La Costa d'Avorio/21. Attraverso la regione dei Krepi
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Capitolo XXI
Attraverso la regione dei Krepi
La carovana marciò senza interruzione fino a notte tarda attraverso alla pianura, spingendo i cavalli ad un mezzo galoppo e non si arrestò che sul margine della grande foresta, che doveva guidarli alle rive del Volta.
Uomini ed animali non ne potevano più dopo quella corsa indiavolata fatta sotto un sole ardente e senza aver mai trovato un palmo d’ombra, ma i primi erano contenti di trovarsi così lontani da quella città dei cui abitanti era meglio diffidare, malgrado le premure e l’aiuto prestato dal dikero.
Quand’ebbero cenato e le tende furono rizzate presso i fuochi accesi per tener lontane le fiere, Alfredo chiamò attorno a sè tutti, dicendo:
— Ed ora, parliamo.
— Per Giove!... — esclamò Antao. — Credo che sia giunto il momento di sciogliere un po’ la lingua. Quella corsa precipitosa non mi ha concesso di scambiare una parola con questa ragazza.
— Puoi parlare a tuo comodo, Antao, o meglio le parleremo insieme. Anch’io sono curioso di sapere tante cose che deve ormai conoscere, essendo stata quattro giorni coi suoi rapitori. È vero, Urada?...
— Sì, padrone, — rispose la negra, sorridendo. — Credilo però, sono stata rapita contro la mia volontà.
— Ne siamo convinti, — disse Antao. — Se così non fosse, non avresti gettati nel bosco quei segnali.
— Li avete trovati?... Dunque avevate seguìto le tracce dei ladri?
— Certo, Urada. Ma in quale modo ti hanno rapita? — chiese Alfredo.
— Io dormivo sotto la tenda, quando fui svegliata dagli spari dei due schiavi. Uscii all’aperto per vedere cosa succedeva e mi vidi dinanzi un orribile mpungu.
Spaventata, mi preparava a fuggire, quando comparvero improvvisamente tre negri armati di fucili. Il gorilla fuggì ed i negri ne approfittarono per caricare le casse sui cavalli e rientrare nella foresta dopo d’avermi gettata nella lettiga.
Seppi più tardi che mi avevano rapita credendo che io fossi una vostra prigioniera, essendosi accorti che io era una loro compatriota.
Dapprima avevo sospettato di essere caduta nelle mani di alcuni negri predoni, ma seppi ben presto che erano le spie che vi seguivano da Porto Novo, attendendo l’occasione propizia per tendervi un agguato o immobilizzarvi nei boschi.
— Erano spie di Kalani?...
— Sì, padrone, me lo dissero poi. Erano stati incaricati di seguirti, onde avvertire il loro padrone nel caso che tu avessi marciato verso la frontiera di Dahomey.
— E di mio fratello, hai udito parlare?...
— Sì, e non fecero che confermare quanto io ti dissi. Kalani te lo ha rapito non per ucciderlo, ma per obbligare te a gettarti nella bocca di quella lurida iena. Il tuo antico schiavo era certo che tu ti saresti recato ad Abomey.
— Ecco delle parole che mi tranquillizzano sulla sorte di quello sventurato fanciullo. Ah!... Kalani spera che io cada nei suoi agguati?... Sarà lui che cadrà nel laccio che gli tenderò ad Abomey.
— Ma come faremo ad entrare inosservati nella capitale di Geletè? — chiese Antao. — Non me lo hai ancora detto, Alfredo.
— Ora che abbiamo ricuperate le nostre casse, ti prometto di farti fare un’entrata trionfale ad Abomey.
— Devono contenere dei talismani miracolosi le tue casse. Mi spiegherai almeno in cosa consistono.
— È per questo che vi ho radunati tutti attorno a me.
— Getta fuori adunque i tuoi progetti.
— Dimmi, ti piacerebbe entrare in Abomey come ambasciatore?...
— Come ambasciatore!...
— Sì, Antao come un ambasciatore di qualche reame negro, di quello del Borgu, per esempio, che è confinante col Dahomey.
— Io, un bianco, un europeo?
— Non saremo più bianchi allora.
— Cosa vuoi dire?... Possibile che la mia pelle sia diventata così nera da credermi un discendente di Caam?...
— Lo diverrai: ho portato con me tutto l’occorrente per darci sulla pelle una superba tinta color fuliggine o cioccolata. —
Antao scoppiò in una fragorosa risata.
— Ridi pure, ma ti dico che noi ci dipingeremo così bene, da ingannare anche Kalani.
— E ci vestiremo anche da negri?...
— Sì, Antao, ma da negri d’alto lignaggio. Nelle mie casse vi è tutto l’occorrente.
— Ecco perchè ci tenevi tanto alle casse che ti avevano rubato!...
— Certo, e soprattutto pei regali che ho destinato a Geletè ed ai suoi cabeceri.
— Ma credi tu, Alfredo, che tale mascherata sarà possibile, senza destare dei sospetti in quel furfante di Kalani?...
