La Famiglia De-Tappetti/XI - L'istruzione di Agenore

XI — L'istruzione di Agenore

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XI.


L’istruzione di Agenore.


Il lume a petrolio sopra un sottolume ottagonale, fatto di scatole di cerini appiccicate a un panno, fiammeggia in mezzo alla tavola. Il globo di cristallo smerigliato, è incrinato da cima a fondo e picchiettato di pezzetti di decalcomania, fatica speciale della pazienza e della saliva di Agenore.

La serva, al buio, sbadiglia sull’uscio della cucina.

Policarpo, Eufemia, Agenore, pieni di raccoglimento e di aspettativa, stanno seduti intorno alla tavola, accigliati, preoccupati, come se, da un momento all’altro, attendessero i conforti di nostra santa religione.

Policarpo De-Tappetti è infagottato in un [p. 101 modifica]vecchio cappotto militare, comprato a Campo dei Fiori, e trasformato dalla signora Eufemia in veste da camera mediante certi paramani gonfi, e un bavero enorme d’un verde così sfacciato che la testa di Policarpo, per via di riflesso e d’analogia, pare, occhiali a parte, una gran testa di cavolo.

La toeletta della medesima signora Eufemia è piena di pretese, con una quantità di nastrini e di fettuccie stinte, e con un “fisciù„ tutto accartocciato, che pare un gran mazzo d’indivia. Le pendono dagli orecchi due goccie di falso corallo che somigliano, fino all’illusione, a due bastoni di ceralacca

Agenore, come nei giorni di festa, ha la faccia pulita fino al giro del collo. Si notano pure traccie di tentativi audaci ma infruttuosi nella pulitura delle unghie e nella pettinatura dei capelli.

L’orologio della chiesa vicina suona le tre; Agenore le conta. Policarpo segue con te[p. 102 modifica]nerezza paterna gli sforzi aritmetici del figlio, poi dice a Eufemia stropicciandosi un occhio:

— Vedrai che non verrà; il tempo è minaccioso, il cielo è intempestivo.

— Papà, — gli chiede Agenore, — ma a che ora ha detto che tu lo aspetterai, con noi, perchè lui avesse venuto?

— La grammatica, la grammatica, figlio mio! — esclama Policarpo, con accento di terrore profondo, — ma le tue facoltà commemorative sono dunque così fiacche, malgrado le suggestività del tuo genitore? D’onde mai tanta oblivione, mentre ti ho detto di badar bene a quello che dici?

— Ma perchè dovessi parlare con la grammatica, se il mio padrino non c’è?

— La vita dell’uomo è unissona, — risponde gravemente Policarpo; — e sia detto per l’ultima volta che, quando in te stesso venisse meno il rispetto ai tempi, io non avrei la menoma oscillazione di tirar bene [p. 103 modifica]le orecchie alla tua inconsapevole puerizia.

Agenore che, durante questa predica, ha tenuto l’occhio fisso sopra un insetto alato, che passeggia sul tappeto:

— Papà, le mosche hanno le mani?

S’ode un passo lento per le scale, virgolato da colpi di tosse e da sospiri asmatici.

— Dev’essere lui! — esclama la signora Eufemia, facendosi un pochino rossa in mezzo all’indivia.

Una scampanellata pare confermi l’ipotesi della signora De-Tappetti.

La serva corre, traballando, apre l’uscio e dice:

— Si accomodi, signor cavaliere. [p. 104 modifica]

La famiglia De-Tappetti si alza con entusiasmo, si precipita verso il visitatore, lo sbarazza dell’ombrello, del paletot, del cachenez e della tuba, sulla quale Agenore si affretta a disegnare un gigantesco 14 col dito intinto di saliva.

— Oh caro compare! che onore! che piacere!

— Davvero! con questo tempaccio!

— Vi siete bagnato?

— Venite qui, vicino alla tavola: c’è più luce, — dice Policarpo con premura, come se lo invitasse ad accostarsi a un caminetto.

E il cavaliere Anassagora Caramelli, compare di Policarpo e di Eufemia, impiegato al fondo per il culto, viene trascinato a una poltrona che si regge per miracolo. Il cavaliere siede, ma si alza di botto, con faccia spaventata e portando una mano sotto la falda del soprabito. L’estremità d’una molla a spirale, fuori di sesto, acuta quanto un cava-tappi, lo ha punto vicino l’osso sacro. [p. 105 modifica]

— Che è successo? — chiede la signora Eufemia: — uno spillo forse? una forcinella?

— Non saprei, — risponde il cavaliere un po’ confuso, — qualche cosa di pungente che mi è penetrato nel....

— Sedere comodamente, — dice, con intenzione faceta, Policarpo, — è una delle vicissitudini agognate dall’individuo comecchessia lasso di questa, dirò così.... cavaliere, fate il favore, ecco una sedia scevra di qualsiasi punta inopportuna.

Finalmente il cavaliere Anassagora Caramelli è seduto, con tutto il comodo suo. È un tipo nè vecchio nè giovane, nè bello nè brutto, nè intelligente nè idiota. Le male lingue dicono che, prima della nascita di Agenore, Anassagora frequentasse molto casa De-Tappetti, mentre Policarpo stava in ufficio. Certo è che la signora Eufemia si è spesso vantata del compare al quale attribuisce, con visibile compiacenza, patenti di nobiltà. [p. 106 modifica]

— Mio compare, — soleva dire, — possiede ancora un seggiolone dei suoi avi, con lo stemma della famiglia sulla spalliera, e c’è una bestia rampante.

