La Costa d'Avorio/4. Il fanciullo rapito
Questo testo è completo. |
◄ | 3. La scomparsa di Gamani | 5. L'odio di Kalani | ► |
Capitolo IV
Il fanciullo rapito
Quando giunsero là dove il leopardo si era alzato, videro subito che non si erano ingannati. La vittima del ladrone delle foreste era veramente una donna, ma che non doveva però essere una tranquilla abitatrice di qualche villaggio, poichè appena Alfredo l’ebbe guardata, non potè trattenere una sorda esclamazione che tradiva una viva inquietudine ed una profonda collera.
Quella sconosciuta indossava un costume ben noto agli abitanti della Costa d’Avorio ed intorno a lei si vedevano certe armi non adoperate di certo dalle donne di Tofa, nè del Grande e Piccolo Popo.
Era una bella giovane di vent’anni, dalle forme assai sviluppate, dalle braccia muscolose, dalla pelle d’un nero meno carico delle donne della costa e di statura alta e squisitamente modellata.
Aveva il corpo racchiuso in un giubbetto verde, stretto alla cintura da una cartucciera di pelle, le anche avviluppate in una specie di gonnellino di seta rossa, i piedi nudi, ma le gambe e le braccia adorne di parecchi anelli di rame e d’avorio.
Presso di lei stava un casco a due punte, di stoffa bianca e più oltre un fucile a pietra, una giberna di pelle dorata e un lungo e largo coltellaccio, una di quelle armi terribili che gli abitanti del Dahomey chiamano nyekpeo-hen-to.
Il carnivoro l’aveva ridotta in uno stato miserando, ma forse gli era mancato il tempo di finirla. Le robuste unghie avevano squarciata la spalla destra della povera giovane per una lunghezza di venti o venticinque centimetri ed i denti avevano straziate le carni della coscia sinistra, le quali erano ormai coperte di sangue.
— Disgraziata!... — esclamò Antao. — Un momento di ritardo ed era finita. Fortunatamente non mi sembra che svenuta.
— Fortunatamente!... — disse Alfredo, coi denti stretti. — L’avesse stritolata questa vipera!...
— Questa povera donna? — chiese il portoghese, stupito.
— Sì, Antao.
— Ma chi è adunque?...
— Chi?... Chi?... Guarda il suo costume guerresco, Antao; questa donna è una di quelle crudeli amazzoni che formano il corpo reale del feroce Geletè.
— Del re del Dahomey?...
— Sì, di quell’antropofago.
— Morte di Nettuno!...
— Fuggiamo, amico!... Ormai i miei dubbi sono diventati una realtà! Le genti del Dahomey ronzano intorno alla mia fattoria e sono guidate da quel furfante che da due anni mi minaccia delle sue vendette.
— Che si tratti invece d’una spedizione contro il re Tofa?
— No, Tofa non ha nulla da temere da Geletè, perchè è un suo parente e perchè si sa che è sotto la protezione degli uomini bianchi. Vieni, Antao.
— Ma non possiamo lasciare qui questa donna in questo stato.
— Ma tu non sai quanto sieno feroci e sanguinarie queste donne; tu non conosci le amazzoni del Dahomey.
— È una donna, Alfredo.
— È peggio d’un uomo e sarebbe capace di compensare le tue cure con un colpo di fucile, per regalare la tua testa al suo re. Vieni, fuggiamo!... —
Il portoghese stava per arrendersi all’invito del suo compagno quantunque molto a malincuore, quando la giovane donna emise un lamento così straziante, da toccare il cuore del più spietato nemico.
Antao si era subito arrestato e anche Alfredo, malgrado il suo odio misterioso verso quella suddita del re del Dahomey, aveva fatto un volta faccia, come se fosse indeciso fra il fuggire od il tornare.
— L’hai udita? — chiese il portoghese.
— Sì, — rispose Alfredo, corrugando la fronte.
— Non possiamo abbandonare quella disgraziata che potrebbe diventare la preda d’un altro leopardo.
— Ma la mia fattoria corre un gran pericolo.
— Non lo sappiamo ancora.
