La Cintia/Atto III
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ATTO III.
SCENA I.
Erasto, Dulone.
Erasto. Giá deve esser la cittá tutta sepolta nel sonno e la mezanotte passata.
Dulone. Ed io stimo che non sieno ancor le due ore: voi misurate l’ore col vostro desiderio.
Erasto. Il tuo orologio è zoppo e flemmatico, si muove sempre tardi.
Dulone. E il vostro, spinto dal caldo dell’ardente desio, tocca assai presto: a chi aspetta non corre l’orologio.
Erasto. Vo’ accostarmi alla casa e fare il segno.
Dulone. Ricordatevi, padrone, quando sarete insieme, accostarvi alla luce e mirarla ben bene, accioché vi possiate accorgere se siate ingannato.
Erasto. Ti prometto che non potendola veder a mio modo, quando mi licenziarò, fingerò di abbracciarla; e cosí tôrla di peso e portarmela a casa, perché, secondo tu mi dici e io mi persuado, son stimato da goffo.
Dulone. Dubito che con la sua vista vi incanterá, e rapito dalla dolcezza porrete in oblio ancor voi stesso.
Erasto. Farò come ti ho detto, ancorché ci vada il rischio di perdervi la sua grazia.
Dulone. Fratanto farò la spia se Cintio venisse fuori, e mentre voi vi trastullerete con lei, s’egli si trastullerá con Lidia vostra sorella.
Erasto. Questo tuo suspetto è vano. Accostiamoci alla casa. — Ma non so chi vien per qua: sará certo il capitano.SCENA II.
Capitano, Erasto, Dulone.
Capitano. Chi passa, olá, scostisi lungi, che non s’infilzi in questo spadone da se stesso!
Erasto. Capitano, sète venuto a tempo per attendervi la promessa.
Capitano. Sarei venuto un pezzo prima se i birri e il capitano non m’avessero trattenuto: i quali con molta mala creanza venendomi adesso per ispiar chi fussi, io gli ho lasciati accostare, e come gli ebbi tutti a cerchio a mio modo, mi lasciai andar con un roverscio in tondo e ne feci dieci pezzi d’ognuno. Io restai circondato di gente intorno, e i corpi andaron volando per l’aria, e ancor piovono dal cielo gambe, braccia, testa e mani di quei miserelli: pochi ne scamparono per aver avuto buone gambe.
Dulone. Ecco l’avanzo de’ birri che vengono per vendicarsi.
Capitano. Bestie indiscrete, fatevi adietro, ché quelli han fatto bene a morire perché sono usciti d’impaccio; ma voi ponetevi i stivali, pigliate i cavalli da posta per andar all’altro mondo! Olá olá, fermatevi!
Erasto. Non è niuno, non dubitate.
Capitano. Meglio per loro; ché non avea pelo indosso che non gridasse carne e sangue, ché giá di farne un scamazzo di loro l’ira m’era salita insino al naso.
Dulone. Su, che badiamo?
Erasto. Tacete, vo’ far il segno alla balia: fis, fis.
Capitano. Questa non è la casa di Amasia.
Erasto. È di Cintio, che per un tragetto che abbiam fatto tra l’una casa e l’altra viene a ritrovarmi: fis, fis. Ecco la balia.SCENA III.
Balia di Cintia, Erasto, Cintia, Capitano, Dulone.
Balia. Erasto, sète qui voi?
Erasto. Eccomi, balia, dove è Amasia mia?
Balia. È qui in ordine e vi sta aspettando.
Erasto. Dille di grazia, che compaia su l’uscio, sol per dar questo contento al cor mio.
Balia. Di grazia, mirate che non siate sovragionti da alcuno.
Erasto. Non dubitate ch’io e Dulone stiam facendo la spia.
Cintia. Buona notte, Erasto, cuor mio!
Erasto. Veramente che voi sola potete darmi la buona e felicissima notte.
Cintia. Posso ben dir ch’ancor io ne ricevo la parte mia.
Erasto. Che notte notte? chiaro e felicissimo giorno! E come può esser notte dove compaiono gli occhi vostri, che a malgrado delle piú oscure tenebre scintillano intorno di splendidissima luce?
Cintia. Erasto, vita mia, areste detto piú il vero: che il lampo che vien fuor dalla fiamma accesa nel mio core illuminasse queste tenebre.
Erasto. Se il fuoco del mio petto splendesse, aggiongerei un altro sole a questo emisfero.
