La Costa d'Avorio/19. Sulle terre degli Ascianti
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Capitolo XIX
Sulle terre degli Ascianti
Mentre il negro, aiutato dai due dahomeni che si erano affrettati ad attraversare il fiume coi cavalli, scavava una buca profonda che doveva servire di forno e facevano raccolta di rami secchi per riscaldarla per bene, Alfredo, armatosi d’una scure, tagliava a gran colpi i piedi anteriori del colosso e faceva a pezzi la proboscide.
Il portoghese dal canto suo girava, e rigirava attorno a quella montagna di carne che sarebbe bastata a nutrire una tribù affamata, ammirando quella testa enorme, quel corpo mostruoso e soprattutto quelle magnifiche zanne che potevano rendere almeno tremila lire sui mercati della Costa e ben di più in Europa.
— È una pazzia uccidere questi colossi, — diceva. — Ecco qui parecchie tonnellate di carne perduta e che saremo costretti a regalare alle fiere della foresta.
— Vorresti portarti via questa colossale carcassa, Antao? — rispondeva Alfredo, che si accaniva contro le due zampe. — Ci vorrebbe un treno ferroviario e poi non credere che tutta questa carne sia succolenta.
I negri la mangiano, ma è coriacea quanto la carne d’un mulo vecchio. Accontentati quindi di assaggiare i pezzi scelti.
— Dimmi, Alfredo, si uccidono molti elefanti in Africa? Mi pare che simili mostri debbano fare paura a tutti.
— Che facciano paura, quando sono irritati, è vero, ma l’avidità rende coraggiosi anche i negri. L’avorio è un articolo troppo ricercato sulle coste africane, per lasciare in pace questi colossi.
Ti dirò che si è calcolato che in Africa se ne uccidano annualmente dai sessanta ai settantamila.
— Settantamila, hai detto!... — esclamò il portoghese.
— Sì, Antao, e per ottenere sette od ottocentomila chilogrammi d’avorio.
— E solamente per i suoi denti?...
— Solamente, poichè i cacciatori di elefanti non si curano della carne. Tutt’al più fanno come noi, cioè si accontentano di cucinarsi qualche piede o qualche pezzo di proboscide per la colazione o pel pranzo.
— Ma continuando queste stragi finiranno col fare scomparire la razza.
— Certo, Antao. In certe regioni, specialmente del sud gli elefanti sono già diventati rari e se non si pone un freno a quei cacciatori, fra venti o trent’anni non se ne troverà più uno in tutta l’Africa.
Devi poi notare che l’elefante africano si riproduce molto lentamente. Prima di vent’anni non è atto alla riproduzione e alla femmina occorrono tre anni prima che dia alla luce il figlio e questo è sempre uno solo.
In India si segano i denti agli elefanti senza fare agli animali alcun male, onde non compromettere gravemente la conservazione della specie, ma qui invece si uccidono, abbandonando le spoglie alle iene ed agli sciacalli.
— Eppure quali preziosi servigi potrebbero rendere anche questi colossi del continente nero!
— Questi animali, che sono i più filosofici, i più intelligenti e i più tenacemente laboriosi, addomesticati come quelli indiani, sarebbero d’una utilità immensa per la loro forza prodigiosa. Non ci sarebbe più bisogno di organizzare quelle numerose e costose carovane d’uomini per portare i prodotti delle regioni interne alle coste.
— Pure anticamente i cartaginesi si servivano degli elefanti africani nelle guerre.
— È vero, Antao, ed anche dopo la distruzione di quel popolo se ne servirono per parecchi secoli i Numidi ed i Romani, ma nell’enorme scompiglio politico e sociale che nel medio evo sconvolse le popolazioni d’Europa e dell’Africa settentrionale, si trascurò l’arte di addomesticare quegli utilissimi animali e da allora più nessuno se ne occupò.
Quando si penserà a utilizzare ancora gli elefanti, probabilmente la razza sarà stata distrutta dall’avidità insaziabile dei cacciatori d’avorio.
— Ma le colonie delle nazioni europee, non hanno fatto alcun tentativo?
— Pare che ora si cerchi di addomesticarne alcuni. La cosa non è difficile, e quali vantaggi ne trarrebbero i coloni, specialmente quelli delle stazioni interne!... Pensa che i negri portatori più robusti non possono caricarsi d’un peso superiore ai venticinque chilogrammi, nè percorrere oltre venti chilometri al giorno, mentre gli elefanti possono portare parecchie diecine di quintali percorrendo in media dai sessanta ai settanta chilometri ogni dodici ore.
