La Costa d'Avorio/20. Il supplizio d'un ladro nell'Ascianti
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Capitolo XX
Il supplizio d’un ladro nell’Ascianti
La mezz’ora era trascorsa, ma nè Asseybo, nè il suo compagno erano ritornati; poi un’altra era pure trascorsa senza che nessuna nuova fosse giunta ai due europei, di già molto inquieti per quell’inesplicabile ritardo.
L’alba era sorta e numerosi abitanti dei vicini villaggi ed anche alcune carovane, provenienti certamente dalle regioni meridionali, erano passati per recarsi al mercato della città.
Il dahomeno, rimasto di guardia, più di venti volte si era spinto sulla via per vedere se i due negri si scorgevano, ma alle impazienti domande dei padroni non aveva risposto che con un desolante: — Nulla. —
Cosa era accaduto dei due messi?... Erano stati sorpresi dai ladri che forse vegliavano, temendo la improvvisa comparsa dei due europei od il dikero, sospettando in loro due persone pericolose o due spie degli inglesi, li aveva fatti imprigionare, cosa non improbabile per quei giudici capricciosi e diffidenti?...
Alfredo che già aveva perduta la pazienza, stava per prendere una risoluzione decisiva, recandosi in persona dal giudice o dal capo della città col pericolo di far fuggire i ladri, quando il dahomeno, che era uscito sulla via per la venticinquesima volta, annunciò il ritorno di Asseybo e del suo compagno, seguìti da otto negri che portavano due amache sospese a quattro grossi bastoni formanti un parallelogrammo e riparate da un piccolo tetto di foglie.
Alfredo ed Antao si erano affrettati ad uscire sulla via, dove s’incontrarono con Asseybo, il quale era corso innanzi agli otto portatori.
— Padrone, — disse con voce lieta. — I ladri sono stati presi!...
— Presi di già! — esclamarono Alfredo ed il portoghese.
— Cioè uno solo è stato preso vivo, poichè un altro che si era ribellato agli uomini del dikero è stato ucciso ed il terzo è scomparso.
— E la negra?...
— È in casa del dikero.
— In buona salute?... — chiese Antao.
— Guarita completamente dalle sue ferite.
— E le nostre casse e gli animali? — chiese Alfredo.
— Sono state ricuperate intatte.
— Ma cosa vengono a fare questi uomini con quelle amache!...
— Te li manda il dikero per condurre te ed il signor Antao a casa sua.
— Ha gradito i regali adunque?...
— Lo puoi comprendere dalla rapidità con cui ha fatto radunare le sue guardie e piombare addosso ai ladri.
— Andiamo da quel brav’uomo. —
I portatori si erano arrestati dinanzi alla tettoia ed attendevano gli europei. Alfredo ed Antao salirono in quelle comode amache, i negri si posero sulla testa, difesa da cuscini bene imbottiti, i quattro angoli dei parallelogrammi e si misero lestamente in marcia preceduti da Asseybo e seguìti dai due dahomeni che conducevano l’ultimo cavallo.
Nell’Ascianti quelle lettighe sono grandemente usate, sia per trasportare i passeggieri, sia per le merci. Si può dire non conoscano altro mezzo di locomozione perchè cosa davvero strana, quantunque posseggano molti buoi e non siano rari, nel loro paese, anche i cavalli e gli asini, non si servono mai di questi animali e non conoscono poi affatto nessuna specie di rotabile.
Gli otto portatori, che procedevano speditamente, in pochi minuti entrarono in Abetifi, aprendosi faticosamente il passo attraverso una folla di negri colà radunata pel mercato.
Abetifi è una delle più importanti e più popolose città del regno, situata a circa ottanta chilometri dal Volta, ed a cento da Cumassia, che è la capitale degli Ascianti.
Non ha che poche case di legno che servono d’abitazione all’assafo oinè, al dikero ed ai cumfos o sacerdoti incaricati di vegliare sui feticci; le altre sono semplici capanne circondate però quasi tutte da giardini e da orticelli, nei quali si coltivano ignami, manioca, fagioli di varie specie, ananas, popoya e certe specie di pimento assai forte largamente usato nella preparazione del fu-fu.
Ordinariamente la sua popolazione non supera le otto o diecimila anime, ma nei giorni di mercato il numero si raddoppia.
