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atto terzo | 145 |
SCENA II.
Capitano, Erasto, Dulone.
Capitano. Chi passa, olá, scostisi lungi, che non s’infilzi in questo spadone da se stesso!
Erasto. Capitano, sète venuto a tempo per attendervi la promessa.
Capitano. Sarei venuto un pezzo prima se i birri e il capitano non m’avessero trattenuto: i quali con molta mala creanza venendomi adesso per ispiar chi fussi, io gli ho lasciati accostare, e come gli ebbi tutti a cerchio a mio modo, mi lasciai andar con un roverscio in tondo e ne feci dieci pezzi d’ognuno. Io restai circondato di gente intorno, e i corpi andaron volando per l’aria, e ancor piovono dal cielo gambe, braccia, testa e mani di quei miserelli: pochi ne scamparono per aver avuto buone gambe.
Dulone. Ecco l’avanzo de’ birri che vengono per vendicarsi.
Capitano. Bestie indiscrete, fatevi adietro, ché quelli han fatto bene a morire perché sono usciti d’impaccio; ma voi ponetevi i stivali, pigliate i cavalli da posta per andar all’altro mondo! Olá olá, fermatevi!
Erasto. Non è niuno, non dubitate.
Capitano. Meglio per loro; ché non avea pelo indosso che non gridasse carne e sangue, ché giá di farne un scamazzo di loro l’ira m’era salita insino al naso.
Dulone. Su, che badiamo?
Erasto. Tacete, vo’ far il segno alla balia: fis, fis.
Capitano. Questa non è la casa di Amasia.
Erasto. È di Cintio, che per un tragetto che abbiam fatto tra l’una casa e l’altra viene a ritrovarmi: fis, fis. Ecco la balia.