— Gamani è stato assalito e hanno fatto fuoco sulla nostra scialuppa. Cosa vuoi di più?... —
Un secondo gemito, più doloroso del primo, uscì dalle labbra della giovane donna seguìto da queste parole pronunciate in lingua uegbè, idioma parlato in tutti gli stati costieri del grande golfo di Guinea:
— Da bere, signore.... da bere.... —
I due cacciatori, un po’ commossi da quella invocazione che aveva un accento straziante, s’avvicinarono alla donna, la quale si era alquanto sollevata.
Il viso della giovane guerriera nulla aveva dell’ardita espressione delle amazzoni del barbaro re. Aveva una fisonomia dolce, dai lineamenti regolari, con un naso quasi diritto invece di essere schiacciato, come lo hanno le donne di razza negra, una bocca piccola con due labbra rosse che mostravano dei denti d’una ammirabile bianchezza. Anche i suoi occhi non erano così grandi, nè così sporgenti: erano invece tagliati quasi a mandorla, d’un nero lucente, pieni d’espressione ed intelligenti.
Vedendo appressarsi i due cacciatori, l’amazzone fece istintivamente un gesto come se cercasse il fucile od il coltellaccio, ma parve subito si pentisse di quell’atto e tese ambe le mani verso di loro, ripetendo con voce fioca:
— Da bere.... signori.... —
Alfredo che comprendeva perfettamente la lingua uegbè, prese la fiaschetta che portava alla cintura, ripiena d’acqua mescolata ad un po’ di arak e si curvò sulla giovane donna che il portoghese sorreggeva per impedirle di ricadere, ma poi ritirò la mano, dicendo:
— Sì, io ti darò da bere, ma se mi dirai cosa facevi in questa foresta.
— Te lo dirò.... signore.... lo giuro sul mio feticcio1 ma brucio.... soffro.... dammi una goccia d’acqua.... —
Il cacciatore quantunque avesse i suoi motivi per odiare i sudditi del Dahomey, non era crudele. Comprese che quella povera donna doveva essere rosa dalla febbre causatale da quelle atroci ferite e le porse la fiaschetta, senza più esitare.
Quando la guerriera si fu dissetata gliela restituì, dicendo con voce raddolcita:
— Grazie, signore.
— Ora parlerai: che cosa facevi in questa foresta che è così lontana dal tuo paese?
— Aspettavo dei guerrieri che si sono recati sulle rive del fiume.
— Cosa cercavano quei guerrieri?... —
La giovane donna ebbe una breve esitazione, ma poi disse, abbassando il capo:
— Dovevano sorvegliare un uomo bianco che doveva cacciare gli ippopotami sull’Ouzme.... e....
— Continua.
— Prenderlo vivo o morto.
— Odi, Antao? — chiese Alfredo, tergendosi alcune stille di sudore freddo. — Hanno preparato un tradimento. —
Poi rivolgendosi verso la giovane:
— L’uomo che dovevano fare prigioniero sono io, — disse, — e sono io che ho ucciso il leopardo che doveva divorarti. —
L’amazzone non rispose e chinò il capo sul seno, come se volesse nascondere il viso.
— Dimmi — continuò Alfredo, che era in preda ad una viva agitazione. — Vi sono altri uomini oltre questi boschi, verso le terre del re Tofa?...
— Sì, — rispose l’amazzone.
— Molti?...
— Sì, molti.
— Che cosa devono fare?...
— Sorprendere la fattoria dell’uomo bianco.
— E li guida?...
— Il cabecero Kalani. —
Il cacciatore, udendo quel nome, si era rialzato mandando un urlo di furore.
— Ah!... Miserabile uomo! Il cuore me lo diceva! Vieni, Antao, vieni o sarà troppo tardi!...
— Ma questa donna?...
— A me!...
Il cacciatore si lacerò la camicia, inzuppò un pezzo nell’acqua della fiaschetta, lavò le ferite senza che la giovane guerriera facesse udire un gemito, riunì con lesta mano le carni, le fasciò, poi prese il coltellaccio ed il fucile a pietra e li mise accanto alla donna, dicendo:
— Se qualche animale ti assale, difenditi. Fra breve l’alba sorgerà e non correrai alcun pericolo. Se vorrai attenderci, ti prometto di salvarti.
— Grazie, mio signore, — rispose l’amazzone.
