La Famiglia De-Tappetti/X - Agenore smarrito

X — Agenore smarrito

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IX - Rivolta femminile XI - L'istruzione di Agenore


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X.


Agenore smarrito.


Sono le nove e tre quarti di sera. Casa De-Tappetti è immersa nella più profonda costernazione.

La serva, seduta nel cantone più oscuro della sala da pranzo, appoggia la fronte sopra la spalliera e dorme in preda alle più strazianti inquietudini.

La signora Eufemia — dimentica di ogni delicato senso di pudore — è mezzo vestita e mezzo no, e il suo seno potrebbe presentare ancora qualche attrattiva agli occhi autorevoli di Policarpo, s’egli non si ostinasse a fissarli sui propri stivali con una costanza degna di migliore scarpa.

La signora Eufemia, ogni tanto, fa un [p. 91 modifica]salto alla finestra, e guarda, con rapido movimento di testa, ai due lati della via.

Indi, ritorna mestamente accanto a Policarpo che continua a considerare le proprio scarpe sotto un altro punto di vista, più patriottico, ma non meno doloroso del precedente.

Policarpo, con voce cavernosa:

— Hai visto niente?

— Niente; povera creatura.

Policarpo, reprimendo i singulti:

— Era il nostro amore! Era il nostro sangue, Eufemia! Era il mio ritratto! Il mio animo di padre è straziato nelle sue viscere immediate! Dio, abbiate pietà di noi; io non domando al cielo che una grazia sola: ricuperare mio figlio, per abbracciarlo teneramente, e metterlo, dieci giorni, a pane e acqua.

Indi, volgendo gli occhi sopra la serva:

— Oh femmina religiosamente devota ai doveri di cittadina e di domestica! La tua [p. 92 modifica]vita è un sacerdozio, che mantiene acceso il sacro focolare della famiglia, e comprende nel salario gli affetti d’un vergine cuore, retribuito mensilmente con pari tenerezza. Guarda, moglie mia, la povera Rosa. Ella non ha più il coraggio di pronunciare una qualsivoglia parola. La commozione la opprime.

— Perdona, amico mio, a me pare che russi.

— T’inganni! non è che il rantolo d’un cuore esulcerato.

La signora Eufemia, sospirando a mantice, ritorna, quasi barcollando, alla finestra.

Policarpo fa due o tre passi, poi s’arretra e dice con accento severo e fatale:

— Eufemia, non è più tempo d’esitare. Io devo perlustrare tutti i sette colli, anche a costo di fiaccare il mio. O ritroverò il nostro caro Agenore, o tu sarai vedova anzi tempo.

— Io ne morirò. [p. 93 modifica]

— E io verrò a piangere continuamente sulla tua fossa.

Così dicendo, cadono uno nelle braccia dell’altra.

Per essere storicamente esatto, devo dire anzi che Policarpo, avendo sbagliato la misura, cade invece sopra il lavamani, e manda in pezzi la catinella.

Rosa si sveglia di schianto, e grida:

— Madonna mia, gli spiriti!

E Policarpo, uscendo, con accento filosofico:

— Gli spiriti sono eccessivamente depressi.

E, ricalcando la bomba sin sugli orecchi, scende nella via.

Ah! voi non sapete....

È una storia, questa, lugubre e nazionale. Agenore è fuggito di casa. Il figlio dell’orzarolo gli ha detto che tutte le sere c’è una dimostrazione, con squilli di tromba, e Agenore s’è lasciato incautamente sedurre [p. 94 modifica]da quella prospettiva rivoluzionaria. Agenore è fuggito di casa alle otto scusandosi col dire che andava a comprare un soldo di cialdoni.

Come mai l’oculata signora Eufemia ha prestato facile orecchio a così sfacciata bugia?

Come mai ella ha potuto, anche per un momento, supporre che nella vita di Agenore potesse intercalarsi un episodio, rappresentato da un soldo di cialdoni?

Non calunniate questa eccellente madre di famiglia. Il sospetto aveva subito attraversato l’animo suo.

— Agenore ha un soldo? Dio mio! si sarebbe egli macchiato di qualche crimine? Ma non può essere. L’avrà trovato per la strada. Ma quand’anche ciò fosse, come mai egli si getta subito in braccio ai bagordi, alla disperazione, al libertinaggio?

