La Famiglia De-Tappetti/XII - De-Tappetti all'Esposizione
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XII.
De-Tappetti all’Esposizione.
— Scegli! — aveva detto con gravità al figlio Agenore: — o l’esposizione o il tramvai.
— Papà, — aveva risposto Agenore, — scelgo anche il tramvai.
Policarpo rimase dolorosamente colpito da questa tendenza scialacquatrice del suo primo unigenito, ma non seppe reagire, pensando che questa gita sul tramvai era stata decisa fin dall’anno passato, in tre successivi consigli di famiglia.
Mentre il tramvai con tiro a quattro sale rapidamente per la erta di Magnanapoli, Agenore domanda:
— Perchè s’attaccano i muli assieme ai cavalli?
— Perchè la malagevolezza della salita richiede un servizio co’ mulativi.
— Ma il mulo non è fratello del cavallo?
— No, caro, è lo zio.
Il tramvai s’arresta davanti al palazzo dell’esposizione, e Policarpo discende, col figlio, non senza insinuare nella tenera intelligenza un’alta idea della paterna generosità.
— Vedi, figlio mio! i nostri sei soldi ci davano diritto imprescrittibile di farci portare fino alla stazione; ma noi abbiamo abdicato a due metà della corsa, perchè la voce dell’interesse deve taciturnizzare davanti alle glorie dell’arte, per cui riverbera sul nome italiano tanto lustro, che faresti meglio a badare dove metti i piedi. È la terza volta che calpesti le basi del tuo genitore.
— Papà: che cosa sono quelle statue? — chiede Agenore indicando il gruppo che corona il palazzo.
— Quello, figlio mio, è lo Statuto, con l’Italia e l’Indipendenza, che ci fu largito in occasione della festa annuale, che appunto si chiama giorno dello Statuto.—
— E quelle statue più basse?
— Sono i duchi Torlonia, coi quali fu inaugurato questo tempio del genio.
— E artiglieria! — dice canzonando uno strillone che passa.
— Concentratevi nella venale esposizione delle vostre effemeridi, brutto vassallo, — gli replica, con voce severa, Policarpo, — e non turbate un padre, nell’atto d’impartire alla prole una saggia collaudazione intellettuale.
Lo strillone fa un giretto, poi torna pian piano e attacca una coda di carta ai bottoni retrospettivi di Policarpo; Agenore se ne accorge benissimo, ma il suo animo, inquinato da traviamenti immaturi, gli consiglia una muta ma odiosa complicità.
Un signore che passa, avverte piamente Policarpo del tiro che gli hanno fatto. Policarpo con gesto maestoso porta la mano destra sulla parte interessata, strappa la coda, e grida:
— Questo non è soltanto un oltraggio individuale, ma è eziandio un attentato al soprabito di un pubblico funzionario....
E rivolgendosi a una guardia:
— Custode severo, ma giusto delle patrie leggi, io vi denuncio un crimine testè compiuto sotto i miei occhi.
— Dove?
— Dietro la schiena. Ai miei bottoni posticipati fu annessa un’appendice cartilaginosa. Eccola: è una coda. Anzi una codardia.
Policarpo, con la sua cieca fiducia nella tutela delle leggi, pianta la guardia con la coda in mano, e conduce Agenore al portone centrale del palazzo.
— È permesso? — domanda col dovuto ossequio al guardiano.
— No: di qui non s’entra.
— Che si entri dalle finestre? — pensa Policarpo, — scusi: mi farebbe il favore d’indicarmi....
— Lei ha il biglietto o la fotografia?
— La fotografia! — mormora Policarpo interdetto, poi con sorriso di trionfo: — sì, ne ho una.
— Allora entri per via Genova.
Policarpo trascina, giù per la scalinata, il riluttante Agenore, che strilla:
— Papà, che cos’è la fotografia?
— Vuol dire che non è permesso accedere negli ambienti espositivi senza presentare una fotografia. Per fortuna, ho in tasca quella di mamma tua.
Policarpo si presenta all’ingresso di via Genova. Il portiere domanda:
— La fotografia?
— Un momento. Essa è sul mio seno, dice Policarpo e cava dalla tasca del soprabito un vecchio protocollo, nel quale è con diligenza incartato il ritratto (tre per una lira) della signora Eufemia.
Il portinaio guarda stupefatto e dice:
— Ma non le somiglia per niente.
— Domando scusa: mi somiglia nell’integrità del carattere, nell’assiduità perspicua ai lavori civili e familiari, nell’inconcussa contribuzione al benessere.
— Qui non c’intendiamo! Lei ha forse esposto qualche cosa?
— Io no: ma un mio cugino ha esposta la sua vita per salvare un pericolante....
— Ma lei allora chi rappresenta?
Policarpo accigliato e solenne:
— Rappresento l’amore della famiglia, l’ordine, il progresso, la moralità.
— Ho capito! quand’è così, paghi una lira, si provveda di biglietto, e vada a entrare dalla parte di via Nazionale.
— Già ci sono stato, mio Dio, poichè la mia vita oramai non è più che una sequela di porte inaccessibili.
Agenore comincia a pestar i piedi.
— Stai cheto, stai cheto, Agenore. Noi finiremo per entrare, onde uscire da questa perplessità. Vieni: tergiversiamo nuovamente il cammino già compiuto, torniamo a questa via non meno Crucis che nazionale.
Tutto si trova a questo mondo e Policarpo De-Tappetti, finalmente, trova la porta per cui si entra. Ma proprio al momento in cui sta per introdurre il proprio individuo in quell’invenzione di Procuste ch’è il contatore, un portiere gli dice:
— Se vuole entrare, entri pure, ma l’avverto che tra sei minuti si chiude l’esposizione.
— Figlio mio, — esclama Policarpo, sbigottito: — sulle pratiche emarginate del destino era scritto che noi non dovessimo entrare in questo santuario dell’arte. Vieni: torniamo alle tranquille ma nutritive gioie domestiche.
— Ma io voglio andare sul tram.
— Il tram, figlio caro, è un tramite costoso, che va usato con parsimonia.
— Voglio il tram, se no mi butto per terra.
— Bada, Agenore, — grida Policarpo con voce iraconda: — non atterrirti, perchè io ti terrificherei. Ti sia quindi sacro il fondo dei calzoni come al genitore il fondo per il culto, sul quale resterebbe l’orma di una punizione inconcussa.