Cintia. Desiderarci, Erasto mio, spender il tempo in piú virtuoso essercizio che in cerimonie.
Dulone. (Che dici, capitano, è vero quanto diciamo?).
Capitano. (È vero e me ne dispiace).
Cintia. Entriamo, anima mia.SCENA IV.
Dulone, Capitano.
Dulone. Hai visto e inteso, capitano?
Capitano. Ho visto la persona, le vesti, il ventre gonfio, e intesa la voce di Amasia; il volto non ho potuto veder bene. Ma perché Cintio è il mezano del suo amore?
Dulone. Son grandissimi amici da che furon bambini.
Capitano. Oimè, che sento indragarmi d’amore e inserpentirmi di gelosia! Ahi, mondo traditore, cosí si trattano i pari miei? non so che mi tiene che non dia un calcio alla casa e non la facci balzar per l’aria con quanti vi sono dentro! Ma troppo io son vile a far conto d’una sfacciata feminella, ché non la terrei in casa per forbir i piatti né il suo padre per famiglio di stalla. Son ricercato e vo a ricercar lui: merito questo e peggio!
Dulone. Per certo che dite bene.
Capitano. O Dio, e perché non compaiono su la piazza dieci compagnie tedesche in ordine con loro coscialetti, altrettante di svizzeri o di borgognoni con una banda di cavalli, per ficcarmi in mezo a loro e sbramar il digiuno c’ho di carne e sangue umano, e sfogasse cosí l’amore e la gelosia? Ma dove sono spariti da Napoli i sgherri, i scavezzacolli, i compagnoni, ché li scapricciasse a lor modo? dove sète, o diavoli, ché vi sto aspettando con l’arme in mano?
SCENA V.
Amasio, Dulone, Capitano.
Amasio. (Io non so se sia l’ora constituita, ché a me par ogni minimo indugio una gran lunghezza di tempo. I pericoli mi atterriscono, la fortuna mi spaventa, un amor m’affida: i pericoli per amore non son pericoli. Ma non so che sia per la strada, che non mi vuol dar luogo che me ne vada per il fatto mio).
Dulone. Ma perché desideri tedeschi, svizzeri e scavezzacolli e diavoli, se la rabbia l’hai solo con Cintio che con i suoi ruffianesmi t’ha tolta l’innamorata?
Amasio. (Io non posso passar innanzi se non scaccio costor prima dalla strada).
Capitano. Adesso lo desidererei cosí all’oscuro che non potesse dir: — Siatemi testimoni! — né avesse speranza che fossimo spartiti. O Dio! se comparisse qui, subito me li presenterei con la punta su gli occhi; e s’egli sfugisse il colpo di vita, cambierei cosí de piedi e gli sarei sopra con un mandritto; e s’egli cedesse alla furia e si ritirasse adietro — ché parar di lama sarebbe mal sicuro, ché lo fenderei per mezo insino al centro della terra, — io con un salto a piè pari gli sarei nel fianco e con uno stramazzone e con un falso filo ne farei centomilla quarti.
Amasio. (Chi è questo squartatore in aria? sará certo quel ballon da vento del capitano, né sará per levarsi di qua se non lo scaccio per forza).
Dulone. Oh che ventura, capitano, ecco Cintio, quel che tu tanto desideravi! Vorrebbe passare innanzi e non può per esser visto da voi.
Capitano. Cintio è costui? Cintio? Per vita di Marte, altri che lui non desiava: non mi posso piú tenere che non mi lassi correre! Olá, chi sei? passa alla larga: non s’incontri meco chi vuol pace!
Amasio. Perché ti ho sofferto troppo, sei fatto cosí insolente; chi sei, olá? fatti innanzi!
Capitano. Costui non dice a me, che se sapesse chi sono tremerebbe dal capo alle piante.
Amasio. A te dico, capitano, se sei uomo da bene fatti innanzi!
Capitano. Non fui, non sono né voglio essere uomo da bene.
Dulone. (O cosa da crepar delle risa!).
Capitano. Ma tu chi sei?
Amasio. Son chi vuoi tu che sia, quel Cintio che desiavi.
Capitano. Se sei Cintio, non vo’ nulla da te: che occasion mi desti di adirarmi mai teco?
Amasio. Desiavi le compagnie di tedeschi, di sguizzeri, di genti d’arme per azzuffarti con loro; or temi di me solo.
