La Costa d'Avorio/3. La scomparsa di Gamani
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Capitolo III
La scomparsa di Gamani
I due cacciatori, abbandonato precipitosamente il banco, si slanciarono verso la scialuppa che era rimasta arenata e spintala in acqua con una scossa vigorosa, vi balzarono dentro, arrancando con grande lena.
Giunti però a trenta passi dalla riva, resa oscurissima dalla cupa ombra dei grandi vegetali, Alfredo fece segno al compagno di rallentare la manovra dei remi e alzatosi sul banco, col fucile in mano, lanciò un lungo sguardo sui rami arcuati dei paletuvieri.
Per alcuni istanti scrutò con somma attenzione quelle piante delle febbri, in mezzo alle quali poteva benissimo celarsi un uomo senza tema di venire scoperto, poi riprese il remo e spinse la scialuppa verso la sponda, ma procurando di non far rumore.
Prima di sbarcare attese ancora qualche minuto, tendendo gli orecchi per raccogliere il menomo rumore, poi rassicurato dal profondo silenzio che regnava sulla fiumana, s'aprì il varco fra i paletuvieri, facendo cenno ad Antao di seguirlo.
– Quante precauzioni, – disse Antao, che pareva sorpreso.
– Sono necessarie, – rispose Alfredo, che legava la scialuppa. – Non dimenticare che abbiamo degli uomini dinanzi a noi.
– Uno, Alfredo.
– Chi ti dice che fosse solo?...
– È vero, ma noi siamo armati e poi non abbiamo paura dei negri. Ed ora, come faremo a trovare Gamani, con questa oscurità?...
– Conosco la via.
– Se segnalassimo a lui che lo cerchiamo, sparando alcune fucilate?...
– No, Antao. Bisogna lasciar credere agli uomini che ci spiavano, che noi siamo rimasti sul banco.
– Ma ci avranno veduti attraversare il fiume.
– Ma ora li inganneremo.
– In qual modo?
– Lo vedrai. Imita la mia manovra.
Aveva estratto il lungo e solido coltello da caccia ed aveva cominciato a recidere alcuni rami, riunendoli in un fascio che aveva la grossezza d'un uomo, poi lo aveva coperto colla propria giacca di tela bianca. Antao, quantunque non capisse che cosa volesse fare il compagno, lo aveva imitato, vestendo quella specie di fantoccio colla camicia di flanella, non avendo giacca.
– Ora poniamoli nella scialuppa – disse Alfredo.
– Mi spiegherai il perché?
– Te lo dirò poi.
I due fantocci furono messi uno a prora e l'altro a poppa, poi la scialuppa fu liberata dalla corda che la tratteneva e abbandonata alla corrente, la quale la trasportò tosto al largo.
– Seguimi, – disse poi Alfredo. – Cerca di non far rumore e apri bene gli occhi.
Si cacciò senza esitare fra le piante, strisciando lestamente fra le immani radici che coprivano il suolo ed i cespugli che crescevano fitti fitti fra i tronchi dei grandi alberi, e raggiunse un sentiero aperto in pieno foresta, ma tanto stretto da permettere appena il passaggio ad un uomo.
Si lanciò innanzi risolutamente, tenendo il fucile sotto il braccio per essere più pronto a far fuoco, ma evitando con cura estrema di urtare i rami degli alberi che si curvavano su quello stretto passaggio e posando con precauzione i piedi, per tema di far scrosciare le foglie secche o di calpestare la coda di qualche rettile velenoso. Antao gli si era messo dietro, girando a destra ed a sinistra gli occhi e volgendosi di frequente, per paura di venire improvvisamente assalito a tergo.
Dopo le tre detonazioni della carabina di Gamani più nessun rumore aveva turbato il profondo e misterioso silenzio che regnava nella foresta, pure Alfredo non pareva tranquillo, tutt'altro. Si arrestava di frequente per tendere gli orecchi, guardava all'intorno scrutando le folte e cupe macchie, trasaliva ad ogni foglia secca che crepitava sotto i suoi piedi e delle parole tronche gli sfuggivano dalle labbra. Doveva avere un motivo ben grave per essere così inquieto, lui che era così coraggioso, che nessun pericolo spaventava: così almeno pensava Antao.
Ad un tratto, verso il fiume rimbombò una fragorosa detonazione, che pareva prodotta da uno di quei grossi e vecchi fucili adoperati dai negri, armi che contano cinquanta e forse cent'anni di fabbricazione.
