, e il desìo
Dal volto uscir de la Fanciulla io vidi,
E seguitai; dirollo, o bella, e forse
Piacerà che un pò d'alto i detti io mova.

Sagace e ardito esplorator del vero
Scuoprio dal basso un'assai densa nube,
Che su l'erto sedea Broken alpestro;
E tolto un condottier, cui noto è il calle,
Volle il monte salir. Dà forze al fianco
L'amor del nuovo, e i bei sudor gli asciuga
De la lode vicina il dolce vento.
Giunto, tra spesse nebbie avvolto e chiuso
Vedesi, e il duce invan cerca de gli occhi,
E il chiama invan; che gli morìa sul labbro

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Tra quei vapor la voce, o uscìa, com'esce
Da le nude ombre a Dite infranta e roca.
Or che farà? tutto a sue pelli in seno
Si stringe, si raggruppa, e sopra un sasso
S'asside, al sasso indifferente: i dardi
Eran del freddo assalitor sì acuti,
Che il fiato a lui gelò tra labbro e labbro,
Qual se visto avess'ei quella Medusa,
Onde impietrava ogni d'uom polso e vena.
E già morto vi fora, ostia a Sofia ,
Qual fu d'altri tra il foco in altri monti,
Onde infami son anco Etna e Vesevo;
Ma dolce a un tratto meraviglia e nuova
Non che a salvar, giunse a bearlo. In neve
La nube si disciolse, a se d'intorno
Vide nascer la neve: i fiocchi a un punto,
Mirabil arte, fur tessuti, e primi
I più alti vapori a ghiacciar furo,
Rotto avendo da pria la nube in alto.
Un vento indi levò, che quella al basso
Spinse di balza in balza, ed ei si vide
Cinto d'una serena aria, che un Sole
Chiaro più ch'altro mai lustra e riscalda,
E l'occhio infetto del vapor maligno
Con ignoto piacer la cara luce
Beve alto; quale chi da l'ombra inferna
Sbucasse al cielo aperto, e a l'aura viva.

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Vide il suo duce allor, ch'ei pure indarno
Fischiato avea, vide il fedel suo cane,
Che avea latrato indarno, e per le balze
Seguir credendo un capriuol, seguìa
Parte di que' vapor densata e bianca
Con disutile caccia a un vano spettro.

Così Natura, grande ancor se giuoca,
Spesso gode accoppiar l'orrido e il bello,
Somma pittrice in contrapposti. E il vago
Non appar forse di Morgana aspetto
Tra due infamie del mar, Cariddi e Scilla?
Pende su fresca valle arida rupe,
Tra piagge di bei fior mugghia un torrente,
E tal vedrai di giovinetta donna
Sotto viso gentil rustiche voglie,
E in Angelico petto un cor d'Inferno.

Ma il prode Osservator s'arresta; ch'ivi
Vuol la scena goder del Sol cadente.
Dolce scena! ma cui pronta succede
A cotai volte la più trista e amara.
O Fanciulla, se mai ti punga amore,
E quel felice sia lontan che tu ami,
Fanciulla, ah non mirare un Sol che cada.
Ed ecco allor che le più alte cime
L'ultimo salutò purpureo raggio,
Ecco pinto ne l'aria, e in faccia appeso,
Qual da non viste funi altera mole,

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Ei si mira il gran monte, e la vicina
Capanna, ed i pastor che gli fean cerchio
Nota, e se stesso riconosce e accenna,
Ed accennato ei pur viene in quel punto
Da l'immagine sua, cui d'un sol tocco
Compitamente il gran pennel del Sole
Ritratto avea sopra l'aerea tela.
Tal piacer non ti diè lo specchio, o bella,
Il dì che più di te fosti contenta,
Come in quel suo specchiarsi esultò il saggio
Del bello Indagator: ma resta immoto
Con ritte mani e semiaperta bocca
Di stupore il Villan; latrano i cani;
E pendente il fanciul bee da la madre
Col guardo e con l'orecchio i dolci eventi,
Che tra le bocche indi volando, faccia
Prendono alfin d'un vero alto, di cui
Fan conserva gradita il tempio e l'ara.