Alfredo stava per lanciarsi attraverso la foresta, quando si arrestò un istante, poi tornando rapidamente verso la donna, le disse:
— Una domanda ancora. Io avevo lasciato un uomo nella radura vicina, uno dei miei servi e non l’ho più ritrovato. Sai dirmi cos’è avvenuto di lui?
— È stato preso dai miei compagni.
— Lo hanno ucciso?...
— No, l’hanno fatto prigioniero e condotto via.
— Grazie. Andiamo, Antao, e più lesti dei cervi. —
I due cacciatori abbandonarono l’amazzone che era ricaduta fra le erbe e si misero a correre per la foresta, seguendo il sentiero che attraversava la radura del grande sicomoro.
Alfredo non rispondeva più alle domande del suo compagno. Tutta la sua attenzione pareva rivolta alla sua fattoria che in quel momento stava forse per correre un grave pericolo, cercava quindi di guadagnare più via che poteva.
Non camminava, correva come un’antilope, sfondando con impeto irresistibile i rami che si allungavano sul sentiero e recidendo con furiosi colpi di coltello, le liane che gl’impedivano il passo.
Il portoghese non abituato alle lunghe marce e tanto meno alle corse prolungate, lo pregava di tratto in tratto d’arrestarsi per concedergli un po’ di riposo, ma il cacciatore invece precipitava sempre più la corsa.
Qualche volta però si fermava, ma per tendere gli orecchi, parendogli forse di udire in lontananza delle urla e delle detonazioni; poi correva più di prima, per riguadagnare i passi perduti.
Ad un tratto s’arrestò, dicendo con voce affannosa:
— Hai udito, Antao?...
— Non odo che il sangue che mi sibila agli orecchi e la mia respirazione disordinata, — rispose il portoghese con voce rotta.
— Mi sembra d’aver udito degli spari....
— Ma siamo ancora molto lontani dalla tua fattoria?
— Tre o quattro miglia.
— Morte di Nettuno! Tanto da scoppiare, se continui a galoppare in questo modo.
— Odi?... —
Una scarica lontana echeggiò verso il sud, ripercuotendosi distintamente sotto i grandi boschi, seguìta poco dopo da spaventevoli vociferazioni.
— Eccoli! — urlò Alfredo. — Assalgono la mia fattoria. Corri, Antao, corri!... Voglio uccidere quel cane di Kalani! —
Entrambi si erano rimessi a correre, facendo appello alle loro forze. Il cacciatore della Costa d’Avorio, il cui volto ordinariamente era così tranquillo, aveva assunto un’aria d’odio feroce che faceva paura.
Colla carabina in pugno, arma terribile in quelle mani, gli occhi scintillanti, i capelli in disordine, avrebbe spaventato qualunque persona che lo avesse incontrato in quella cupa foresta.
— Avanti!... Avanti!... — ripeteva, con voce strozzata. — Me lo rapiscono!... Kalani si vendica, ma lo ucciderò!... —
Intanto le detonazioni continuavano sempre più distinte, rombando sordamente ed a lungo sotto i grandi alberi. Talora erano scariche nutrite che parevano fatte da una compagnia di truppe regolari ed ora invece colpi isolati, poi echeggiavano delle urla che parevano emesse più da belve che da gole umane. Senza alcun dubbio si combatteva con ferocia attorno alla fattoria e gli uomini che l’abitavano si difendevano furiosamente.
Già i due cacciatori non dovevano distare più di due miglia dal luogo della pugna, a giudicarlo dall’intensità degli spari, e la grande foresta cominciava a diradarsi, quando verso il sud, al disopra d’una cortina d’alberi, si scorse una viva luce che aveva dei riflessi sanguigni, quindi una gigantesca colonna di scintille che saliva alta alta, come se volesse confondersi cogli astri.
— Un incendio laggiù.... Alfredo!... — gridò Antao.
— Lo vedo, — rispose il cacciatore, con accento disperato. — Kalani si è vendicato e mi sfugge di mano, ma lo raggiungerò, dovessi andarlo a stanare nel cuore di Abomey. —
Stava per riprendere la corsa, quando un uomo, un negro armato di fucile, che pareva si fosse fino allora tenuto nascosto sotto un fitto cespuglio, gli sbarrò il passo, dicendogli:
— Ove vai, padrone?...
— Tu.... Asseybo!... — esclamò il cacciatore.