— Vedrai che nessuno più ci conoscerà! Ho portato con me perfino delle bellissime barbe nere come portano i ricchi del Borgu e delle parrucche da negro.
— E che cosa andremo a proporre a Geletè?...
— Qualche trattato d’amicizia, un’alleanza difensiva od offensiva per esempio. Geletè sa che gli uomini del Borgu sono valorosi e si guarderà bene dal rifiutare e ci riceverà coi dovuti onori.
— Magnifico progetto!... — esclamò il portoghese.
— Ne convieni?...
— Certo, Alfredo.
— Credi possibile la sua riuscita?...
— Ho piena fiducia, ma quando saremo entrati in Abomey, come faremo a liberare tuo fratello?...
— Lo si vedrà.
— E Kalani?...
— Lo ucciderò, — disse freddamente il cacciatore, mentre un lampo d’odio gli balenava negli sguardi.
Poi volgendosi verso Urada:
— Hai compreso tutto?...
— Sì, padrone, — rispose la giovane negra.
— Hai delle obbiezioni da fare?
— No, poichè credo che in nessun altro modo potresti giungere ad Abomey senza allarmare Kalani.
— Ora sono tranquillo.
— E quando faremo la nostra toletta? — chiese Antao. — Sono impaziente di vedere quale figura farò tinto di nero.
— Quando avremo varcato il Volta e saremo entrati nel territorio del Dahomey. Per ora è inutile.
— Padrone, — disse Asseybo, che fino allora non aveva pronunciato una sillaba. — Vuoi un consiglio?...
— Parla, — disse Alfredo.
— Marciamo a grandi tappe e cerchiamo di giungere ad Abomey nel minor tempo possibile.
— Perchè dici questo?...
— Uno dei ladri è fuggito e noi non sappiamo se gli uomini del dichero saranno riusciti ad arrestarlo. Può passarci dinanzi ed avvertire Kalani delle nostre intenzioni.
— Speriamo che l’abbiano preso. Quell’uomo però, solo, forse inerme, privo d’un quadrupede, non sarà in grado di lottare in celerità con noi. D’altronde non ci potrà riconoscere.
Ed ora, amici, riposiamo. Domani marceremo verso il Volta e quando avremo attraversata la regione dei Krepi, diverremo tutti negri. —
L’indomani, dopo una notte tranquillissima, la carovana ripartiva a marce forzate, per guadagnare il fiume prima che calasse la notte.
La traversata dei boschi si compì senza difficoltà e senza cattivi incontri, e verso il tramonto s’accampava sulla riva opposta del fiume.
Nei giorni seguenti marciò, quasi senza interruzione, salvo alla notte per riposare, attraverso la regione del Krepi; un vasto territorio compreso fra il Volta ed il possedimento inglese della Costa d’Avorio ed il fiume Mono, e che gli Ascianti ed i Dahomeni ben sovente scorrazzavano per provvedere di schiavi da macellare nelle atroci feste del sangue.
Questa regione, che da alcuni anni si trova sotto il protettorato della Germania, era allora formata da un grande numero di piccoli reami, assolutamente incapaci di far fronte ai due potenti vicini. I Krepi occupano la parte settentrionale ed i Togo la meridionale. Pochi sono i centri popolosi; fuorchè Hpandu, presso il Volta, Waya presso il Todij a breve distanza dalla frontiera del possedimento inglese, Kpetu sullo stesso fiume e Atakpam molto al nord, nella regione degli Akposso, tutti gli altri non sono che piccoli villaggi di nessuna importanza.
In cinque giorni la piccola carovana, dopo d’aver superata la regione montuosa che si estende dal sud-ovest al nord-est attraverso il 7° di latitudine e di aver fatto delle brevi fermate nei villaggi di Tota, di Misahohe, di Pelome e di Togodo, per provvedersi di viveri freschi, giungevano presso il fiume Mono, il quale scorre a poche miglia di distanza dalla frontiera, e quattro ore più tardi si accampavano sul territorio del feroce Geletè.
Il Dahomey è un regno che come vastità di territorio e come popolazione non può competere con quello degli Ascianti, ma come potenza militare lo supera, essendo i suoi abitanti i più bellicosi di tutta la Costa d’Avorio.
Fondato circa due secoli or sono, si è mantenuto indipendente fino in questi ultimi anni e di certo lo sarebbe ancora, se la baldanza e la ferocia di Behanzin, successore di Geletè, non avesse decisa la Francia ad invaderlo, mettendo fine ai secolari bagni di sangue, che sotto vari pretesti, si facevano annualmente nella capitale o nella città santa di Kana.
La sua superficie è vasta, poichè si estende dal mare al nono grado di latitudine nord, ossia fino allo spartiacque del bacino del Niger con quello dei fiumi che si gettano lungo la costa della Guinea occidentale, e dal paese dei Togo a quello dell’Opara che scaricasi presso Porto Novo, su una distesa di duecentottanta chilometri dall’ovest all’est.