Capitano. Tu non sei compagnie né di svizzeri né di tedeschi. Vien qui con un essercito e ti porrò in vero quanto n’ho detto.
Amasio. Fatti innanzi, ti dico.
Capitano. Staria ben fresco l’onor mio, che dopo aver combattuto cinquanta volte in steccato e debellato i superbi capi del mondo, voglia far questioni con un figliolaccio.
Amasio. Eccoti il fígliolaccio!
Capitano. Questa è bastonata, in malora! le conosco per prattica.
Amasio. Eccone un’altra; ché la medicina per buona che sia, se non è continuata, non fa effetto. Io ti disfido.
Capitano. Va’ va’, poni la barba prima e poi mi disfida. Che onor mi sarebbe pormi con un par tuo?
Amasio. Perché non vuoi far questione meco?
Capitano. Per ragion di Stato.
Amasio. Dove fuggi?
Capitano. Io fuggo? ahi, ciel traverso, io seguo te! Oimè, che ho avuto a rompermi il collo!
Amasio. Codardaccio, ora ti pestarò!
Capitano. Oh che onore! ferir un caduto è cosa da gentiluomo?
Amasio. Alzati, ché non vo’ offenderti mentre giaci.
Capitano. Se questo è, non m’alzerò mai. Renditi a me se non mi rendo io a te.
Amasio. Se ti partirai di qui tosto, farò teco la pace.
Capitano. M’hai ferito, non ci è l’onor mio! vo’ la sodisfazione.
Amasio. Se ti ho dato bastonate, fu per tua colpa, e son ben date e te l’hai meritate; ma se te ne ho dato piú del dovere, ne farò sodisfazione.
Dulone. (Tutto coperto di ferro e tutto armato, e pur teme! In somma, tutte l’armi del mondo non armarebbono la paura: quel pugnal li serve per busar le botti. Giá s’è alzato e se ne fugge, il poltrone).
Capitano. Qua qua, poltrone, volgeti a me!
Amasio. Eccomi; dove sei? Mi scappa di man come un’anguilla; mi provoca e poi fugge.
Capitano. Eccomi qua innanzi: mostri di non vedermi; dove fuggi?
Amasio. Fermati, dove sei balzato? Non so come trapassa per questi vicoli, ché me lo retrovo sempre dietro.
Capitano. Tu non vuoi vedermi né ti piace incontrarti con me. Eccomi qui: dove sei?
Amasio. Corro alla voce e gionto al luogo lo sento altrove. Se ti giungo ti farò ricordare di questa notte e di questo luogo.
Dulone. (Dove si vede mai la piú bella festa? lo sfida da un capo della strada, e come quel viene, se ne fugge per un vicolo e comparisce per un’altra strada; lo chiama, quel viene, ed egli scampa!) .
Capitano. Qua qua, se tu ne vuoi.
Amasio. Qui sento la voce, altrove sento il calpestio. Orsú vieni, che non vo’ che tu muoia per mia mano: la mia vendetta sia la tua vita infame: sopravivi alla tua codardia! — Questa è la casa di Lidia; vo’ fare il segno: fis, fis.
Dulone. (Ah, traditore, or sí che m’accorgo che tutto è vero quanto ho suspetto!).
SCENA VI.
Balia di Lidia, Amasio, Lidia, Dulone.
Balia. Cintio mio, sète voi qui?
Amasio. Sí ben, balia mia cara.
Balia. Lidia, Lidia figlia, che badi che non corri a ricevere il tuo Cintio?
Lidia. Cintio, anima mia, dove sei?
Amasio. Eccomi; e voi sète Lidia mia?
Lidia. Cosí fussi polvere e cenere non essendo riamata da voi!
Amasio. Avete il torto a dir cosí.
Lidia. Tutto il mondo vi predica per un tempio di cortesia e di gentilezza, solo a me usate tanta disamorevolezza e discortesia; ma io vi veggio, e appena lo credono gli occhi miei. Certo che disconviene ad una anima bella come la vostra l’esser sitibonda e ingorda dell’altrui sangue.
Amasio. (Dubito non poter contenermi ne’ termini dell’onestá, perché vorrei rispondere come devo; ma se mi mostro cosí volontaroso, l’empirò di suspezione e forse accorgerassi dell’inganno).
