La Costa d'Avorio/2. I misteri delle foreste

2. I misteri delle foreste

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Capitolo II

I misteri delle foreste

Alla luce della luna, la quale faceva allora capolino dietro le alte cime della foresta, facendo scintillare le acque come se fossero d’argento liquefatto, i due cacciatori avevano scorta una massa enorme, mostruosa, sorgere presso la riva destra del fiume e avanzarsi lentamente verso l’isolotto.

Non si poteva ingannarsi sulla sua specie: era un vero ippopotamo, animali che se sono diventati assai scarsi nelle regioni bagnate dal Nilo, sono ancora numerosissimi nei fiumi della Costa dell’Avorio, dove godono una quasi perfetta sicurezza, essendo in generale i cacciatori negri cattivi bersaglieri e provveduti di armi troppo vecchie per cimentarsi, con qualche successo, con quei colossi.

L’animale, che era sorto dalle profondità del fiume per cercare la cena, era uno dei più grossi che Alfredo avesse fino allora veduti.

La luna che lo illuminava in pieno, permetteva ai due cacciatori di vederlo distintamente, come se fosse giorno.

Quel re dei fiumi, perchè è in realtà un vero re, non trovandosi alcun altro animale capace di disputargli il potere nelle acque che frequenta, nemmeno il coccodrillo il quale pare che lo eviti con grande cura, misurava circa tredici piedi di lunghezza, ossia oltre quattro metri, ed aveva una circonferenza enorme, superiore di qualche piede alla misura sopraddetta.

La sua testa, di proporzioni mostruose, carnosa, rigonfia verso l’estremità aveva una bocca di due piedi d’apertura e mostrava una formidabile dentatura, composta di trentasei zanne fra cui quattro canini lunghi quaranta e più centimetri.

Il mostro, dopo d’aver nuotato alcuni istanti, era salito su di un banco, mostrando il suo corpaccio di colore bruno oscuro, ma con dei riflessi fulvi e sprovveduto di peli, e le sue zampacce brevi e tozze; pareva che prima di decidersi ad avanzare, volesse assicurarsi dell’assenza dei nemici, fiutando replicatamente e molto rumorosamente l’aria. [p. 9 modifica]

— Che massa! — mormorò Antao, all’orecchio d’Alfredo. — Non sarà difficile sbagliarlo.

— Non tirare sul suo corpo. — rispose il cacciatore. — La sua pelle ha uno spessore di tre pollici e respingerebbe la tua palla.

— Diavolo!... Sono corazzati quegli animali!...

— Come i vascelli da guerra. Aspetta che si avvicini e cerca di colpirlo presso gli occhi o sotto le mascelle.

— Povero animale!... Non sospetta che vi sono dei nemici vicini.

— Non rimpiangerlo così presto. Sono animali pericolosi e anche dannosi. E....

— Che cosa?...

— Mi pare inquieto.

— Che ci abbia fiutati?...

— È possibile, ma non è che a centocinquanta passi e non lo lascerò fuggire, Antao. Risparmia la tua palla, per ora, e lascia che faccia fuoco io. —

Il cacciatore si era silenziosamente sdraiato fra le erbe, allungandosi meglio che poteva ed aveva puntata la pesante carabina, mirando con grande attenzione.

Ad un tratto fece fuoco. La detonazione fu tosto seguita da un muggito più forte di quello d’un toro e da un tonfo fragoroso.

Appena la nuvola di fumo fu dissipata, i due cacciatori videro l’ippopotamo in acqua, dibattersi con furore estremo. Colpito senza dubbio dalla palla e forse gravemente, il colosso nuotava disordinatamente all’ingiro, continuando a muggire e rinchiudendo, con cupo fragore, le potenti mascelle. Pareva che cercasse da qual parte si nascondevano i nemici per precipitarsi su di loro.

Alfredo, vedendo il compagno alzarsi per puntare la carabina, lo aveva obbligato a ricoricarsi fra le erbe, dicendogli rapidamente:

— Se ti è cara la pelle, non muoverti.

Poi aveva ricaricata precipitosamente l’arma, certo di doverla adoperare una seconda volta.

Intanto l’ippopotamo, reso furioso dal dolore, continuava a dibattersi sconvolgendo le acque del fiume e facendo rintronare le foreste coi suoi muggiti. Le sue zampacce facevano [p. 10 modifica]spruzzare a destra ed a sinistra getti di spuma e colla testa sollevava delle vere ondate.

