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atto terzo 151


Amasio. Avete il torto a dir cosí.

Lidia. Tutto il mondo vi predica per un tempio di cortesia e di gentilezza, solo a me usate tanta disamorevolezza e discortesia; ma io vi veggio, e appena lo credono gli occhi miei. Certo che disconviene ad una anima bella come la vostra l’esser sitibonda e ingorda dell’altrui sangue.

Amasio. (Dubito non poter contenermi ne’ termini dell’onestá, perché vorrei rispondere come devo; ma se mi mostro cosí volontaroso, l’empirò di suspezione e forse accorgerassi dell’inganno).

Lidia. Giá penso che sia diventata molle quella dura durezza che sí gran tempo è stata d’intorno al durissimo vostro cuore, e mossasi a pietá della mia fede, la qual omai meritarebbe d’esser riconosciuta da voi.

Amasio. Sappiate, Lidia, dolcissima anima mia, che voi sempre foste la piú dolce fiamma del mio core; ma l’ho sempre con simulata rigidezza cosí ben finto che voi non ve ne siate giamai accorta, dubitando che il vostro amor non fusse stabile e solido ma capriccioso e convenevole all’etá d’una fanciulla come sète, e che tra poco avreste voi mutato cervello. Ma poiché v’ho conosciuta fermissima e l’amor convenevole ad una gentildonna sua pari, ecco mi vi scuopro, ché non fu mai fiamma cosí ardente come quella che ha per amor vostro consumato e brusciato il mio petto.

Balia. Ascolta, figlia, perché si è mostrato cosí crudo: ed era ben di ragione.

Lidia. O mio penoso diletto, non conoscevate le mie fiamme palesi, anzi scolpite nel fronte, e ch’io era assai piú vostra che di me stessa? conoscerete le mie pene forse quando sarò morta?

Dulone. (Chi crederebbe ch’una fanciulla scoprisse cosí bene la sua passione?).

Amasio. Anima mia, perché conosco il vostro amor non da scherzo ma degno d’una persona come voi sète, con le ginocchia del core e dell’anima chine ve ne cerco perdono, pregandovi che siate cosí intiera padrona di me come io tutto mi vi dono per servo.