— Ma il vitto!...
— Se lo procurano essi stessi nelle foreste, quindi quasi nulla verrebbero a costare. Orsù, il forno è pronto e finchè i piedi e la tromba si cucinano, possiamo dormire alcune ore. —
Asseybo e i dahomeni avevano sbarazzato la buca dai tizzoni, avendovi acceso nel fondo un grande fuoco. Avvolsero i pezzi della tromba ed i due piedi entro grandi foglie di banano unitamente a delle erbe aromatiche trovate nella foresta e ve li gettarono dentro, coprendoli con cenere calda e poi con terra.
Livellato il terreno, vi accesero sopra un altro fuoco che dovevano conservare per un paio d’ore.
Antao e Alfredo, dopo d’aver assistito a quegli ultimi preparativi, si ritirarono sotto la tenda che era stata nuovamente rizzata, addormentandosi profondamente.
Non si svegliarono che verso le sei del mattino, alle insistenti e rumorose chiamate del bravo Asseybo.
I dahomeni avevano aperto il forno e levati i due piedi ed un grosso pezzo di proboscide, i quali fumavano sopra una grande foglia di banano selvatico, spandendo all’intorno un delizioso profumo.
I due cacciatori, ai quali l’aria fresca del mattino aveva stuzzicato straordinariamente l’appetito, non si fecero pregare per dare l’assalto all’arrosto.
Antao dovette confessare che quei pezzi del colosso africano potevano gareggiare coi migliori dei più grassi buoi e dei più grassi maiali. I negri poi fecero tanto onore a quell’arrosto, da non essere quasi più capaci di muoversi.
Fortunatamente Alfredo aveva accordato una mezza giornata di riposo, per lasciare tempo ai ladri di giungere ad Abetifi e per tagliare i due superbi denti del colosso, non volendoli abbandonare al primo venuto. Rappresentavano una bella cifra e potevano servire di gradito regalo al governatore di Abetifi per renderselo propizio e per avere aiuti contro le spie di Geletè.
Fu verso le quattro pomeridiane, quando il gran calore cominciava a scemare, che la piccola carovana si rimise in marcia, portando con sè i due colossali denti che i negri, dopo molto lavoro, erano riusciti a troncare a gran colpi d’accetta.
Le tracce dei fuggiaschi erano state smarrite forse perchè distrutte dall’irrompere impetuoso degli elefanti selvaggi, i quali avevano sconvolta la foresta, ma ormai Alfredo sapeva dove erano dirette le spie e questo gli bastava.
Essendo munito d’una buona carta e d’una bussola, era certo di giungere ad Abetifi anche passando attraverso la foresta e poi sapeva che al di là di quegli alberi doveva estendersi la gran pianura, sulla quale una città considerevole non poteva sfuggire agli sguardi.
Un’ora prima del tramonto, la carovana ripassava l’Afram, e superati pochi macchioni si trovava sul margine della grande pianura che doveva estendersi, quasi senza interruzione fino alla capitale degli Ascianti, a Cumassia.
Non essendo interrotta che da pochi gruppi d’alberi o da piante isolate, appena volti gli sguardi verso il sud-ovest, Alfredo ed Antao scorsero ad una distanza di otto o dieci miglia, un gruppo di dadi biancastri, attorno ai quali si stringevano moltissimi coni di colore oscuro.
— Abetifi? — chiese il portoghese.
— Sì, — rispose Alfredo. — Non è possibile ingannarsi.
— È vero, padrone, — dissero i due schiavi dahomeni.
— Siete stati in quella cittadella?...
— Sì, padrone.
— Credete che le vostre bestie possano resistere fino a quelle case?... È necessario che penetriamo in Abetifi prima dell’alba od i ladri ci fuggiranno.
— Lo potranno, rallentando un po’ la marcia.
— Sapete se domani vi è mercato in città?...
— Sì, padrone.
— Allora siamo certi di sorprendere quei furfanti. —
Fu concesso un riposo di quattro ore ai due cavalli, durante le quali ne approfittarono anche gli uomini, prevedendo che non avrebbero potuto chiudere gli occhi prima dell’indomani sera.
Alle dieci di sera, abbeverati abbondantemente gli animali, essendo scarsissima l’acqua in quelle vaste pianure calcinate dal sole, la carovana riprendeva la marcia attraverso a quegli strati d’erbe disseccate.
