E maggior quindi è l’uopo: il giovinetto
Semplice e rozzo a quel più raro incanto 315Pensier non è di libertà che serbi,
Gode, festeggia, i morti spirti avviva,
E d’un Titone un Cefalo ritorna,
Come ha desìo l’innamorata Maga.
Tai cose ragionava il dolce Amico, 320E tai cose, o Temira, io strinsi in metro.
Indi tolse commiato, e all’ospitale
Cena invitommi nuovamente. Io mossi
A rintegrar de la mia veglia il danno,
E sognai mare, e sognai viste e incanti, 325E i penati sognai del caro Amico,
E la mensa, e colei che sì l’ornava.
Sorto, per la cittade a diportarmi
Io trassi, che più grande e men raggiante
Stava il Sol già cadendo: e il loco, e gli usi 330De gli abitanti io gìa spiando, e l’arti,
E la viva nell’uopo industria; ed ecco
Bianco vestita, e di fior cinta il capo,
La Verginetta a me venir sognata;
E pria sentii battermi in volto un’aura 335Dolce, qual è la nunzia aura dell’Alba.
Vagar tra un coro di fanciulle amiche
La vidi, e vidi allor quanto era bella.
Giunti all’albergo, e rivestito il desco,
Due ben nati Garzon figli del loco