I due europei, fatti segno della curiosità di tutti i negri affollati sul mercato, in pochi minuti attraversarono la città e furono deposti dinanzi ad una casetta di legno, costruita con un certo gusto e decorata di stuoie variopinte.
Un negro già vecchio, perchè era molto rugoso, ma ancora robusto, coperto d’una lunga camicia bianca e colle gambe adorne di strani amuleti o sumieno, consistenti in cordoni di fibre di palmizio annodati ed arricchiti da pallottoline di vetro, da granelli d’oro traforati, da penne di pappagallo e da ciuffetti di peli, li attendeva dinanzi alla porta.
Era il dikero in persona, il quale voleva ricevere degnamente i due europei che erano stati così larghi di doni.
Per darsi l’aria d’un uomo civile, porse la destra ad Alfredo e ad Antao e li invitò a seguirlo, conducendoli in una stanza adorna di stuoie colorate ammonticchiate contro le pareti, in modo di formare dei sedili discretamente comodi e da alcuni feticci di terra grossolanamente plasmata, rappresentanti delle figure umane, ma che nella destra impugnavano una sciabola e nella sinistra una testa ed accuratamente imbiancati, essendo questa tinta il colore preferito dalle deità asciantine.
Alcuni schiavi recarono tosto un grande vaso di terra ripieno di vino di palma affinchè i forestieri, prima di cominciare la conversazione, si dissetassero, poi quando ebbero bevuto, il dikero, con una amabilità poco comune in quel popolo sospettoso e crudele, diede agli ospiti il benvenuto, ringraziandoli contemporaneamente dei regali.
— Siamo noi invece che dobbiamo ringraziarti, dikero, — rispose Alfredo in uegbè. — Senza il tuo pronto agire, i ladri sarebbero forse fuggiti.
— Contenevano dei tesori le tue casse?...
— No, — rispose prontamente il cacciatore, che conosceva l’avidità insaziabile di quei giudici. — Più che gli oggetti racchiusi nelle casse, mi premeva salvare la giovane negra.
— Non te la ruberanno più, poichè uno dei ladri è stato ucciso, il secondo è fuggito, ma spero che lo ritroveranno ben presto, ed il terzo è in mia mano e non uscirà vivo da Abetifi.
— Cosa vuoi farne di quell’uomo?...
— Lo uccideremo.
— Non ti chiedo tanto, dikero.
— È stato riconosciuto per una spia di Geletè, ed era qui venuto altre volte per farci forse sorprendere dai cacciatori di schiavi del Dahomey e quell’uomo morrà.
— Ma ti ho detto che non è necessario che quell’uomo lo si uccida. A me basta che rimanga prigioniero presso di te qualche mese.
— È un nemico e morrà, — disse il dikero, con incrollabile fermezza. — Così il nostro re vuole e se disobbedissi, Mensah mi farebbe tagliare la testa.
— Ma hai tu le prove che sia realmente la spia che tu cerchi.
— No, ma sapremo presto se egli è quello che io sospetto. Negherà, come ha negato di aver rubato le tue casse, ma l’odum mostrerà se è veramente colpevole. Ho già dato ordine che la prova abbia luogo stamane sulla piazza del mercato, dovendo essere pubblica. Vuoi venire?... Il ladro deve essere già stato condotto sulla piazza.
— Ma dov’è la giovane negra? Vorrei prima vederla.
— Dorme presso le tue casse. Era così stanca che non si reggeva in piedi.
— La rivedremo più tardi. Siamo pronti a seguirti. —
Il dikero, si era alzato invitando i suoi ospiti a seguirlo. Al difuori li attendevano dodici portatori con tre amache seguìti da parecchi negri armati di vecchi fucili e di lance, i quali dovevano servire di scorta al rappresentante della giustizia.
Quegli uomini erano comandati da un corriere del re, giunto forse di recente ad Abetifi, personaggio molto importante e che col suo costume dava un’idea del lusso della corte di S. M. Mensah.
Era coperto di piastre d’oro massiccio e d’un peso tale da rendergli molto malagevole il cammino, e sul capo portava un sacco adorno di penne d’aquila formanti una specie di ventaglio. In una mano poi portava un piccolo scettro reale, una specie di spada coll’impugnatura coperta da un pezzo di pelle di leopardo.