– Gamani? – chiese Antao, arrestandosi bruscamente.
– Non è lo sparo d'una carabina – rispose Alfredo che si era pure fermato. – So di cosa si tratta.
– Spiegati.
– Sono gli uomini che ci spiavano che sparano contro i nostri fantocci. Sono contento di averli ingannati.
Quantunque la loro posizione fosse tutt'altro che lieta, Antao non poté trattenere uno scoppio di risa.
– Ah!... Che superba idea!... – esclamò.
– Imprudente! Vuoi farci fucilare?...
– È vero; mi dimenticavo che siamo diventati della selvaggina pei negri. Toh!... Un altro colpo!... Quegli stupidi si divertono a consumare la loro polvere contro la mia camicia e la tua giacca, ora non m'inquieto. I loro fucili fanno più fracasso che danno e poi questi negri sono così cattivi bersaglieri che...
– Vuoi finirla? La pelle non ti preme forse? Se tirano male, il caso talvolta manda una palla a destinazione. Orsù; ora che sappiamo che i nemici seguono la scialuppa, mettiamoci al trotto e cerchiamo di raggiungere presto Gamani, poi la mia fattoria. –
Certi ormai di aver fatto perdere le loro tracce a quei misteriosi nemici che avevano loro preparato l'agguato e convinti di aver dinanzi la via libera, affrettarono il passo, inoltrandosi sotto centinaia e centinaia di giganteschi sicomori, di alberi dal legno rosso, di alberi del cotone o bombasc, di mangani, di goyavi e di banani dalle foglie smisurate e cacciandosi lestamente, non senza però incespicare e urtare, fra miriadi di radici e di liane che formavano talora delle vere reti inestricabili.
La loro corsa durò venti minuti sempre più rapida, poi Alfredo s’arrestò dinanzi ad uno spazio aperto, in mezzo a cui giganteggiava solitario un sicomoro dal nero fogliame, che spandeva all’intorno una cupa ombra.
— Ci siamo? — chiese Antao, con voce affannosa.
— Sì, — rispose il cacciatore, — ma....
— Lo vedi?
— Fa troppo oscuro e poi si sarà nascosto fra le foglie del sicomoro.
— Odi nulla?
— No, Antao, e ciò mi inquieta.
— Chiamalo. —
Alfredo accostò ambe le mani alla bocca formando una specie di porta-voce e chiamò replicatamente, ma senza gridare troppo forte:
— Gamani!... Gamani!... —
Nessuno rispose a quella doppia chiamata.
— Gran Dio!... — mormorò il cacciatore, con angoscia. — Cos’è accaduto di lui?...
— Sei certo che questo sia il posto? — chiese il compagno.
— Non m’inganno io, Antao. L’abbiamo lasciato ai piedi di questo sicomoro.
— Che una belva lo abbia divorato?... Quei colpi di fucile...
— Vediamo, se è stato divorato da qualche leopardo o da qualche leone, troveremo almeno la sua carabina.
— Spero che non l’avranno mangiata.
— Vieni. —
Armò il fucile e strisciò verso l’albero gigante, mentre il suo compagno sorvegliava i dintorni, temendo che apparissero i misteriosi nemici.
Giunto ai piedi del sicomoro, il cacciatore guardò fra i rami, ma faceva troppo oscuro per poter discernere qualche cosa. Ripetè la chiamata, ma non ottenendo alcuna risposta, fece il giro dell’enorme tronco esaminando attentamente le erbe che crescevano all’intorno.
Aveva quasi compito il giro, quando vide a terra qualche cosa di bianco, semi-nascosto fra le grasse graminacee. Allungò una mano e raccolse un cappello di foglie intrecciate e che gli era ben noto.
— Il cappello di Gamani!... — esclamò. — Il disgraziato è stato ucciso!... A me, Antao. —
Il compagno s’affrettò a raggiungerlo e comprese subito la gravità della cosa.
— Ucciso o rapito? — chiese.
— Rapito!... — esclamò Alfredo, come fosse stato vivamente colpito da quella riflessione.
Ma poi, crollando il capo, aggiunse:
— Ed a quale scopo?... Rapire un servo?... Qui, quando si odia qualcuno lo si uccide; la vita d’un uomo vale meno di una fettuccia o di poche perle di vetro.