Procedevano lentamente, con precauzione, colle carabine armate sotto il braccio, servendo quelle alte erbe di ricovero ad una grande quantità di pericolosi animali, a serpenti pitoni lunghi sei e perfino sette metri che fra le loro formidabili spire stritolano un uomo come se fosse una semplice pagliuzza; a piccoli serpenti neri che posseggono un veleno quasi fulminante e contro il quale è vano ogni rimedio; a grossi ragni della specie dei migali che producono delle ferite gravissime e talvolta incurabili, ed a molti leoni, a leopardi ed a iene macchiate, le più audaci della famiglia, poichè osano perfino gettarsi contro gli uomini.
Di tratto in tratto, in mezzo ai gruppi di cespugli che si elevavano qua e là, si udivano scoppi di risa, dei ruggiti bassi e profondi, delle urla di sciacalli e talvolta anche quei fischi strani, rauchi, che annunciano la presenza dei rinoceronti, i più brutali ed i più irritabili animali della creazione.
I poveri cavalli udendo quel concerto tremavano come se avessero la febbre ed esitavano a tirare innanzi, ed anche i due dahomeni non erano tranquilli; ma Asseybo si mostrava calmo sapendo quanto valevano i suoi padroni.
Verso la mezzanotte, quando le casette della cittadella cominciavano ad imbiancarsi sotto i primi raggi dell’astro notturno il quale allora spuntava all’orizzonte, un grosso leone che stava sdraiato in mezzo ad un cespuglio presso il quale doveva passare la carovana, s’alzò con un grande salto, mostrando delle intenzioni poco pacifiche, ma vedendo i due cacciatori muovere incontro a lui colle carabine spianate, dopo un momento di esitazione credette miglior partito di prendere il largo. Con quattro o cinque balzi mostruosi si rintanò sotto un altro cespuglio e non si mosse più, limitandosi a far udire dei bassi brontolii.
Più tardi due grosse iene macchiate che stavano appiattate dietro alcune rocce che si ergevano solitarie sulla vasta pianura, tentarono di gettarsi improvvisamente sui cavalli nel momento in cui questi passavano a breve distanza, ma Asseybo appioppò sul muso della più vicina un così potente colpo col calcio del suo fucile da costringerla ad una precipitosa fuga, urlando di dolore. La compagna, spaventata da simile accoglienza, s’affrettò a seguirla con tutta la rapidità delle sue agili gambe.
Alle tre, quando ad oriente gli astri cominciavano ad impallidire, la carovana giungeva dinanzi ai primi villaggi di Abetifi i quali formavano una specie di sobborgo intorno alla città.
Più che villaggi erano minuscoli attruppamenti di capanne abbastanza male costruite.
Quelle catapecchie, di forma conica, dove vivevano nell’interno, alla rinfusa, persone ed animali domestici, erano tutte fabbricate con tronchi d’alberi spalmati d’argilla ed avevano il tetto di foglie intrecciate.
Dinanzi però ad ognuna, per quanto fosse piccola e malandata, si scorgeva l’oquiamis duah, ossia l’albero dio, il quale consisteva in un piuolo con tre o quattro rami sostenenti un vaso, entro cui cresceva una pianticella ed in un monticello di terra che i proprietari della dimora hanno il dovere d’imbiancare tutti i giorni o di tingerlo di color rosso pallido.
È sotto quel monticello che ordinariamente si nascondono le vittime sacrificate alle diverse divinità del regno e non è rado che i ricchi vi nascondano anche dell’oro, ma che nessun ladro però oserebbe toccare.
— Che strane credenze, — disse Antao, udendo le spiegazioni che gli dava Alfredo su quelle pentole svariate, contenenti quelle pianticelle venerate.
— Ma non si accontentano di avere gli oquiamis duah, — disse il cacciatore. — Hanno altri amuleti più stravaganti. Guarda quella capanna, presso la cui porta vedi quel piuolo alto un metro.
— A cosa serve?... Forse per impalare i miscredenti?...
— No, rappresenta un altro feticcio di molta importanza. Come vedi, quel piuolo sostiene una pietra che gli Ascianti, in buona fede, credono sacra e d’intorno vi è un piccolo recinto di fibre di palmizio che si mantiene accuratamente unto d’olio di palma.