Lidia. Giá penso che sia diventata molle quella dura durezza che sí gran tempo è stata d’intorno al durissimo vostro cuore, e mossasi a pietá della mia fede, la qual omai meritarebbe d’esser riconosciuta da voi.
Amasio. Sappiate, Lidia, dolcissima anima mia, che voi sempre foste la piú dolce fiamma del mio core; ma l’ho sempre con simulata rigidezza cosí ben finto che voi non ve ne siate giamai accorta, dubitando che il vostro amor non fusse stabile e solido ma capriccioso e convenevole all’etá d’una fanciulla come sète, e che tra poco avreste voi mutato cervello. Ma poiché v’ho conosciuta fermissima e l’amor convenevole ad una gentildonna sua pari, ecco mi vi scuopro, ché non fu mai fiamma cosí ardente come quella che ha per amor vostro consumato e brusciato il mio petto.
Balia. Ascolta, figlia, perché si è mostrato cosí crudo: ed era ben di ragione.
Lidia. O mio penoso diletto, non conoscevate le mie fiamme palesi, anzi scolpite nel fronte, e ch’io era assai piú vostra che di me stessa? conoscerete le mie pene forse quando sarò morta?
Dulone. (Chi crederebbe ch’una fanciulla scoprisse cosí bene la sua passione?).
Amasio. Anima mia, perché conosco il vostro amor non da scherzo ma degno d’una persona come voi sète, con le ginocchia del core e dell’anima chine ve ne cerco perdono, pregandovi che siate cosí intiera padrona di me come io tutto mi vi dono per servo.
Lidia. Orsú, Cintio mio, poiché voi affermate che cosí voi m’amate come v’amo io, e che i vostri amori non sono vani o lascivi ma da sposi, con licenza de’ nostri padri potremo sposarci insieme.
Amasio. Eccovi qui prontissima la mia fede d’esservi sposo e servo mentre vivo; però calate giú, anima mia, accioché la possiamo insieme stringere.
Lidia. Cintio mio, conosco ben quanto un innamorato è infido guardiano della sua amata, e principalmente quando conosce che sia amato da lei; però io non verrò costí, ché dubito anch’io non potermi contener ne’ termini dell’onestá.
Amasio. Ma che tradimento si porebbe imaginare maggiore che tradir sotto la fede?
Lidia. Temo: se mi assecurate con giuramento, verrò subito.
Amasio. Signora mia, questo richiedermi del giuramento è una occolta maniera di notarmi d’infedeltá: perché non posso mostrarvi se vi amo o no, perché, conoscendomi voi modesto, stimarete ciò faccia costretto dal giuramento.
Balia. Credegli, figlia, credegli, ch’io verrò teco in compagnia, ché non dandovi la fede cosí da presso non vi manterrá quanto v’ha promesso.
Lidia. Ecco, ne vengo a voi.
Dulone. (Non calar giú, Lidia, ché costui è un cattivello, e si t’ará le mani adosso, non so come andrá la cosa poi).
Amasio. (Amasio, non perderti d’animo, desta in te stesso l’ardire: ché se mi scappa questa ventura dalle mani, mi morrò di dolore, avendo lasciato di far cosí bell’opra).
Lidia. Eccovi la mia fede.
Amasio. Vita dell’anima mia, la fede senza il bacio non val nulla.
Lidia. Questo è stato soverchio; orsú, tiratevi indietro, ché è mal cosa star l’esca appresso al foco. Dove mi spengete? di grazia, non fate oltraggio all’onor mio.
Amasio. Non sète voi mia moglie? non posso far di voi quel che mi piace?
Lidia. Se voi volete esser cosí mio come io son vostra, non bisogna far altra violenza; ché cosí facendo mostrate il poco amore. Balia balia, aiutami, dove sei?
Balia. Son qui impedita; verrò or ora. E che pensiate che sia ciò?
Dulone. (O povero padrone, se vedeste con gli occhi vostri quel che ho visto io, areste dato credito alle parole d’un vostro fidelissimo servidore, poiché non l’avete data per lo passato. Va’, fidati d’amici, va’. Ecco gli amici d’oggi: tutti interessi e dissegni. Chi mostrò ad uomo amicizia piú leal di costui? e or gli fa cosí gran tradimento. Oh quanto desiderarei ch’egli fusse qui adesso per fargli veder il tutto con gli occhi suoi!).
SCENA VII.
Capitano, Dulone.