— Ma se l’hanno ucciso non si saranno di certo presa la briga di far scomparire il cadavere.
— Forse l’avranno gettato nella foresta.
— Cerchiamolo, Alfredo. Non ti sembra che queste erbe siano calpestate?
— Sì, sono curvate in vari luoghi.
— Seguiamo le tracce.
— Ma mi preme giungere alla fattoria, Antao; ho dei tristi presentimenti. Questo attacco improvviso in mezzo alla foresta, contro noi che siamo uomini bianchi, troppo temuti dai sudditi di Tofa e dei reami della costa, mi fa sospettare la presenza dei sanguinari negri del Dahomey.
— Taci!... —
Un grido acuto, straziante, ma un grido che pareva più emesso da una donna che da un uomo, era in quel momento echeggiato in mezzo alla tenebrosa foresta.
— Hai udito?...
— Sì, Antao.
— È un grido di donna.
— Sciagura su noi, Antao!...
— Ti ho detto che è un grido di donna.
— Lo so e perciò ho paura.
— D’una donna?... — chiese il portoghese al colmo dello stupore.
— Seguimi!... — disse il cacciatore, senza rispondere alla domanda.
Quel grido che pareva lanciato da una persona in pericolo, era echeggiato a tre o quattrocento metri dal grande sicomoro, in mezzo alla cupa foresta. Bastavano quindi pochi istanti per giungere sul luogo dove accadeva qualche grave avvenimento.
Alfredo aveva attraversata rapidamente la radura, ma giunto sul margine della foresta si era arrestato e pareva poco disposto ad avventurarsi in mezzo a quel caos di rami, di tronchi enormi e di radici mostruose.
Udendo però echeggiare un secondo grido, più acuto, più straziante del primo, non esitò più. Tenendo un dito sul grilletto della carabina per essere pronto ad ogni evento, si slanciò in mezzo alla folta vegetazione, sempre seguito dal portoghese.
Scivolando fra le radici ed i rami, quasi senza far rumore, quantunque fosse profonda l'oscurità sotto la vôlta impenetrabile delle frondi, in poco meno di mezzo minuto giunse in una seconda radura, ma più piccola della prima e circondata da altissimi alberi, e alla luce della luna vide una massa oscura che pareva si dibattesse in mezzo alle erbe.
– Cos'è? – chiese Antao, che lo aveva raggiunto.
Un terzo grido, ma un grido di donna sfuggì da quella massa al quale rispose un urlo rauco e stridente, ben noto al cacciatore della Costa d'Avorio.
– Indietro, Antao!... – esclamò Alfredo. – Bada alla tua vita.
Poi si spinse innanzi, tuonando:
– Ci sono io, mio caro, ed ho una palla per te!...
Udendo quella voce umana, un animale si era staccato da quella massa e con un rapido volteggio si era piantato dinanzi all'ardito cacciatore, a dieci passi di distanza, saettandolo con due occhi che avevano dei riflessi giallo-verdastri.
Aprì le fauci armate di lunghi e candidi denti, si batté i fianchi colla coda, poi si raccolse su se stesso come fanno i gatti quando si preparano ad assalire un sorcio e lanciò tre note gutturali, lunghe, le quali risuonarono paurosamente sotto le vôlte dei grandi alberi, destando tutti gli echi della gigantesca foresta.
Quell'animale, che la luna illuminava perfettamente, era lungo circa due metri e rassomigliava ad una tigre o per lo meno ad un gatto, ma di dimensioni straordinarie. Aveva la testa grossa in proporzione al corpo, il muso poco sporgente, un collo corto ma robustissimo, una coda lunga settanta od ottanta centimetri, ed il pelame giallo-rossiccio che diventava più oscuro sul dorso, macchiato di grossi punti oscuri ed irregolari e le parti inferiori, compreso il petto e la gola, giallo-biancastre.
Sentendosi assalire alle spalle, aveva abbandonato la vittima che forse stava strangolando e dilaniando e si era affrettato a far fronte al pericolo con un coraggio piuttosto raro nelle fiere, le quali ordinariamente evitano l'uomo bianco armato.
Il cacciatore, sapendo quale formidabile avversario avesse dinanzi, si era arrestato e guardava intrepidamente la fiera che continuava a saettarlo con uno sguardo di collera e d'ardente bramosìa, mentre avvicinava lentamente alla spalla il calcio della carabina.