Bella fu la tua storia, Ospite, e molto
Debbiamti, disse la donzella; ed io:
Fu assai più bello quel rossor che al cenno
T'infocò de lo specchio ambe le gote.
E qui di nuovo ella arrossì. Di voci
Nacque in aria un frastuon confuso intanto,
E bei fatti ciascun traea del capo,
E ne ordian lor novelle. Al Tebro in riva
Ecco d'Unni e Roman sì orrenda zuffa,

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Che d'ambo i campi rimanean già pochi;
E sorger ecco i guerrier morti a un tratto,
E rovinar l'un contra l'altro, e ancora
Mescer le redivive armi, e una morte,
Di notte ancor, dare o incontrar seconda.
Tal la corrotta tabe, e il sangue negro
De' corpi, onde fu pria gravato il campo,
Bruttò quell'aure, che lor grembo pieno
Han sempre de i vapor del padre Tebro.
Nè t'increbbe, almo Sole, nè t'increbbe
Il diro uffizio, o pia del Sol Germana?
Quale è l'orecchio , a cui non sia mai giunta
L'aerea danza di que' Dei campestri
Entro le valli Mauritanie? ignudi,
O di nebride cinti, e armonizzando
Con tenor boschereccio alzan lor salti
Al primo quei pastor sole e a l'estremo;
E se il canto ed il suon tra i Dei campestri
Par s'oda, è la fanciulla Eco che il duolo,
Quel primo duol con l'innocente gioco,
Duol crudo o scemar tenta, o fargli inganno.
E quando il vecchio Imperator Latino
Vide ne l'acque di quel bagno amaro
L'ombra, che il minacciò col brando in alto?
E quando Mario a l'Aniene in riva
Levar da i rotti marmi il morto capo
Vide l'agricoltor? con tai parole

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S'ingannavan da noi l'ore notturne,
E su i vani timori, onde son l'alme
De' miseri mortali afflitte e dome,
Pietà dal cor, più che da i labbri riso
Si riversava. L'uom cortese a i detti
Tacito pende, e l'uno or guarda or l'altro,
Poi si raccoglie in se, medita, e scorno
Già par che il prema del narrato incanto.

Ma la donzella dal rossor gentile,
Che vide il cenno de la madre, a cui
Gravi reggeansi le palpebre a stento,
S'innalza, e dolce nel partir saluta,
E a me propizio augura il vento. Ed io:
Ben volgon gli anni che il materno letto
Col letto nuzial muti, ed impari
Novelli amplessi, e stile altro di sonni,
E di piume un tepor forse più caro.
E qui la terza volta ella arrossendo
Ratta s'invola; ed un cotal sorriso
Sorrise di piacer la cara Madre,
Ed il passo senil dietro affrettolle.
Ma il Padre: or saper dei che un Garzon vago,
E in sen de le più vaghe Arti nodrito,
Stranier, ma nato in città nostra, tosto
Verranne, e sposa a le paterne case
La condurrà. Basta, diss'io, che alcuna
Non lo vi tolga innamorata Maga.

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Allora un di que' due, che l'aurea cena
Fur chiamati a cenar, feo tai parole
Volar di bocca. Il labbro avea bruttato
A quel torrente di scienza immondo,
Che già da l'alpi a noi scese inondando,
E franco il cor d'ogni paura, e un sordo
Vantava orecchio d'Acheronte al fiotto.
Forse d'egual tenor, disse, fu l'alto
Portento, che al voltar mirò del sole
L'infelice Siòn: cocchj per tutto
Quel ciel ne l'aria roteanti, e in moto
Tra l'alte nubi gran falangi armate;
E tal fu quello, cui ne l'aspra pugna
Vide, già nato il sol, d'Antioco il figlio:
Cinque su bei destrier ricco addobbati
Eroi dal cielo, e due di Giuda al fianco,
La Greca fulminando oste nemica,
Che inferma e cieca innanzi a lor cadea.
Ciò non soffrìo l'altro Garzon più saggio,
E riprese: che narri? allor che il primo
Portento apparve, mosso ancor non era
Dal condottier Romano a le divine
Mura l'assalto: indi tra l'alte nubi,
E in quel ciel tutto le falangi e i cocchj
Come veder? che più? cento altri segni
Dal ciel fur dati: l'ignea spada, il parto
Nefando, il lume che l'altar ricinse,