Tutte le volte che i padroni della capanna mangiano, sono obbligati a deporre su quella pietra una porzione dei loro cibi, con grande consolazione dei topi o degli uccelli.
— Si vede che gli Ascianti sono amanti dei pali.
— Oh, venerano anche gli alberi che crescono nell’interno della città. A Cumassia, per esempio, ogni pianta viene rispettata e adorata come fosse un feticcio ed a nessuno è permesso di tagliarla, anche se i rami impedissero il passaggio alle persone.
Vi sono poi alcuni alberi che godono tale venerazione, che vengono tappezzati di offerte consistenti per lo più in pezzi di stoffe più o meno di valore. Quelle piante sono circondate da palizzate per proteggerle e se un uragano spezza qualche ramo, il re s’affretta a sacrificare immediatamente una o più vittime umane. Se poi l’albero venisse sradicato si fanno dei veri costumi del sangue con grande uccisione di schiavi.1
— Morte di Urano!... — esclamò Antao, indignato. — Ma in questi orribili paesi la vita umana ha dunque meno valore di un albero?... Che razza di barbari!...
— Vale ancora meno, Antao.
— Ma quante divinità adorano questi popoli, se innalzano a tale onore perfino le piante?...
— Hanno una grande quantità di dei e tutti sono gli uni più strani degli altri. I principali però sono Bassomrù grande protettore dei palazzi del re e che consiste in una scatola di legno adorna d’oro e contenente piume, pezzi di varii metalli, perle di vetro, ecc.; Bassomprak che è il protettore del fiume omonimo, segnante la frontiera del regno verso il paese dei Fanti e si festeggia ogni mercoledì; Bassomunè protettore del lago che si trova a venti miglia dalla capitale si festeggia alla domenica e forse per tale motivo viene chiamato il feticcio dei bianchi; poi Tano che abita i boschi e che è ritenuto il più cattivo e molti altri rappresentati da pietre, da piante, ecc.
Ogni persona deve scegliersi un feticcio protettore e il giorno stabilito per la festa del dio, deve scrupolosamente astenersi dal bere vino di palma e dal mangiare certi cibi. Trascurando queste cose, ognuno ha il diritto di ucciderlo ed il suo cadavere deve essere privato della sepoltura e gettato invece in un carnaio qualunque, a pasto degli avvoltoi e dei corvi.
— Una religione da pazzi, insomma.
— Se non da pazzi, certo da selvaggi, Antao. —
Erano allora giunti a tre o quattrocento passi dalla città, dinanzi ad una grande tettoia un po’ cadente, che pareva avesse servito un tempo di riparo alle carovane provenienti dalle regioni del sud.
Alfredo fece cenno ai suoi uomini di condurre là sotto gli animali, poi rivolgendosi ad uno dei dahomeni, gli chiese.
— Conosci il dikero di Abetifi?
— No, padrone.
— Sai però dove abita?...
— No, ma sarà facile saperlo.
— Asseybo, — continuò Alfredo volgendosi al servo, — tu andrai con quest’uomo dal dikero e se sarà necessario anche dall’assafo oinè (capo della città) ed esporrai loro ciò che ci è accaduto, reclamando giustizia contro i ladri. Dirai loro che noi non siamo inglesi, ma europei amici della loro nazione.
— Sono pronto a partire, padrone, — rispose Asseybo.
— Non ho ancora finito. Coi negri nulla si ottiene se non vi sono dei doni. —
Aprì una delle casse, levò una dozzina di fazzoletti di seta rossa, colore molto apprezzato da quasi tutti i discendenti di Caam, alcune file di perle di vetro, dei galloni d’oro, un paio di bottiglie di tafia gelosamente conservate fino allora e fece un pacco che mise in groppa ad uno dei cavalli, unitamente alle due zanne d’elefante.
— Va’, e cerca di trovare il dikero prima che si cominci il mercato. Noi ti attenderemo qui, poichè se gli abitanti ci vedessero, la notizia dell’arrivo di uomini bianchi si spargerebbe tosto ed i ladri approfitterebbero per prendere il largo.
— Sta bene, padrone, — rispose Asseybo. — Spero di essere di ritorno fra una mezz’ora. —
Il fedele servo ed il dahomeno s’affrettarono ad allontanarsi, mentre i due europei, per sfuggire alla curiosità delle persone dei vicini villaggi, si coricavano fra le casse, sotto la guardia del secondo schiavo.
Note
- ↑ Storico.