I due europei, il dikero ed il seguito riattraversarono la città e s’arrestarono sotto una grande tettoia eretta in mezzo alla piazza del mercato e guardata da alcuni negri armati, i quali respingevano la folla che si pigiava attorno a quella costruzione, con un’abbondante ed incessante distribuzione di legnate.
In mezzo alla tettoia vi era il ladro, con la destra chiusa entro un anello di ferro infisso in un grossissimo macigno e colle gambe incatenate.
Era un negro ancor giovane, perchè non doveva avere più di venticinque o trent’anni, dall’aspetto furbo, dagli sguardi intelligenti, ma dai lineamenti duri, quasi feroci.
Quantunque dovesse essere ormai convinto di non uscire vivo dalle mani dei suoi nemici, guardava alteramente la folla e scherzava coi suoi guardiani.
Quando però vide i due europei, manifestò una viva inquietudine ed i suoi sguardi divennero cupi.
— Ci riconosci?... — gli chiese Alfredo, avvicinandoglisi.
— Sì, — rispose il prigioniero.
— Non credevi di vederci qui così presto.
— È vero. Credevo che le formiche o gli elefanti vi avessero uccisi.
Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, aggiunse con fatalistica rassegnazione:
— Ho perduto e pagherò.
— Posso tentare di salvarti, — disse Alfredo.
— È inutile: gli Ascianti sono miei nemici e mi uccideranno, e poi, se non lo facessero essi, non mi perdonerebbero nè Kalani, nè Geletè.
— Kalani!... Ah! Tu conosci quell’uomo?... Era stato lui ad incaricarti di spiarmi?... —
Il negro non rispose.
— Parlami di Kalani. È vero che non farà male a mio fratello?... È vero che non si vendicherà su quel povero ragazzo?... —
Nemmeno questa volta il prigioniero aprì le labbra.
— Odimi, — disse Alfredo, con viva commozione. — Io ti strapperò alla morte, te lo prometto, ma dimmi cosa ne ha fatto Kalani del fratellino mio.
— Non so nulla, — rispose il negro. — D’altronde fra poche ore sarò morto. —
Poi si rinchiuse in un silenzio feroce e rimase sordo ed impassibile a tutte le domande, a tutte le promesse d’Alfredo. Sapendo di morire, pareva che provasse una gioia crudele delle ansietà dell’uomo bianco.
Il dikero pose fine a quell’interrogatorio che esasperava il cacciatore, ordinando che si recasse l’odum pel giudizio dei numi.
Questo odum non è altro che la corteccia d’un albero a cui gli Ascianti attribuiscono delle proprietà miracolose, strabilianti. Serve ad indicare i veri colpevoli, a torto od a ragione, non importa.
Si dà al reo da masticare un pezzo di quella corteccia, poi gli si fa inghiottire una grande quantità d’acqua. Se la rigetta e ciò non succede quasi mai, è dichiarato innocente, ma se la trattiene e ciò succede quasi sempre, è subito punito, essendo tutti convinti che egli sia realmente colpevole.
Ad un ordine del dikero il ladro, che non voleva confessare di essere una spia di Geletè, fu seduto su di uno sgabello, poi il carnefice, riconoscibile pel suo berretto di pelle di leopardo e pei due coltellacci pendentigli sul petto, gli diede da masticare il pezzo di odum, ingiungendogli di tenerlo in bocca parecchi minuti, fino a ridurlo in briciole.
— Credo che quel povero diavolo sia spacciato, — disse Antao, che seguiva con curiosità quella strana prova.
— È convinto anche lui di non poter provare il contrario, — rispose Alfredo.
— E lo uccideranno?
— Non avrà scampo. Se fosse a Cumassia potrebbe avere qualche speranza di salvarsi, ma qui non vi è alcun luogo inviolabile.
— Forse che a Cumassia vi è un luogo dove i condannati possono salvare la pelle?...