Capitano. Son gito cercando quel furfantello di Cintio, l’ho dato una buona stretta ma le botte l’han gionte l’ali a’ piedi: le buone gambe l’han salvato, ché con questa sola scrima si scampa dalle mie mani.
Dulone. Io ho inteso dar certe botte e gridar molto.
Capitano. Le botte le dava io, e colui che le riceveva era quel che gridava.
Dulone. T’hai pur fatto scampar Cintio di mano: oh gran vergogna!
Capitano. Giuro a fé di Marte e di Bellona, che ancor ch’ei s’incavernasse sotterra e si rinselvasse nella Transilvania, non sará per iscampar dalle mie mani e proverá che cosa sia far sdegno ad un par mio! Non sa egli ch’io son capitano dal cui ritratto si de’ tôr il modello de tutti i capitani del mondo?
Dulone. Veggio venir fuori Cintio da Lidia, e viene a tempo.SCENA VIII.
Amasio, Capitano, Dulone.
Amasio. Sento nominar Cintio. Ancor sta qui questa bestia che non lascia far i miei fatti? eccomi qui per sbestiarti, bestiaccia!
Capitano. Qui ci manca un schiaffo e una mentita: sta da lungi e non posso dargli lo schiaffo, pazienza! della mentita non posso farne di meno. — Menti d’una mentitissima, arcimentita, arcimentitissima, mentitissimissima, missimissima mentita! Tu sei un di quei che vogliono essere uccisi per forza; ed io ti sodisfarò, ché ti darò il castigo con questa spada temprata nel sangue de’ rodomonti.
Amasio. Toglici questo!
Capitano. (Oh, figlio di puttana, un altro poco piú alto mi dava in testa; ma è gita di piatto, se no stava fresco!). Tu chi sei?
Amasio. Son io.
Capitano. (Certo sará Marte: non potrá esser altro).
Amasio. Son Cintio al tuo comando.
Capitano. (Diavolo, toglitel su calzato e vestito, ché non posso tôrmelo d’intorno tutta la notte; e gli deve venir l’odor al naso del mio valore. Ma non importa: ché se la natura mi ha fatto d’animo debole, mi ha fatto gagliardo di scrima).
Amasio. Chi è questo altro tuo amico?
Dulone. (Bisogna levarmi di qua ché non mi veggia; ché ben s’è accorto che dico mal di lui ad Erasto, e forse fra queste tenebre si volesse sfogar la rabbia c’ha contro di me).
Amasio. Ancor tu sei qui?
Capitano. (Qui ci va la schena a pericolo). Olá olá, o dalla piazza, candele candele, ladri ladri in piazza!
Amasio. Giá s’è fuggito. — Io non so se debba felice o infelice chiamarmi: ché avendo quel conseguito di che non desiava maggior cosa in vita mia, posso felicissimo chiamarmi; ma ben all’incontro misero e infelice, avendolo conseguito contro la sua volontá e col suo dispiacere. Ella certissimo si crede che sia Cintio: io ho fatto il male, altri ne ará la penitenza. Io non trovo altro rimedio al mio male che andarmene a mio padre e narrargli il successo — chi mi desia vivo mi faccia aver Lidia per isposa, ché è impossibile che viver possa senza lei; — so che m’ama e cercherá darmi sodisfazione.
Dulone. (E tu, savio capitano, che veggendoti poco lontano il bastone chiami i vicini e le candele in aiuto: la paura è buon maestro da trovar invenzioni).
Capitano. (Ad una repentina furia de nemici è forza cedere. Un buon consiglio dato a tempo fa un essercito vittorioso, e un error apporta gran ruina: quel subito consiglio fu la salvezza della mia vita).
Dulone. (Ma pur n’hai avuta una dozzina a buon conto).
Capitano. (In questi pericoli, «della necessitá bisogna far virtude»).
SCENA IX.
Cintia, Erasto, Capitano, Dulone.
Cintia. Vita mia, andate in buon’ora e ricordatevi di chi v’ama.
Erasto, Come non ricordarmi di quello che mi sta sempre físso nella mente?
Cintia. Cor mio, che fate? voi mi togliete in braccio.
Erasto. Perdonatemi, padrona, se contro il voler vostro vi porto a casa mia: da che voi mi sète moglie, non vo’ piú vivere senza voi.