Ad un tratto parve che prendesse il suo partito. Nuotò velocemente verso l'isolotto e comparve a dieci soli metri dai cacciatori, i quali erano balzati precipitosamente in piedi colle armi in pugno.

– Fuoco, Antao! – gridò Alfredo.

Il suo compagno, quantunque si sentisse invadere da un vivo tremito, nel trovarsi dinanzi a quell'animalaccio che pareva si preparasse a tagliarlo in due con un solo colpo delle sue enormi mascelle, fece rapidamente fuoco, ma gli mancò il tempo di constatare gli effetti della sua palla.

Con uno slancio di cui non si sarebbe mai creduto capace un animalaccio così pesante, l'ippopotamo si era scagliato su di lui, urtandolo così violentemente da farlo cadere a gambe levate.

Già l'enorme bocca si apriva sul disgraziato portoghese, quando si udì echeggiare una seconda detonazione.

Alfredo, che aveva risparmiata la sua palla, aveva scaricata la sua carabina nell'orecchio destro del mostro, il quale stramazzò al suolo fulminato.

– Per tutti i diavoli!... – esclamò il portoghese, che si era affrettato ad alzarsi. – Un istante di ritardo e mi tagliava in due meglio d'un pescecane.

– Sei ferito? – gli chiese premurosamente il cacciatore.

– No, sono solamente imbrattato del sangue dell'ippopotamo, ma per tutti i diavoli, credo di aver un certo tremito nelle membra... Grazie, Alfredo, del tuo pronto intervento che mi ha salvata la vita.

– Bisogna essere prudenti con questi animali, amico mio, ed evitare di trovarsi sul loro passaggio.

– Chi avrebbe creduto che simili masse fossero così leste?...

– Non lo sono in realtà, quando gl'ippopotami non sono irritati, ma quando sono feriti caricano con veemenza.

– Che corpaccio!... – esclamò il portoghese, che girava attorno all'enorme animale. – E soprattutto che bocca!... Brrr!... Mi viene freddo pensando che stavo per provare quei denti!...

– E che denti, Antao!... Guarda questi canini: pesano almeno dodici libbre ciascuno.

– Sono d'avorio?...

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– Sì, ma molto migliore di quello che dànno le zanne degli elefanti. È così duro, che l'urto delle scuri fa scattare delle vere scintille e conserva la sua bianchezza per sempre. Si adopera appunto per ciò nella fabbricazione dei denti artificiali.

– È buona la carne di questi animali?

– È deliziosa quanto quella del bue e soprattutto il grasso è molto pregiato, adoperandosi come burro.

– Allora qui vi è da nutrire una tribù intera di negri.

– Questo animale deve pesare almeno quattordici quintali; puoi quindi immaginarti quale montagna di carne si può trarne.

– Manderai i tuoi uomini a sezionarlo?

– Certamente, Antao, e domani ti farò assaggiare un piede di questo colosso cucinato al forno come usano i negri di queste regioni e sarai contento di averlo mangiato.

– Ritorniamo?

– Non è prudente riattraversare la foresta di notte e poi spero di abbattere qualche altro ippopotamo. L'anno scorso alcuni negri avevano provato a dissodare delle terre ed a piantare delle granaglie su queste sponde e gli ippopotami si erano radunati in buon numero in questo tratto di fiume e vi sono rimasti.

– Forse che questi animali cercano la compagnia dei negri?

– Tutt'altro, Antao. Erano qui venuti per saccheggiare i campi e bastarono poche notti per distruggere i raccolti, obbligando i coltivatori ad andarsene altrove. Toh!... Odi?... Non m'ingannavo io.

Verso l'alto corso del fiume si erano uditi dei muggiti prolungati e che parevano s'avvicinassero. Di certo parecchi ippopotami stavano trastullandosi a cinque o seicento metri dall'isolotto, prima di avventurarsi sotto i boschi in cerca di cibo.

– Che vengano qui? – chiese Antao.

– È probabile che scendano lungo le sponde del fiume, essendo necessaria una grande quantità di radici e di canne per quei grossi animali.

– Se si potesse farli venire presto!

– Se noi avessimo degli istrumenti musicali, non tarderebbero ad accorrere.

– Degli istrumenti musicali!... Scherzi, Alfredo?