— Agenore, Agenore!

Hai tempo a strillare! Agenore è già lon[p. 95 modifica]tano, Agenore è già a piazza Navona, insieme col figlio dell’orzarolo, suo compagno di traviamenti e di perdizione.

Policarpo ferma un agente municipale, davanti a San Luigi de’ Francesi, e gli domanda:

— Avete visto mio figlio?

— E chi siete voi?

— Io? io sono un padre infelice.

La guardia si spazientisce e risponde:

— Che vuole che sappia io?

— Ma come! scusate — esclama De-Tappetti — non è forse affidata a voi la tutela, la salvaguardia dei cittadini? Sono o non sono un regnicolo? Voi stesso siete o non siete un regnicolo?

— Badi come parla! misuri le parole!

Policarpo spaventato dalla propria audacia teme di avere offeso la maestà della legge, e fugge mezzo tonto, verso piazza Navona, pigliando di petto tutte le persone.

Appena giunto in faccia alla fontana, [p. 96 modifica]sente uno squillo di tromba, e vede un maresciallo che porta via di peso qualche cosa che pare un cencio, mentre invece è il giovane Agenore, figlio unico di Policarpo De-Tappetti.

Quale vista per un padre! quale vista, per un Policarpo!

È questo il punto culminante dell’azione drammatica.

Policarpo. — Figlio mio!

Agenore (con voce strozzata). — Papà; mi portano carcerato.

Maresciallo. — Ah, è vostro figlio, questo pezzo di birbaccione? perchè non l’avete messo a letto? perchè non gli date un po’ piú di educazione?

Policarpo (dignitoso). — Maresciallo, ve ne prego.... non diminuite il mio prestigio davanti a un’indocile prole, che versa a piene mani il disonore sulla mia testa, che un giorno sarà canuta.

Maresciallo. — Meno chiacchiere! [p. 97 modifica]

Policarpo. — Rendetemi mio figlio.

Maresciallo. — Ma siete matto!

Policarpo. — L’avete forse colto in flagrante?

Maresciallo. — Gridava l’Inno! l’ho udito io.

Policarpo (rivolgendosi al figlio con tutta l’amarezza d’un genitore offeso e deluso). Agenore! come mai, dopo tanti anni del mio fecondo apostolato, hai potuto emettere gridi sovversivi? come mai ti vedo in mezzo a gruppi di facinorosi? ahi, tu che dovevi essere il bastone della mia vecchiaia!

Agenore (piangendo). — Lo sarò, lo sarò.

Policarpo (inesorabile). — Ah, troppo tardi! il bastone della mia vecchiaia piomberà sulle tue spalle.

Momento di pausa e di raccoglimento.

Policarpo (con gesto autorevole). — Maresciallo: io sono un funzionario del governo; uno zio di mia moglie è amico d’un mi[p. 98 modifica]nistro, del ministro Mezzanotte, buon’anima sua; si davan del tu....

Maresciallo. — Vedo bene che lei è un galantuomo.... si prenda pure questo birichino e lo mandi a letto.

Agenore, mezzo sconquassato, passa nelle mani del genitore, che lo afferra per l’avambraccio, e lo trascina verso casa ruggendo:

— Disgraziato, che ci sei andato a fare in piazza Navona?

— A sentire la musica.

— E chi ha destato, nel tuo petto, questi gravi istinti musicali?

— È il figlio dell’orzarolo che m’ha detto che bisognava gridare: Vogliamo l’inno.

— Ma non hai tu riflettuto che il tuo grido offendeva i grandi corpi dello Stato? Ma dimmi: hai tu mai visto che tuo padre anche nelle grandi circostanze della vita abbia mai chiesto un inno? Perchè hai emesso, dunque, grida sediziose?

Silenzio prudente da parte di Agenore. [p. 99 modifica]

— Ah! tu non rispondi? tu ti avvolgi in dignitoso silenzio? Ma io non mi farò illudere da questo tardivo mutismo. Una correzione è necessaria. Vedi tu questa mano?

Gli dà uno schiaffo e conchiude con voce solenne:

— Questa mano impedisce al tuo piede di rimanere, ulteriormente, sull’orlo dell’abisso.