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La porta de gl'interni aditi infranta,
Vario di chi fuggia bisbiglio, e il prima
Già risuonato vaticinio: voce
Da l'Orto, voce da l'Occaso, voce
Da i quattro venti, a Siòn voce e al Tempio,
Voce ai sposi e a le spose, al popol tutto.
Ciò dipoi, quanto a Giuda, abbiti solo,
Che dardeggiar, che fulminar da l'alto
Potea mal certo una reflessa imago,
Un'ombra pinta, un colorito fumo.
L'apparente ed il ver partir fa d'uopo,
Nè quello a questo dee tor mai la fede.
Quando a Vesulio ogni uom gelò per tema
De l'armato guerrier che da le nubi
Pendea con brando sguainato, e visto
Fu poi l'Angiol marmoreo al tempio in cima,
Chi miracol gridò? Forse l'inganno
Pur sai di que' Peruviàn, cui spesso
Il Dio loro Anazoth scendea del cielo
Ed apparia? stolti! che presso un lago
Giacente in chiusa valle al finto marmo
Van di quel Nume, e ne la nebbia opposta
Miran sua forma, e le radici intanto
De la religion ne'rozzi petti
Poc'aria figurata indura e spande.
Or negherai, che un Dio talor, quel Dio
Che a scender non avea di ciel per questo,

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Monarca offeso, o consiglier placato
Al caro si mostrasse instabil Giuda?

Ed io per torli al periglioso calle,
Deh come in accoppiar due grandi estremi,
Lor dissi, di natura emulo il caso
Andar suole talor! figliò nel Quito
Grossa ignoranza quell' error più grosso,
E de la terra fu pur là che Franchi
Misuraro Argonauti il dubbio grado,
Bella d'umano ingegno opra, acquistando
Più nobil fede a quel che pria recaro
Dal freddo polo altri Argonauti annunzio
Con lo schiacciato in man globo tornati:
E l'Angla di Neutono ombra volava
Con piacer nuovo a le gran vele intorno
Che andar vedea d'un suo trionfo altere.
Qual v'ebbe mai clima più sconcio e infame
Per aere crasso e per sinistro influsso
Del Beotico cielo? e pur la dotta
Grecia in que' monti, tra que' boschi e stagni,
Non sotto il puro Attico ciel felice,
Pose d'ogni bell'arte il tempio, e tutta
La corte amò favoleggiar d'Apollo.

Ecco il vento, ecco il vento: alto i Nocchieri
Gridano a prova; ed io da lui partendo,
Vivi, dicea, cortese alma, felice,
E tua fede ospital compensi il Cielo.

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Dan l'aure ne la poppa, e ver l'altera
Partenope solchiam l'onda, cui fea
Lucida e crespa il bell'argenteo lume
De la tacita Luna. Al fuggitivo
Lito io spesso mirava, e di Morgana
Non volgea sì le meraviglie in petto,
Che non volgessi ed ancor più le care
Mura, e il viso gentil, gli atti soavi,
Lo sguardo in se raccolto, il parco labbro,
E il rossor vago, e la pudica fuga;
E tutta del compagno Astro, che piove
Sì dolce in suo cheto vagar tristezza,
Mesto e lieto io sentia nel cor la forza.

Sorgiam, Temira: la notturna veglia
T'aspetta, e grida ch'io dia fine al canto.
Vanne, felice o tu, cui ride intorno
Tutto e festeggia, e bear puoi beata.
Tu ancor passeggi ne l'uman cammino
Il sentier de le rose: io già tra foschi
Arbori muovo; i giorni miei più vaghi,
O che mi parver tai, passaro, e grave
Benchè non sieda in me l'età, pur veggo,
Ch'io non a lui, ma che a me vecchio è il Mondo,
Ch'è pur giovin talora ad uom canuto.
Or che più ti ritengo? Il sol vivace
Diletto mio l'arte de' carmi è solo.
Ma quest'inganno pur, ma pur quest'ombra

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Sarà in breve disciolta: odo le voci
Non di quell'arti, che del nostro orgoglio
Figliuole, e d'agi e di piacer son madri,
Ma da quelle chiamarmi odo, che l'uomo
Miglior, più caro altrui, più sempre il fanno
Caro a se stesso, e de l'eccelsa rocca,
Ove alberga Virtù, guidanlo in cima.
O Virtù , bella Diva, unica e vera
De l'uom felicità, chi te desia
Forse vicino è al possederti: intanto
Corona col tuo nome il mio lavoro.