– No, Antao. Ti sembrerà strano, ma questi animalacci sono sensibili alle dolcezze della musica. Il maggiore Denham ha [p. 12 modifica]narrato, che mentre passava colla sua scorta lungo il Mango nel Gamburoo, diede il comando di suonare la tromba e di battere il tamburo e che subito vide apparire parecchi ippopotami, i quali si misero a seguire le sponde del fiume tenendosi a breve distanza dai suonatori.

– Questa è fenomenale.

– Ho esperimentato anch'io questo mezzo, facendo suonare dei flauti dai miei battitori ed ho constatato l'esattezza dell'affermazione di Denham.

– Si potrebbe...

– Taci, Antao.

– Cos'hai udito?...

Il cacciatore, invece di rispondere, gli fece cenno di nascondersi fra le alte erbe, poi gli additò la sponda opposta.

Alcuni rami si vedevano muoversi lentamente nel luogo segnalato, come se qualcuno, uomo od animale, cercasse di aprirsi prudentemente un varco.

La luna che allora erasi alzata e che splendeva proprio sopra il fiume, permetteva di vedere distintamente quei rami ad agitarsi.

– Una belva? – chiese Antao sottovoce.

– Od un uomo! – rispose Alfredo, con voce agitata. – Un animale non prenderebbe tante precauzioni.

– Il tuo servo forse?...

– Gamani non s'inoltrerebbe così, sapendo che noi siamo qui a cacciare.

– Ma chi vuoi che sia infine?

– Chissà!... Forse un traditore.

– Un traditore?... Eh... Dici?...

– Un compagno di quell'uomo, Antao... guarda!...

I rami si erano aperti e la testa d'un negro era comparsa, ma subito si era ritirata e le piante si erano rinchiuse.

Alfredo era balzato in piedi tenendo in mano la carabina e si era lanciato verso la riva dell'isolotto, gridando:

– Chi vive?...

Nessuno rispose, né alcun rumore si fece udire.

– Sei tu, Gamani?... – chiese.

Poi, non ottenendo ancora risposta, riprese:

– Parla o faccio fuoco!...

A quella minaccia si udirono dei rami agitarsi e scricchiolare, [p. 13 modifica]come se venissero precipitosamente allontanati o spezzati, ma nessuna voce umana si fece udire.

Alfredo non esitò più. Puntò la carabina mirando là dove vedeva muoversi i rami degli alberi e fece fuoco, ma la detonazione non fu seguìta da alcun grido di dolore, anzi ogni rumore cessò e le piante ripresero la loro immobilità.

Antao aveva raggiunto prontamente il compagno e gli porgeva la propria carabina, ma Alfredo fece col capo un cenno negativo.

– È fuggito – disse poi.

– L'hai mancato?...

– Lo credo.

– Ma chi era?...

– Qualcuno che ci spiava.

– Un negro di Tofa?...

– Temo che sia un dahomeno.

– Un dahomeno qui?... Uno di quei negri sanguinari su questo fiume?

– Sì, Antao.

– Mi sembri agitato, Alfredo.

– È vero, sono inquieto.

– Ma perché?...

– Sono accadute troppe cose questa notte, per non allarmarmi, Antao. Torniamo alla mia fattoria.

– E gli ippopotami?

– Torneremo domani. Bisogna che io veda Gamani.

– Lo troveremo con quest'oscurità?...

– Conosco questi boschi.

– Ma l'uomo che è venuto a spiarci, non ci tenderà un agguato?...

– Siamo armati e non lo temo.

– Andiamo, giacché lo vuoi. Apriremo bene gli occhi e terremo un dito sul grilletto delle carabine.

Stavano per abbandonare l'isolotto e scendere sul banco per raggiungere l'imbarcazione che era rimasta arenata, quando in mezzo ai boschi si udì rintronare uno sparo.

Alfredo si era arrestato mandando un grido, che aveva qualche cosa d'angoscioso.

– La carabina di Gamani! – esclamò.

– O del negro che è fuggito? – chiese Antao.

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– No, è stata sparata in mezzo ai boschi.

– Avrà fatto fuoco contro qualche leopardo.

– No... odi?...

Un'altra detonazione era echeggiata, poi dopo alcuni istanti, un'altra ancora.

– Sono segnali d'allarme! – esclamò Alfredo. – Vieni, Antao, vieni!...


Note