— Dunque, — comincia il cavaliere, per iniziare un qualsiasi discorso.

— Eccomi qua, — risponde Policarpo con accento maestoso di Coriolano alle porte di Roma.

— La salute?

— Benone. — risponde sorridendo Eufemia.

— E il nostro piccolo Agenore?

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— Il nostro piccolo Agenore adorna l’animo di studii preclari, — dice Policarpo, facendo la bocca a cuore; — vieni qua, Agenoruccio mio, dà un saggio al tuo padrino di quelle discipline letterarie che abbelliscono la tua adolescente precocità.

Agenore introduce tre dita nel naso, e con la testa bassa va a situarsi tra le gambe di papà, come un gruppo in gesso di Amore e Venere.

— Il nostro Agenore, — continua Policarpo, — è ancora ai primi rudimenti della sapienza, subordinata alla sua tenerezza, e anche alla mia, che gli voglio tanto bene, ma egli non difetta di quella larghezza costitutiva di cervello, che sua madre glielo dice sempre: studia, figlio mio, come tuo padre, che s’è fatta una posizione, e procura di ottenere quella perspicacia, con la quale fidiamo noi tutti nel tuo desiderio, che sarà il bastone della mia vecchiaia. E ora a te, Agenore, e vedi un po’ di farti onore, davanti [p. 108 modifica]a questo padrino che è cavaliere nel fondo del culto, persona altolocata, che ci elargisce i beneplaciti d’una preziosa amicizia. Su dunque, Agenore.

E Agenore con voce stridula:


               Farfallina, bella e bianca
               Vola, vola, e non si stanca
               Sopra questo o su quel...

— Ma no! — gli grida Policarpo; — la poesia la dirai per ultimazione dell’esperimento. Dimmi invece, quante sono le dita della mano?

Dopo un momento di dolorosa aspettativa, Agenore risponde:

— Cinque!

— Bene! — esclama Policarpo dando un’occhiata trionfale al cavaliere Anassagora, — e come si chiamano?

Agenore osserva le dita della destra, poi balbettando risponde:

— Pollice, indice, martedì, giugno, primavera. [p. 109 modifica]

— Ma tu confondi, figlio mio. Si vede che l’erudizione ti si affolla al cervello! Calma! calma! Pensa bene a quello che dici. Quante sono le quattro stagioni dell’anno?

— Sono cinque: pollice, ind....

— Ma no le dita! dico le stagioni.

— Sono quattro.

— Bene! e come si chiamano? prim.... primav.....

— Primavera, agosto, anulare, oceania.

— Mi pare, — osserva con indulgenza il cavaliere, — che sia piú forte in geografia.

— Credo anch’io, — miagola Policarpo atterrito, e, con voce strozzata, chiede al figlio: — chi ha scoperto l’America?

Silenzio glaciale per parte di Agenore.

— L’America, — ripiglia Policarpo fremendo, — non fu scoperta da Cristoforo Colombo?

Momento di viva trepidazione nei genitori. [p. 110 modifica]

Finalmente Agenore guarda in faccia suo padre e risponde con accento risoluto.

— No.

— Che dici? Cristoforo Colombo non è forse stato il primo a sbarcare nel nuovo mondo?

— No.

— Agenore, — strilla il padre irritatissimo, — tu accorda quest’onore storico e incontestato a Cristoforo Colombo, o io ti fo mettere a letto dalla serva e subito.

Agenore si mette a piangere, pesta coi piedi, smania, fa l’inferno. La mamma lo piglia per un braccio, e lui le graffia il naso. S’interpone il cavaliere Anassagora e Agenore gli afferra una manata di ricci.

— Sciagurato! che fai? lasciami!

Invece di lasciarlo Agenore tira. I ricci si staccano dalla tempia del cavaliere e con essi.... tutta la parrucca.

Policarpo perde il lume degli occhi, piglia Agenore di peso, lo porta nella camera [p. 111 modifica]da letto, chiama la serva e al suo cospetto somministra al figlio tutti gli schiaffi che la morale oltraggiata mette a disposizione della paterna autorità.

Messo a letto Agenore, con tutte le violenze del caso, Policarpo rientra nella camera da ricevere e dice al cavaliere Anassagora Caramelli:

— Compare carissimo, io vi domando scusa a nome mio, e interinalmente anche a nome di quella canaglia di mio figlio, che ho consegnato nelle braccia di Rosa, perchè lo passi in quelle di Morfeo. Dio mi è testimonio che fo di tutto per infondere il mio sapere nella sua personalità, ma le idee moderne cominciano a traviare il suo spirito. Io non so a quale carriera potrò avviare questo mio unigenito.

— Papà, — grida Agenore, mettendo il naso fuori del coltroncino, — voglio fare il cocchiere.

Il cavaliere a scanso di una nuova scena, [p. 112 modifica]fa due complimenti alla signora, saluta Policarpo e si ritira, in fretta e in furia.

Rimasti soli, Policarpo lancia un’occhiata di desolazione alla signora Eufemia.

— Come mai Agenore s’è ostinato a negare che Colombo abbia scoperto l’America?

— Chi sa! ma sei ben sicuro poi che l’abbia scoperta lui?

— Io?... credo di sì.... mi pare.... almeno.... l’ho inteso dire.

— Perchè a me, sembra, invece, che sia un altro.

— Hai ragione, perbacco! Ora mi ricordo che è un altro. Colombo non è, ma è un nome che gli somiglia. Per questo ho fatto confusione. Un nome che finisce in ombo.... in ombo....

La signora Eufemia radiante:

— È vero! Flavio Gioia.