Il suo clima è però uno dei più micidiali e dei più insopportabili di tutte le regioni della Costa d’Avorio, essendo quella regione proprio sotto l’equatore, esposta ad una vera pioggia di fuoco che rende quasi impossibile il soggiorno agli Europei, anche sugli altipiani dell’interno.
Verso il mare poi è peggiore ancora, poichè le paludi ed i grandi boschi ne fanno un covo di febbri algide mortali a tutti coloro che non si sono acclimatizzati, e pericolosissime perfino agli indigeni.
Verso la costa il paese è tutto boscoso, ricco di piante colossali e di palme d’elais, ma di passo in passo che si allontana, la grossa vegetazione sparisce, gli altipiani si succedono in forma d’immense terrazze coperte solamente da un’erba alta due metri, chiamata erba di Guinea.
È su quegli altipiani che sorgono le città più importanti del regno, Abomey che è la capitale, Kana detta la città santa dove sorgono le tombe dei re e dove si fanno i grandi sacrifici umani, Agu, Akpuel, Doko e Bobek, ma queste quattro ultime si possono considerare, più che città, grosse borgate.
Sulla costa invece non sorge che Widak, la sola città dove era permesso agli europei di soggiornare e di trafficare e dove pagavano i loro contributi al re in bottiglie di rhum e di cognac.
Pochi però erano, prima dell’occupazione francese, i dahomeni che entravano in questa città e non vi andavano senza manifestare un vivo ribrezzo, credendola contaminata dalla presenza degli Europei.
Una sola volta all’anno i preti si recavano colà in processione portando i loro feticci e per sacrificare, alle divinità marittime, una delle più belle fanciulle del regno, la quale veniva spinta in mare a pasto dei numerosi pescicani che infestano le spiagge della Costa d’Avorio.
La popolazione di questo regno, diventato così tristamente celebre per le sue barbarie, sembra composta di due razze distinte. Quella inferiore, composta per la maggior parte di schiavi rapiti ai paesi vicini, caratterizzata da una estrema bruttezza fisica e da un vero degradamento morale; quella superiore alla quale appartengono la famiglia reale e la classe dominante, caratterizzata da una intelligenza svegliatissima e da lineamenti regolari che s’avvicinano al tipo europeo.
Queste due razze non superano il milione d’anime, di cui i due terzi sono costituiti dagli schiavi, povere vittime che erano destinate a venire macellate nelle feste del sangue, quando mancavano i prigionieri di guerra.
Nazione eminentemente guerresca, il Dahomey ha sempre dato del filo da torcere ai suoi vicini, ai Togo, ai Krepi ed agli Yoruba. Per secoli e secoli si è mantenuto non solo indipendente, ma ha respinto vittoriosamente le aggressioni dei nemici, affermandosi come potenza militare valorosissima.
Cosa strana, forse unica in tutti i popoli non solo dell’Africa ma del mondo, la sua forza soprattutto veniva costituita dai suoi reggimenti di amazzoni, reclutate fra le più belle, le più robuste e le più crudeli ragazze del regno.
Allevate con estrema cura, rinvigorite con lunghi esercizi militari, addestrate nelle armi e sottoposte ad una ferrea disciplina, per lunghi anni quelle intrepide donne mantennero alta la fama guerresca. Erano loro che entravano in campo quando i soldati dahomeni cominciavano a piegare e si narra che i loro attacchi erano così irresistibili e la loro ferocia tale, da assicurare sempre la vittoria.
Il loro numero non ha mai superato le tremila e costituiva la guardia reale. Il loro armamento consisteva in fucili e larghi coltellacci che sapevano adoperare con una destrezza spaventosa.
Scaricate le armi, si scagliavano come furie contro le orde nemiche col coltello in pugno, non avendo che una sola mira: quella d’impadronirsi della testa d’un avversario da regalare al loro re.
La stirpe reale del Dahomey, cessata pochi anni or sono coll’esilio di Behanzin successore di Geletè, debellato dalle armi vittoriose del generale Doods, era una delle più giovani, poichè la sua fondazione non risaliva che al 1724, nella cui epoca Guagiah-Truda, piccolo principe di Abomey, ma valoroso guerriero, riusciva a formarsi un vasto regno riunendo sotto il suo potere i reami di Adrah, Toffoa, Allahda, Xavy e di Wydak dopo d’averli vinti.
L’autorità di quei monarchi sanguinari, era però potentissima, anzi senza limiti.
I personaggi più importanti del regno, non erano, rispetto a loro, che i primi schiavi; il popolo invece una massa di animali da macellare di quando in quando, per placare le ire della divinità e dei sovrani defunti.
Potevano disporre a loro talento della vita di tutti gli abitanti del regno e dei loro averi, e come ne abusavano!... Quando gli schiavi da sacrificare mancavano, non si peritavano di scegliere le vittime fra i sudditi, senza che questi mai avessero osato di ribellarsi.
Sul numero degli uomini che macellavano nelle feste delle grandi usanze, basti sapere che il governatore portoghese dell’isola di S. Tommaso, riusciva a riscattarne, in una sola volta milleduecento, destinati a perire in una festa secondaria!...