– Morte di Nettuno!... – mormorò Antao, rabbrividendo. – Un leopardo qui!... Preferirei dieci ippopotami a questo feroce mangiatore d'uomini!...
Non si era ingannato: era un vero leopardo quello che stava per scagliarsi sull'audace cacciatore della Costa d'Avorio.
Questi animali sono forse più formidabili dei leoni e forse più arditi delle tigri indiane. Nessun negro oserebbe affrontarli, quantunque abbiano una statura ben inferiore dei re delle foreste e siano meno robusti, ma perché sanno di quanta agilità e di quanta ferocia sono dotati.
Sono il flagello dell'Africa tenebrosa, come lo sono le tigri nelle pantanose pianure delle Sunderbunds del sacro Gange.
Abitano ordinariamente le foreste fitte, dove fanno delle vere distruzioni di selvaggina, sono voracissimi, divorano specialmente un numero enorme di scimmie, essendo i leopardi abilissimi arrampicatori, ma talora scelgono i loro covi in vicinanza dei villaggi e allora guai ai poveri abitanti.
Divorano prima a quei disgraziati tutti gli animali domestici, osando inoltrarsi perfino entro le capanne ed in pieno giorno, poi divorano i proprietarii. Sono così noncuranti dei pericoli, che anche scacciati ritornano dopo poche ore, entrano nelle abitazioni balzandovi per le finestre o guastando i malsicuri tetti, strangolano ferocemente le persone addormentate, uccidono le donne che si recano alle fontane, rapiscono i bambini. Vi sono taluni leopardi diventati famosi per le loro distruzioni, né più né meno delle tigri antropofaghe dell'India.
Non era quindi da sorprendersi se il portoghese, che aveva atteso a piè fermo i giganteschi ippopotami, fosse spaventato della presenza di quel leopardo e se Alfredo, che era così coraggioso e lesto di mano, fosse diventato estremamente prudente dinanzi a quel formidabile avversario.
La belva, come dicemmo, si era accovacciata come si preparasse a balzare addosso al cacciatore che la sfidava e che la minacciava colla canna della carabina, ma tutto d'un tratto si rialzò, spiccò un gran salto descrivendo una straordinaria parabola e andò a cadere fra i rami d'un ebano che era lontano dieci passi.
– Morte di Saturno!... Che salto!... – esclamò Antao.
– Guarda la vittima, – disse Alfredo, senza staccare gli occhi dall'albero.
– Credo che quella donna sia stata uccisa, poiché non la odo più a muoversi. Vedo una massa oscura distesa fra le erbe.
– È armato il tuo fucile?
– Sì, Alfredo.
– Mettiti dietro di me e sii pronto a passarmelo. Se le due palle falliscono siamo perduti.
– Sono pronto.
– Sta bene.
Alzò la carabina e mirò freddamente il leopardo, che si teneva imboscato fra i rami dell'ebano ma che pareva pronto con un altro grande salto, a piombare addosso all'uno o all'altro dei due avversarii.
Alfredo mirò a lungo, con calma, cercando di irrigidire i nervi, poi lasciò partire il colpo.
La detonazione fu seguita da un rauco urlo, poi si vide il leopardo passare come un lampo attraverso i rami, descrivere un arco e cadere a dieci passi, ma con un sordo rumore che indicava come le sue potenti zampe non funzionassero più coll'agilità primiera.
Alfredo aveva fatto un balzo indietro gettando via l'arma scarica e afferrando di volo quella che gli porgeva Antao.
La puntò rapidamente per prevenire il secondo slancio della fiera, ma questa non si mosse e si limitò a far rintronare la foresta colla sua nota stridente e gutturale.
Si era coricata sul fianco destro e pareva che non fosse più capace di rimettersi in piedi, quantunque le sue zampe posteriori strappassero furiosamente le erbe intorno e cercassero di spingere innanzi la massa del corpo.
– Ha le gambe anteriori fracassate, – disse Alfredo. – Ora non lo temo più.
Fece fuoco la seconda volta a sei soli passi di distanza. Quel colpo fu mortale: la belva, colpita in piena fronte, fece un ultimo balzo in aria, poi ricadde come una massa inerte e non si mosse più.
— Alla donna, Antao, — disse Alfredo.
E tutti e due, sbarazzati da quel pericoloso avversario, si slanciarono verso la povera vittima che giaceva in mezzo alle erbe della piccola radura.