— Sì, è un piccolo villaggio che si chiama Butama e che è separato da Cumassia da un piccolo corso d’acqua. Qualunque condannato che varchi quel ruscello è al sicuro contro la collera di tutti i dikeri e perfino del re, perchè là sorgono le tombe della famiglia reale e perciò quel territorio è sacro. —
In quell’istante le loro parole furono soffocate da un urlìo feroce, emesso dalla folla. Il dahomeno aveva bevuto l’acqua e, come era da aspettarsela, non l’aveva rigettata.
Pronto come un lampo, il carnefice aveva afferrata la vittima pel collo e secondo l’uso gli aveva trapassato, con un lungo ed acuto coltello, le gote e la lingua, per impedirgli di pronunciare il gran giuramento del re, formula che gli avrebbe dato il diritto di salvare la vita per un certo tempo e di venire fucilato invece di torturato.
Antao ed Alfredo, spinti dal loro animo generoso, si erano lanciati verso il prigioniero per cercare di strapparlo dalla morte, ma il corriere del re ed i suoi uomini si erano affrettati a chiudere il passo, dicendo con tono minaccioso:
— Gli uomini bianchi non hanno da fare colla giustizia del re! —
Intanto il carnefice aveva approfittato per piantare nelle spalle del paziente due lunghe forchette e legatogli una corda al collo, l’aveva tratto sulla piazza, costringendolo a camminare, mentre la folla gli si precipitava dietro urlando e ridendo ed agitando dei tizzoni accesi.
— Vieni, Antao, — disse Alfredo. — Ciò è ripugnante. — E presolo per una mano lo trasse verso la casa del dikero, seguìto da Asseybo.
— Ma cosa faranno ora di quel disgraziato? — chiese Antao, che porgeva ascolto alle urla crescenti della folla.
— Lo conducono in giro per la città, costringendolo a ballare in ogni via.
— Ma se non lo potesse?...
— La folla lo costringerebbe coi tizzoni accesi.
— E poi lo decapitano?...
— C’è del tempo. Gli Ascianti non sono meno crudeli dei Dahomeni e prima lo tortureranno diabolicamente.
Quando avrà finita la passeggiata, il carnefice avrà tagliato parecchi pezzi di carne sul corpo di quel disgraziato.
— Ma allora lo ucciderà?
— No, poichè i carnefici sono abili e sanno che se uccidono la vittima prima che sia giunta l’ora, devono prenderne immediatamente il posto.
— Ma quando finiranno di torturarlo?...
— Non prima di questa sera. A mezzodì gli accorderanno un po’ di riposo e gli daranno una zucca di vino di palma per rinvigorirsi, poi lo costringeranno a riprendere la passeggiata e le danze innanzi alle autorità. Se si presterà volentieri a quei salti, la sua testa non tarderà a cadere sotto il coltello del carnefice, ma se si rifiutasse, disgraziato lui.
Prima di perdere la testa, quei mostri gli troncheranno ad una ad una le membra.
— Che razza di canaglie!... Il diavolo si porti il dikero e tutti i suoi negri. Prendiamo le nostre casse ed i nostri animali ed andiamocene, Alfredo. Rinuncio all’ospitalità di quel selvaggio sanguinario.
— Non chiedo di meglio, Antao. Preferisco andare ad accamparmi nella pianura o in mezzo ai boschi. —
Dinanzi all’abitazione del giudice trovarono i due dahomeni e la giovane negra, la quale attendeva ansiosamente il ritorno dei due bianchi.
Quando se li vide dinanzi, un vero grido di gioia irruppe dalle labbra della brava ragazza e fu tale la contentezza d’Antao, nel rivederla, che non potè fare a meno di abbracciarla.
— Morte di Giove, Venere, Urano e di tutti i pianeti del firmamento!... — esclamò. — Ti giuro, mia povera giovane, che io sono commosso. —
Stava per tempestarla di domande, ma Alfredo gli troncò le parole dicendo:
— Più tardi, Antao. Pensiamo a prendere il largo prima che il dikero ritorni. —
I due dahomeni e Asseybo bardarono i cavalli che erano stati ricoverati in una vicina tettoia, dai servi del dikero, si fecero consegnare le casse rubate, le caricarono in fretta sul dorso degli animali e partirono di corsa seguìti dai due europei e dall’amazzone, la quale era già perfettamente guarita.
Mezz’ora dopo erano tanto lontani, da non udire più le urla feroci della popolazione martirizzante la spia di Kalani.