Cintia. Erasto, se mi amate non fate cotal pensiero: avete sí poco conto dell’onor mio che le mie vergogne secrete volete che sieno palesi a tutto il mondo? Deh, non fate cose spinto dalla furia, ché poi non possiate pentirvene rinvenuto in voi.
Erasto. Padrona, ho cosí rissoluto.
Cintia. Uccidetemi piuttosto e sepelite me e le mie disonestá in queste tenebre! lasciate di grazia, oimè!
Capitano. (Erasto rapisce Amasia e se la porta di peso per forza: come patirò io tanta insolenza e dinanzi gli occhi miei?). Fermati olá, lascia costei!
Erasto. Se non taci e ti parti, ti farò pentir di tanta temeritá!
Capitano. Se non ti fermi, ti taglierò le gambe!
Erasto. Capitan, va’ via, non tôr briga dove non hai a far nulla.
Capitano. Come nulla? i fatti d’Amasia m’importano molto.
Erasto. Traditore, me l’hai fatta scampar di mano: mal per te, bestiaccia! — Dulone, vedilo tu?
Dulone. Io non vedo niuno: egli è sparito come una nebbia. — Ma fermatevi, dove andate?
Erasto. Orsú, me la pagherai davero!
Dulone. Padrone, io son chiaro di quanto dubitava: mentre voi sète stato in casa di Cintio, egli, uscendo dalla casa di Amasio, è stato in casa vostra, ha ragionato un pezzo con Lidia dalla finestra. Al fin calò a lui; l’ha usata violenza e fattala sua donna.
Erasto. Dovevi star imbriaco, però ti pareva di veder questo.
Dulone. Ben sta: in pago del ruffianesimo che v’ha usato, v’ha dato un bel paio di corna.
Erasto. Dovevi star in estasi.
Dulone. È possibil, padrone, ch’egli cosí volentieri vi fa credere il falso, ed io non basto a farvi vedere il vero?
Erasto. Entra e serra l’uscio.
Capitano. (Giá egli è entrato e serrato l’uscio. Vo’ sfidarlo e provocarlo, cosí provederò all’onor mio). Tic, toc.
Erasto. Chi è lá?
Capitano. È il capitano qui, per mantenerti che ha fatto molto bene a tôrti di mano Amasia la sua innamorata e fattoti restar con le man vote e come un asino.
Erasto. Dove è questo furfante bestione, dove sei, dove sei gito? stimo che sei fuggito dal mondo: misero te se t’incontro!
Dulone. Entriamo, padrone, ché egli se n’è scampato.
Erasto. Entriamo.
Capitano. Ti sei rinserrato e inchiavato, timido coniglio! hai paura di me, ah? Perché tanta bravura quando sei solo, e come ti vedi incontro me, t’incaverni e te imbuchi come un granchio? Io furfante bestione? menti per la gola: ecco son qui per mantenertelo.
Erasto. Capitano, se verrò fuori, sará mal per te; vattene con tutti i tuoi diavoli!
Capitano. Vien fuori, vien fuori dalla tua tana! romperò l’uscio a tuo malgrado e con una schieggia di quello ti darò mille legnate.
Erasto. Ah, traditor villano, questo a me? dove sei, dove ti sei appiattato, codardaccio? deh, se ti ritrovo, farò che il piú grosso pezzo di te sia l’orecchia!
Dulone. Entrate, padrone, ché questi sono suoi modi: egli è sparito via che non lo trovarebbe il demonio. Vi fará cosí tutta la notte: lascialo in sua malora!
Capitano. Giá è riserrato. Tic, toc.
Erasto. Chi è lá?
Capitano. Cosa d’importanza.
Erasto. Chi sei che batti?
Capitano. Un vostro amico, e vorrei dir una parola ad Erasto di cose importanti: che di grazia si facci su la fenestra.
Erasto. Chi sei, olá? chi domandi?
Capitano. Son quello che tu men desii che sia, son il gran capitano, il quale è qui comparso a disfidarti: che cali giú ché ti vo’ rompere la schena di bastonate e trattarti come meriti.
Erasto. Va’ va’, ché ci conosciamo insieme; domani ci rivederemo.
Capitano. Ti disfido: cala giú, non dir poi che non sia venuto a disfidarti in casa tua.
Erasto. Hai ragione, tu sei il vincitore; non mi dar piú travaglio.
Capitano. Ecco t’ho fatto conoscere chi sia io: bisogna in somma mostrar valore. Ecco ricuperato il mio onore: o vincere o morire!