— Fermati, padrone, laggiù vi è la morte.
— Non temo la morte io, — urlò Alfredo, con esaltazione. — M’hanno incendiata la fattoria?
— Sì, padrone, e l’hanno saccheggiata.
— E mio fratello?...
— Perduto.
— Gran Dio! Ucciso da Kalani?
— No, rapito.
— Da Kalani?...
— Sì, da lui.
— Sono fuggiti?...
— Stanno ritirandosi.
— Ma posso raggiunger ancora quei ladri.
— Non osarlo, padrone. Sono almeno duecento.
— Maledizione su di loro!... Me l’hanno rapito! Povero fanciullo!... Venite, lo voglio!...
— Alfredo, — disse Antao, arrestandolo. — I rapitori possono ucciderti. Non precipitiamo le cose e cerchiamo di essere prudenti per ora; i tuoi nemici possono attenderti presso le rovine della fattoria. Aspettiamo l’alba, poi vedremo cosa si potrà fare.
— Io non temo nè Kalani, nè i suoi uomini! — gridò Alfredo con furore. — Vieni, Antao, vieni Asseybo!... Noi daremo addosso ai rapitori.
— Ma sono molti, padrone, e tutti armati di fucili, — disse il negro.
— I miei uomini si uniranno a noi.
— Temo che siano stati tutti uccisi, padrone. Quando sono balzato dalla finestra per non venire bruciato vivo, non ve ne erano che due soli vivi.
— Non importa, siamo in tre e tutti armati. —
Era impossibile trattenere lo sventurato cacciatore, il quale era in preda ad una esasperazione indicibile. Il portoghese, comprendendo che se non l’avesse seguìto sarebbe partito solo, si decise a cedere.
— Ebbene, andiamo, — disse, — e guai al traditore! —
Alfredo era già partito correndo, sperando di giungere sul luogo dell’incendio prima della ritirata dei rapitori, ma Antao, accusando una stanchezza estrema causata da quella lunga marcia, lo costringeva di tratto in tratto a rallentare la sua fuga.
Sfinito lo era in realtà, ma contava su quei ritardi per lasciare campo ai dahomeni di ritirarsi, comprendendo che una lotta con quei negri coraggiosi e sanguinari, almeno pel momento, non era opportuna. Quei duecento uomini non avrebbero certo faticato a schiacciare i tre cacciatori, essendo tutti armati di fucile.
Le scariche e le grida erano intanto cessate, ma al disopra degli alberi si vedevano ancora innalzarsi nuvoloni di fumo dai riflessi sanguigni e nembi di scintille che il vento notturno spingeva assai lontane, minacciando di provocare altri incendi nei boschi vicini.
Mezz’ora dopo i due cacciatori ed il negro, lasciata la foresta, giungevano sul margine d’una prateria, in mezzo alla quale, presso un piccolo corso d’acqua, sorgeva la fattoria d’Alfredo.
Un orribile spettacolo s’offerse tosto agli sguardi del disgraziato proprietario e dei suoi compagni.
Del vasto fabbricato e dei suoi magazzini, che poche ore prima contenevano ingenti ricchezze, non rimanevano che poche muraglie annerite dal fumo e degli ammassi di rottami, di sotto ai quali sfuggivano ancora vortici di fumo e delle lingue di fuoco che lanciavano in aria getti di scintille.
Le palizzate che circondavano i fabbricati erano state in gran parte abbattute per lasciare il varco agli assalitori, i cancelli strappati giacevano al suolo, mentre tutto all’intorno si scorgevano casse sventrate, botti sfondate, animali morti e più oltre parecchi cadaveri umani ammucchiati alla rinfusa, che stringevano ancora ferocemente i lunghi e pesanti coltelli, adoperati dai barbari guerrieri del Dahomey.
Alfredo, scorgendo quella desolazione, si era arrestato come fosse stato pietrificato, poi si era lasciato cadere al suolo ripetendo con voce soffocata dai singhiozzi:
— Me l’hanno rapito!... Povero fanciullo!... Povero fratellino mio!...
Note
- ↑ Informi divinità, rappresentanti per lo più mostri o persone orribili, burlescamente camuffate, che i negri della Costa adorano. Generalmente sono di legno o di creta.